Tolstoj, Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

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Lev Tolstoj, Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

(da Lev Tostoj, Anna Karénina)

Il tradimento viene percepito e vissuto in modo peculiare da ciascun individuo. Generalmente l’uomo considera il proprio tradimento come un peccato veniale, mentre la donna, tradizionalmente, lo ritiene più grave, anche se oggi tale divergenza sembra essersi attenuata. Nel brano che segue, l’incipit di Anna Karenina, emerge la mentalità di un maschio dell’Ottocento, con il modo di pensare tipico del periodo.

Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

Tutto era sottosopra in casa Oblonskij. La moglie era venuta a sapere che il marito aveva una relazione con la governante francese che era stata presso di loro, e aveva dichiarato al marito di non poter più vivere con lui nella stessa casa. Questa situazione durava già da tre giorni ed era sentita tormentosamente dagli stessi coniugi e da tutti i membri della famiglia e dai domestici. […]

Tre giorni dopo il litigio, il principe Stepan Arkad’ic Oblonskij – Stiva, com’era chiamato in società – all’ora solita, cioè alle otto del mattino, si svegliò non nella camera della moglie, ma nello studio, sul divano marocchino. […] E, notata una striscia di luce che filtrava da un lato della cortina di panno, sporse allegramente i piedi fuori dal divano, cercò con essi le pantofole di marocchino dorato ricamategli dalla moglie (dono per l’ultimo suo compleanno), e per vecchia abitudine, ormai di nove anni, senza alzarsi, allungò il braccio verso il posto dove, nella camera matrimoniale, era appesa la vestaglia. E in quel momento, a un tratto, ricordò come e perché non dormiva nella camera della moglie, ma nello studio, il sorriso gli sparve dal volto; corrugò la fronte.

– Ahi, ahi, ahi! – mugolò, ricordando quanto era accaduto, e gli si presentarono di nuovo alla mente tutti i particolari del litigio, la situazione senza via di uscita e, più tormentosa di tutto, la propria colpa. “Già, lei non perdonerà, non può perdonare. E quel ch’è peggio è che la colpa di tutto è mia… la colpa è mia, eppure non sono colpevole! Proprio in questo sta il dramma” pensava. “Ahi, ahi, ahi!” ripeteva con disperazione, ricordando le impressioni più penose per lui di quella rottura.

Più spiacevole di tutto il primo momento, quando, tornato da teatro, allegro e soddisfatto, con un’enorme pera in mano per la moglie, non l’aveva trovata nel salotto; con sorpresa non l’aveva trovata neanche nello studio, e infine l’aveva scorta in camera con in mano il malaugurato biglietto che aveva rivelato ogni cosa. Lei, quella Dolly eternamente preoccupata e inquieta, e non profonda, come egli la giudicava, sedeva immobile, con il biglietto in mano, e lo guardava con un’espressione di orrore, d’esasperazione e di rabbia. – Cos’è questo biglietto, cos’è? – chiedeva mostrando il biglietto.

E a quel ricordo, come talvolta accade, ciò che tormentava Stepan Arkad’ic non era tanto il fatto in se stesso, quanto il modo col quale egli aveva risposto alle parole della moglie.

Gli era accaduto in quel momento quello che accade alle persone che vengono inaspettatamente accusate di qualcosa di troppo vergognoso. Non aveva saputo adattare il viso alla situazione in cui era venuto a trovarsi di fronte alla moglie dopo la scoperta della propria colpa. Invece di offendersi, negare, giustificarsi, chiedere perdono, rimanere magari indifferente – tutto sarebbe stato meglio di quel che aveva fatto – il suo viso, in modo del tutto involontario (azione riflessa del cervello, pensò Stepan Arkad’ic, che amava la fisiologia), in modo del tutto involontario, aveva improvvisamente sorriso del suo usuale, buono e perciò stupido sorriso.

Questo stupido sorriso non riusciva a perdonarselo. Visto quel sorriso, Dolly aveva rabbrividito come per un dolore fisico; era scoppiata, con l’impeto che le era proprio, in un diluvio di parole dure, ed era corsa via di camera. Da quel momento non aveva più voluto vedere il marito.

“Tutta colpa di quello stupido sorriso – pensava Stepan Arkad’ic. – Ma che fare, che fare?” si chiedeva con disperazione, e non trovava risposta.

Stepan Arkad’ic era un uomo leale con se stesso. Non poteva ingannare se stesso e convincersi d’essere pentito del suo modo di agire. Non poteva, in questo momento, pentirsi di non essere più innamorato – lui, bell’uomo trentaquattrenne, facile all’amore – di sua moglie, di un anno solo più giovane, madre di cinque bambini vivi e di tre morti. Era pentito solo di non averlo saputo nascondere più abilmente alla moglie. Ma sentiva tutto il peso di questa situazione e commiserava la moglie, i figli e se stesso. Forse avrebbe cercato di nascondere più accortamente le proprie colpe alla moglie, se avesse previsto che questa scoperta avrebbe agito tanto su di lei. A questo non aveva riflettuto mai con chiarezza; tuttavia, vagamente, si figurava che sua moglie, da tempo, indovinasse che egli non le era fedele e chiudesse un occhio. Gli sembrava inoltre che lei, donna esaurita, invecchiata, non più bella e per nulla affatto interessante, semplice, buona madre di famiglia soltanto, dovesse, per un senso di giustizia, essere indulgente. Era avvenuto il contrario.

“Ah, è terribile! Ahi, ahi, ahi, ahi! Terribile! – si ripeteva Stepan Arkad’ic e non riusciva a trovare una via d’uscita. – E come andava tutto bene prima d’ora! Come vivevamo bene! Lei era contenta, felice dei bambini; io non l’ostacolavo in nulla, la lasciavo libera di regolarsi come voleva, coi bambini, con la casa. È vero, non è bello che quella sia stata governante in casa nostra! Non è bello! C’è qualcosa di triviale, di volgare nel far la corte alla propria governante. Ma che governante! – e ricordò con vivezza il riso e gli occhi neri assassini di m.lle Rolland. – Del resto finché è stata in casa nostra, io non mi sono permesso nulla.

Da Lev Tolstoj, Anna Karenina,

A cura e con traduzione di Maria Bianca Luporini, Sansoni editore, 1967

Analisi del testo

Celeberrimo l’incipit del romanzo: l’autore vuole evidenziare come la felicità famigliare sia qualcosa di ordinario, di comune, forse di banale, mentre l’infelicità presenta tratti peculiari, assume il carattere della straordinarietà. La scoperta innegabile dell’infedeltà coniugale del marito, il principe Stepan Oblònskij, da parte della moglie Dolly, è la causa dello spezzarsi, che sembra irrimediabile, dell’apparente felicità famigliare.

Il brano fa emergere il punto di vista di Oblònskij, mostrando la mentalità maschile del tempo sul matrimonio e sul tradimento. Per lui la relazione con la governante è un peccato veniale, perdonabile da parte della moglie, che lui vede come una buona madre di famiglia che però dovrebbe chiudere un occhio, intuire ed accettare che egli non le sia fedele, essendo ormai invecchiata e poco attraente.

Al suo risveglio nello studio, quando rievoca gli eventi, Oblònskij si pente soprattutto della sua reazione alla scoperta di un bigliettino compromettente da parte della moglie. Quello è l’unico suo rammarico, di aver reagito non cercando di negare , di giustificarsi, di chiedere perdono ma con il suo usuale stupido sorriso, che aveva irritato terribilmente la moglie. Per il resto non poteva dirsi pentito, se non di non avere nascosto, in modo più abile, la relazione con la ex governante. Una relazione forse un po’ immorale e volgare, pensa, quella con la governante, una donna però molto attraente e con gli occhi neri assassini.

 

Esercizi di analisi del testo

  1. Il punto di vista del principe Stepan Oblònskij chiarisce la mentalità maschile del tempo sul matrimonio e sul tradimento. Indica che cosa pensa Oblònskij:
della moglie
della propria colpa
del rapporto coniugale
dell’amante
  1. Alla luce di quanto rilevato nell’esercizio precedente, componi un breve testo espositivo che descriva le opinioni di Oblònskij.

 

 

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