Ariosto, Astolfo sulla Luna.

Astolfo

Ludovico Ariosto, Astolfo sulla luna

(Orlando Furioso, Canto XXXIV, ottave 70-86

Alla fine del XXXIII canto Astolfo sta dando la caccia alle Arpie. L’inseguimento lo porta a entrare in una grotta che conduce all’Inferno. 

Il Canto XXXIV è incentrato sulla figura bizzarra del paladino Astolfo, il cui intervento è fondamentale per la vittoria dei cristiani nella guerra contro i saraceni.

In esso Ariosto narra che il paladino, dopo una fugace visita all’Inferno, riemerso alla luce, raggiunge il Paradiso terrestre a bordo dell’Ippogrifo. Qui San Giovanni Evangelista gli rende nota la pazzia di Orlando, folle di gelosia per il tradimento della bella Angelica, il quale ha perduto il senno, che è finito sulla luna. La sua pazzia gli impedisce di combattere per re Carlo e la guerra volge a favore dei saraceni. Così Astolfo, per volontà divina, ha il compito di recarsi sulla luna a recuperare il senno di Orlando, accompagnato da san Giovanni. Ariosto rappresenta in modo fantastico il paesaggio lunare e quel che vi appare. 

70

Tutta la sfera varcano del fuoco,

et indi vanno al regno de la luna.

Veggon per la più parte esser quel loco

come un acciar che non ha macchia alcuna;

e lo trovano uguale, o minor poco

di ciò ch’in questo globo si raguna,

in questo ultimo globo de la terra,

mettendo il mar che la circonda e serra.

71

Quivi ebbe Astolfo doppia maraviglia:

che quel paese appresso era sì grande,

il quale a un picciol tondo rassimiglia

a noi che lo miriam da queste bande;

e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,

s’indi la terra e ‘l mar ch’intorno spande

discerner vuol; che non avendo luce,

l’imagin lor poco alta si conduce.

72

Altri fiumi, altri laghi, altre campagne

sono là su, che non son qui tra noi;

altri piani, altre valli, altre montagne,

c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,

con case de le quai mai le più magne

non vide il paladin prima né poi:

e vi sono ample e solitarie selve,

ove le ninfe ognor cacciano belve.

 

73

Non stette il duca a ricercare il tutto;

che là non era asceso a quello effetto.

Da l’apostolo santo fu condutto

in un vallon fra due montagne istretto,

ove mirabilmente era ridutto

ciò che si perde o per nostro diffetto,

o per colpa di tempo o di Fortuna:

ciò che si perde qui, là si raguna.

74

Non pur di regni o di ricchezze parlo,

in che la ruota instabile lavora;

ma di quel ch’in poter di tor, di darlo

non ha Fortuna, intender voglio ancora.

Molta fama è là su, che, come tarlo,

il tempo al lungo andar qua giù divora:

là su infiniti prieghi e voti stanno,

che da noi peccatori a Dio si fanno.

75

Le lacrime e i sospiri degli amanti,

l’inutil tempo che si perde a giuoco,

e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,

vani disegni che non han mai loco,

i vani desidèri sono tanti,

che la più parte ingombran di quel loco:

ciò che in somma qua giù perdesti mai,

là su salendo ritrovar potrai.

76

Passando il paladin per quelle biche,

or di questo or di quel chiede alla guida.

Vide un monte di tumide vesiche,

che dentro parea aver tumulti e grida;

e seppe ch’eran le corone antiche

e degli Assirii e de la terra lida,

e de’ Persi e de’ Greci, che già furo

incliti, et or n’è quasi il nome oscuro.

77

Ami d’oro e d’argento appresso vede

in una massa, ch’erano quei doni

che si fan con speranza di mercede

ai re, agli avari principi, ai patroni.

Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,

ed ode che son tutte adulazioni.

Di cicale scoppiate imagine hanno

versi ch’in laude dei signor si fanno.

78 

Di nodi d’oro e di gemmati ceppi

vede c’han forma i mal seguiti amori.

V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,

l’autorità ch’ai suoi danno i signori.

I mantici ch’intorno han pieni i greppi,

sono i fumi dei principi e i favori

che danno un tempo ai ganimedi suoi,

che se ne van col fior degli anni poi.

79

Ruine di cittadi e di castella

stavan con gran tesor quivi sozzopra.

Domanda, e sa che son trattati, e quella

congiura che sì mal par che si cuopra.

Vide serpi con faccia di donzella,

di monetieri e di ladroni l’opra:

poi vide bocce rotte di più sorti,

ch’era il servir de le misere corti.

80

Di versate minestre una gran massa

vede, e domanda al suo dottor ch’importe.

– L’elemosina è – dice – che si lassa

alcun, che fatta sia dopo la morte. –

Di vari fiori ad un gran monte passa,

ch’ebbe già buono odore, or putia forte.

Questo era il dono (se però dir lece)

che Costantino al buon Silvestro fece.

81

Vide gran copia di panie con visco,

ch’erano, o donne, le bellezze vostre.

Lungo sarà, se tutte in verso ordisco

le cose che gli fur quivi dimostre;

che dopo mille e mille io non finisco,

e vi son tutte l’occurrenzie nostre:

sol la pazzia non v’è poca né assai;

che sta qua giù, né se ne parte mai.

82

Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,

ch’egli già avea perduti, si converse;

che se non era interprete con lui,

non discernea le forme lor diverse.

Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,

che mai per esso a Dio voti non fêrse;

io dico il senno: e n’era quivi un monte,

solo assai più che l’altre cose conte.

83 

Era come un liquor suttile e molle,

atto a esalar, se non si tien ben chiuso;

e si vedea raccolto in varie ampolle,

qual più, qual men capace, atte a quell’uso.

Quella è maggior di tutte, in che del folle

signor d’Anglante era il gran senno infuso;

e fu da l’altre conosciuta, quando

avea scritto di fuor: “Senno d’Orlando”.

84

E così tutte l’altre avean scritto anco

il nome di color di chi fu il senno.

Del suo gran parte vide il duca franco;

ma molto più maravigliar lo fenno

molti ch’egli credea che dramma manco

non dovessero averne, e quivi denno

chiara notizia che ne tenean poco;

che molta quantità n’era in quel loco.

85

Altri in amar lo perde, altri in onori,

altri in cercar, scorrendo il mar, richezze;

altri ne le speranze de’ signori,

altri dietro alle magiche sciocchezze;

altri in gemme, altri in opre di pittori,

et altri in altro che più d’altro aprezze.

Di sofisti e d’astrologhi raccolto,

e di poeti ancor ve n’era molto.

86

Astolfo tolse il suo; che gliel concesse

lo scrittor de l’oscura Apocalisse.

L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,

e par che quello al luogo suo ne gisse:

e che Turpin da indi in qua confesse

ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;

ma ch’uno error che fece poi, fu quello

ch’un’altra volta gli levò il cervello.

Metro: ottave di endecasillabi (ottave 70-86)

Parafrasi

Astolfo e San Giovanni attraversarono tutta la sfera del fuoco, poi raggiunsero il regno della luna. Videro che la maggior parte di quel luogo appariva come d’acciaio, senza alcuna macchia, e lo trovarono uguale o di poco più piccolo della massa del globo terrestre, di questo estremo globo della terra, compreso il mare che la circonda e la racchiude.

Qui Astolfo fu doppiamente meravigliato: perché quel luogo visto da vicino era così grande, mentre somiglia a un piccolo globo a noi che lo guardiamo da quaggiù; e perché era costretto ad aguzzare gli occhi, se voleva vedere da lassù la terra e il mare che la circonda, perché non emanando luce propria, la loro immagine arrivava poco lontano.

Ben altri fiumi, ben altri laghi, ben altre campagne ci sono lassù, che non sono qui da noi; ben altre pianure, ben altre valli, ben altre montagne, con città e castelli, con case che il paladino mai vide così grandi né prima né in seguito: ci sono foreste enormi e solitarie, dove le ninfe sono sempre a caccia di belve feroci.

Astolfo non si soffermò tanto a esplorare, perché non era salito lassù per quello. Fu condotto dal santo apostolo Giovanni in una vallata stretta tra due montagne, dove in modo incredibile era raccolto tutto quello che si perde o per nostra mancanza, o per colpa del tempo o della Fortuna: quel che quaggiù va perduto, lo si trova tutto lassù.

Non parlo solo di regni e di ricchezze, che la ruota della Fortuna rende instabili, ma anche di ciò che la Fortuna non ha il potere di togliere e di dare. Lassù c’è molta fama, che quaggiù il tempo, col suo lungo scorrere, divora come fosse un tarlo: ci sono lassù infinite preghiere e suppliche che noi peccatori rivolgiamo a Dio.

Le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo che si sperpera inutilmente al gioco, il lungo ozio di uomini ignoranti, i vani progetti che mai si realizzano e i desideri illusori sono tanti da ingombrare larga parte di quel luogo: insomma, qualunque cosa tu abbia perduto quaggiù sulla terra, potrai ritrovarla salendo lassù.

Il paladino, mentre passava in mezzo a quei cumuli di cose, di questo e di quello chiese alla sua guida. Vide un monte fatto di sacche rigonfie, dal cui interno sembravano venire tumulti e grida: seppe che erano gli antichi regni degli Assiri e della Lidia, dei Persiani e dei Greci, che un tempo furono famosi, mentre ora il loro nome è quasi sconosciuto.

Vide poi ami d’oro e d’argento ammassati, che erano quei doni che si fanno ai re, ai principi avari, ai protettori con la speranza di una ricompensa. Vide lacci nascosti dentro corone: chiese, e sentì che erano tutte adulazioni. I versi scritti in lode dei signori avevano l’aspetto di cicale scoppiate.

Vide che gli amori sbagliati hanno forma di nodi dorati e di ceppi ricoperti di gemme. Vi erano artigli di aquile, che erano, seppi, il potere che i signori danno ai loro uomini. I mantici che attorno riempivano i pendii, erano i vani onori e i favori che per qualche tempo i principi danno ai loro favoriti, e che poi sfumano insieme alla loro giovinezza.

Rovine di città e di castelli stavano qui alla rinfusa, assieme a grandi tesori. Chiese a Giovanni, e venne a sapere che sono i trattati violati, e quelle congiure che sembrano così difficili da nascondere. Vide serpenti con viso di fanciulla, che sono le opere di falsari e di ladroni, poi vide bottiglie rotte di vario tipo, che erano il servire dei cortigiani nelle avare corti.

Vide una gran mole di minestre versate e chiese alla sua guida che cosa significassero. -È l’elemosina – disse- che alcuni chiedono che venga fatta dopo la loro morte.- Passò poi a una grande montagna di vari fiori, che avevano avuto un tempo buon odore ma ora puzzavano forte. Questo era il dono (se però è lecito chiamarlo così) che Costantino fece al buon papa Silvestro.

Vide gran quantità di trappole fatte col vischio, che erano, o donne, le vostre bellezze. Sarebbe lungo, se descrivessi in versi tutte le cose che sulla Luna gli furono mostrate. Infatti dopo mille e mille non terminerei, perché ci sono tutti gli oggetti e i beni da noi perduti: soltanto la pazzia non c’è, né poca né assai, perché sta sulla terra senza andarsene mai.

Qui rivolse l’attenzione ad alcuni giorni e fatti suoi, che egli aveva già dimenticato, che se non ci fosse stato san Giovanni a spiegarglieli non li avrebbe riconosciuti per le loro diverse forme. Poi giunse a quello che a noi tanto sembra di avere, tanto che mai per esso si son fatti voti a Dio. Parlo del senno: ve n’era lì una montagna, da sola molto più grande di tutte le altre cose fin qui descritte.

Era come un liquido leggero e sfuggente, destinato a evaporare, se non è tenuto ben chiuso; e si poteva vedere raccolto in varie ampolle, quale più quale meno capiente, destinate a quello scopo. La più grande di tutte era quella in cui era contenuto il grande senno del folle Orlando, e fu riconosciuta in mezzo alle altre, perché c’era scritto all’esterno: “Senno d’Orlando”.

E allo stesso modo tutte le altre riportavano scritto il nome di coloro ai quali il senno era appartenuto. Il prode duca Astolfo vide una gran parte del suo, ma lo fecero meravigliare molto di più le ampolle di molti che credeva non ne fossero quasi per niente privi, mentre lì era evidente che in realtà ne avevano poco, perché ce n’era una grande quantità in quel luogo.

Alcuni perdono il senno per amore, altri per gli onori, altri per cercare ricchezze, attraversando il mare, chi riponendo speranze nei potenti, chi dietro alle vane sciocchezze della magia, chi per i gioielli, chi per le opere dei pittori, e altri ancora per altre cose che apprezzano più di ogni altra. Del senno di filosofi, di astrologi e anche di poeti ve n’era raccolta una gran quantità.

Astolfo prese il suo, poiché glielo concesse l’apostolo Giovanni, scrittore della misteriosa Apocalisse. Si portò al naso l’ampolla nella quale era contenuto, e sembra che il senno sia tornato al proprio posto, e che Turpino ammetta che da quel momento in poi Astolfo visse saggiamente per lungo tempo, ma che un errore che poi fece, fu quello che un’altra volta gli fece perdere il senno.

Analisi del testo

La missione di Astolfo

Dopo essersi inoltrato nell’inferno, all’inseguimento delle arpie, Astolfo ne fuoriesce e ne ostruisce l’ingresso con dei massi. Poi, trasportato in volo dall’ippogrifo (mezzo cavallo e mezzo grifone) il paladino arriva nel Paradiso Terrestre, dove incontra San Giovanni Evangelista. Qui il santo lo informa sulla pazzia di Orlando e gli comunica che Dio affida a lui l’importante compito di recarsi sulla Luna a recuperare il senno che l’eroe ha perduto, innamorandosi sconsideratamente di una pagana.

Così, assieme al santo, Astolfo raggiunge la luna, dalla quale può vedere in lontananza la terra e le cose che si trovano lassù, prima di adempiere alla sua importante missione. Il recupero del senno consentirà a Orlando di ritornare a combattere per la fede cristiana.

Il mondo lunare

La Luna è fatta per molti aspetti come la Terra: ci sono fiumi, laghi, campagne, castelli, in tutto simili (anche se più grandi) a quelli che sono sulla Terra. Essa è però una sorta di mondo rovesciato, perché “ciò che si perde qua, là si raguna”, cioè quel che va perduto sulla terra lo si ritrova lassù. A un certo punto i due giungono in un luogo in cui è raccolta una quantità enorme di ampolle, piene di un liquido leggero, che evapora con facilità: si tratta del senno perduto dagli uomini, che tuttavia ritengono di possederne tanto. Qui si trova anche il senno di Orlando, che Astolfo può recuperare. Ne approfitta per recuperare anche il suo e lo inala dall’ampolla in cui è contenuto.

Il testo riportato può essere suddiviso in quattro parti: la descrizione del paesaggio lunare e di quello terrestre; l’elenco degli oggetti perduti sulla terra; la scoperta della montagna del senno; il recupero del senno perduto.

La follia e la vanità delle illusioni umane

Il tema della follia è centrale: essa consiste nell’attribuire eccessiva importanza alle tante vanità della vita, che gli uomini inseguono scambiando i loro sogni con la realtà. Così la luna rappresenta metaforicamente il luogo dove si raccoglie tutto ciò che si getta via sulla terra. 

Osservata dalla e sulla Luna la realtà umana appare illusoria. Tutti i sogni e le illusioni degli uomini finiscono sulla luna: l’effimera ricerca della felicità, l’affannoso desiderio di realizzare i propri desideri si rivela ad Astolfo come priva di senso. 

La descrizione del paesaggio lunare diventa per l’autore l’occasione per ironizzare sulla vanità delle occupazioni umane, poiché gli uomini sprecano il loro tempo e la vita inseguendo obiettivi che non raggiungono o che svaniscono presto col passare del tempo: tra questi la fama del mondo, i sospiri degli amanti, ma anche la grandezza degli imperi del passato destinati a cadere, mentre un certo disprezzo viene dimostrato verso le “magiche sciocchezze” così come più avanti verso gli “astrologhi”. Inoltre Ariosto rivolge la sua aspra ironia contro la vita delle corti, nelle quali i cortigiani si sforzano di ingraziarsi il favore dei signori attraverso ipocrite adulazioni.

Anche il senno si trova in quantità enorme sulla luna, benché gli uomini, sulla terra, ritengano di esserne molto ben forniti. L’unica cosa che manca sulla luna è invece la pazzia, che resta tutta sulla Terra e non abbandona mai gli esseri umani.

La terra vista dalla luna appare come un minuscolo “globo” che sembra assai più piccolo di quanto non appaia a noi e quasi insignificante, così come insignificanti appaiono i valori umani, visti da una prospettiva diversa e relativizzante.

Il tema della vanitas, ovvero dell’inutilità e insensatezza è ben presente nel Medioevo, che contrappone alla vuota vita terrena la vera vita, quella ultraterrena. Ariosto, tuttavia, appare ormai lontano da questa prospettiva e guarda il mondo con occhio ironico, distaccato e disincantato, unico modo per non farsi travolgere dalle futili illusioni.

Esercizi di analisi del testo

  1. Con quale mezzo e accompagnato da chi Astolfo può giungere sulla Luna?
  2. Individua le quattro sequenze in cui si può suddividere il testo e riassumile.
  3. Quali sono gli “oggetti” smarriti che si trovano sulla Luna, ammassati in una vallata?
  4. Che cosa si trova in grande quantità e che cosa invece manca sulla Luna?
  5. Quale forma assume il senno degli uomini e come Astolfo può riconoscere quello di Orlando?
  6. Quali sono i modi con cui gli uomini perdono il senno? 
  7. In che modo Astolfo riesce, temporaneamente, a recuperare il suo?
  8. Perché la follia di Orlando assume un valore simbolico?
  9. Come viene inteso da Ariosto il tema – di origine medievale – della vanitas?
Astolfo

 

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