Canto XXXIII (Inferno) – Frate Alberigo

Frate Alberigo- Giovanni Stradano, 1587

Canto XXXIII (Inferno) – Frate Alberigo

Testo

[…]

E un de’ tristi de la fredda crosta

gridò a noi: “O anime crudeli,

tanto che data v’è l’ultima posta,                                111

levatemi dal viso i duri veli,

sì ch’io sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,

un poco, pria che ’l pianto si raggeli”.                         114

Per ch’io a lui: “Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,

dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,

al fondo de la ghiaccia ir mi convegna”.                     117

Rispuose adunque: “I’ son frate Alberigo;

i’ son quel da le frutta del mal orto,

che qui riprendo dattero per figo”.                             120

“Oh!”, diss’io lui, “or se’ tu ancor morto?”.

Ed elli a me: “Come ’l mio corpo stea

nel mondo sù, nulla scienza porto.                            123

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,

che spesse volte l’anima ci cade

innanzi ch’Atropòs mossa le dea.                              126

E perché tu più volentier mi rade

le ’nvetriate lagrime dal volto,

sappie che, tosto che l’anima trade                           129

come fec’io, il corpo suo l’è tolto

da un demonio, che poscia il governa

mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.                     132

Ella ruina in sì fatta cisterna;

e forse pare ancor lo corpo suso

de l’ombra che di qua dietro mi verna.                       135

Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:

elli è ser Branca Doria, e son più anni

poscia passati ch’el fu sì racchiuso”.                           138

“Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni;

ché Branca Doria non morì unquanche,

e mangia e bee e dorme e veste panni”.                     141

“Nel fosso sù”, diss’el, “de’ Malebranche,

là dove bolle la tenace pece,

non era ancor giunto Michel Zanche,                          144

che questi lasciò il diavolo in sua vece

nel corpo suo, ed un suo prossimano

che ’l tradimento insieme con lui fece.                         147

Ma distendi oggimai in qua la mano;

aprimi li occhi”. E io non gliel’apersi;

e cortesia fu lui esser villano.                                      150

Vv. 151-157: Invettiva contro i Genovesi.

 

Parafrasi

E uno dei dannati immersi nella gelata crosta di ghiaccio ci gridò: “O anime crudeli, al punto che vi è stato assegnata l’ultima zona, toglietemi dal viso il velo di ghiaccio, così che io possa sfogare un poco il dolore che mi riempie il cuore, prima che le lacrime tornino a congelarsi”.

Allora gli dissi: “Se vuoi che io ti aiuti, dimmi chi sei e se non ti libero gli occhi, possa io andare fino al fondo del lago ghiacciato”. Dunque rispose: “Io sono frate Alberigo; sono quello delle frutta dell’orto malvagio, che qui sono ripagato con dattero, in cambio di fico (sconto una pena più atroce della mia grave colpa)”.

Io gli dissi: “Oh! sei già morto?” E lui a me: “Non ho alcuna conoscenza di come il mio corpo stia nel mondo terreno.

Questa Tolomea ha questo vantaggio, che spesso l’anima vi cade prima che Atropos l’abbia spinta, mettendo fine alla vita.

E affinché tu più volentieri mi tolga le lacrime gelate dal volto, sappi che appena l’anima compie un tale tradimento, come feci io, il suo corpo le viene tolto da un demone che poi lo governa finché il tempo della sua vita non è concluso.

Essa precipita in questo pozzo infernale; e forse è ancora nel mondo il corpo dell’anima che sverna qui dietro a me. Lo devi sapere, se giungi quaggiù solo ora: egli è ser Branca Doria, e sono passati molti anni da quando è racchiuso qui”.

Gli dissi: “Io credo che tu mi inganni, perché Branca Doria non è ancora morto, e mangia e beve e dorme e veste panni”.

Egli disse: “Michele Zanche non era ancora arrivato nella bolgia dei Malebranche, dove bolle la viscosa pece, che costui lasciò nel suo corpo il diavolo in sua vece, e così un suo complice che con lui compì il tradimento.

Ma ormai distendi qua la mano; aprimi gli occhi”.

E io non glieli aprii; e l’essere villano fu una cortesia, verso di lui.

 

Analisi del testo

Dopo la presentazione dei traditori degli ospiti della Tolomea, entra in scena un altro personaggio, frate Alberigo dei Manfredi, di Faenza. Questi è uno dei dannati immersi nel ghiaccio fino alla testa, con il viso rivolto in alto. 

Alberigo crede che Dante e Virgilio siano due dannati, poiché le lacrime gelate gli chiudono gli occhi con una maschera di ghiaccio. Prega perciò il poeta di tergergli le palpebre per poter dare sfogo al suo dolore, prima che le lacrime si congelino nuovamente. Dante risponde che lo farà, a patto che il peccatore riveli il proprio nome, e che se non manterrà la parola dovrà andare “al fondo de la ghiaccia”. Si tratta in realtà di un inganno del poeta, perché in ogni caso egli è diretto lì. 

Il dannato risponde di essere frate Alberigo, che qui sconta la pena eterna per la sua grave colpa: uccise a tradimento i suoi parenti, che aveva invitato a pranzo, al segnale convenuto di portare la frutta (infatti l’espressione frutta di frate Alberigo divenne proverbiale). 

Dante è stupito, perché crede che Alberigo non sia ancora morto, e il peccatore gli spiega che non sa che cosa ne sia del suo corpo sulla terra. Infatti il “vantaggio” della Tolomea è che spesso l’anima che vi è destinata vi giunge prima della fine della vita. 

Per indurre Dante a togliergli più volentieri il ghiaccio dagli occhi, Alberigo aggiunge che, appena l’anima tradisce in modo così odioso, essa abbandona il corpo e un demone se ne impadronisce, governandolo fino alla morte. 

Forse, dice il dannato, sulla terra c’è ancora il corpo di Branca Doria, la cui anima invece sconta il suo atroce peccato imprigionata nel ghiaccio già da molti anni. Dante è perplesso, poiché sa con certezza che Branca Doria è ancora vivo, ma Alberigo ribatte che la sua anima è precipitata lì appena commesso il peccato, prima della sua vittima, mentre il suo corpo continuava a vivere governato da un demone. 

Alberigo sollecita Dante a mantenere la promessa di aprirgli gli occhi, ma il poeta non la mantiene e riprende il cammino, concludendo che nei confronti di un peccatore così disumano e spietato, è stato un gesto nobile e cortese essersi comportato con lui da villano. 

Dante pronuncia poi una dura invettiva contro i genovesi, estranei a ogni buona usanza e pieni di vizi, che dovrebbero essere dispersi nel mondo: nella Tolomea egli ha infatti trovato uno di loro (Branca Doria) insieme al peggiore spirito della Romagna.

 

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