Calvino, Cosimo sugli alberi.

Italo Calvino, Cosimo sugli alberi.

L’inizio del romanzo

Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco.
Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera Corte di Francia, d’andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: – Ho detto che non voglio e non vo­glio! – e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vi­sta disubbidienza più grave

Per sfuggire alla persecuzione dei tremendi piatti a base di lumache preparati dalla sorella, Cosimo e il fratello (che nel romanzo è voce narrante) progettano un piano per la liberazione delle lumache che vengono messe in cantina a depurarsi prima di essere cucinate. Il piano viene però scoperto dalla sorella e i due sono puniti dal padre. Poi…

Ci tennero lì tre giorni, a pane acqua insalata cotenne di bue e minestrone freddo (che, fortunatamente, ci piaceva). Poi, primo pasto in famiglia, come niente fosse stato, tutti a puntino, quel mezzogiorno del 15 giugno: e cos’aveva preparato nostra sorella Battista, sovrintendente alla cucina? Zuppa di lumache e pietanza di lumache. Cosimo non volle toccare neanche un guscio. – Mangiate o subito vi rinchiudiamo nello stanzino! – Io cedetti, e cominciai a trangugiare quei molluschi. (Fu un po’ una viltà, da parte mia, e fece sì che mio fratello si sentisse più solo, cosicché nel suo lasciarci c’era anche una protesta contro di me, che l’avevo deluso; ma avevo solo otto anni, e poi a che vale paragonare la mia forza di volontà, anzi, quella che potevo avere da bambino, con l’ostinazione sovrumana che contrassegnò la vita di mio fratello?)

– E allora? – disse nostro padre a Cosimo.

No, e poi no! – fece Cosimo, e respinse il piatto.

– Via da questa tavola!

Ma già Cosimo aveva voltato le spalle a tutti noi e stava uscendo dalla sala.

– Dove vai?

Lo vedevamo dalla porta a vetri mentre nel vestibolo prendeva il suo tricorno e il suo spadino.

– Lo so io! – Corse in giardino.

Di lì a poco, dalle finestre, lo vedemmo che s’arrampicava su per l’elce. Era vestito e acconciato con grande proprietà, come nostro padre voleva venisse a tavola, nonostante i suoi dodici anni: capelli incipriati col nastro al codino, tricorno, cravatta di pizzo, marsina verde a code, calzonetti color malva, spadino, e lunghe ghette di pelle bianca a mezza coscia, unica concessione a un modo di vestirsi più intonato alla nostra vita campagnola. (Io, avendo solo otto anni, ero esentato dalla cipria sui capelli, se non nelle occasioni di gala, e dallo spadino, che pure mi sarebbe piaciuto portare). Così egli saliva per il nodoso albero, muovendo braccia e gambe per i rami con la sicurezza e la rapidità che gli venivano dalla lunga pratica fatta insieme.

Ho già detto che sugli alberi noi trascorrevamo ore e ore, e non per motivi utilitari come fanno tanti ragazzi, che ci salgono solo per cercar frutta o nidi d’uccelli, ma per il piacere di superare difficili bugne del tronco e inforcature, e arrivare più in alto che si poteva, e trovare bei posti dove fermarci a guardare il mondo laggiù, a fare scherzi e voci a chi passava sotto. Trovai quindi naturale che il primo pensiero di Cosimo, a quell’ingiusto accanirsi contro di lui, fosse stato d’arrampicarsi sull’elce, albero a noi familiare, e che protendendo i rami all’altezza delle finestre della sala, imponeva il suo contegno sdegnoso e offeso alla vista di tutta la famiglia.

Vorsicht! Vorsicht! Ora casca, poverino! – esclamò piena d’ansia nostra madre, che ci avrebbe vi­sto volentieri alla carica sotto le cannonate, ma intanto stava in pena per ogni nostro gioco.

Cosimo salì fino alla forcella d’un grosso ramo dove poteva stare comodo, e si sedette lì, a gambe penzoloni, a braccia incrociate con le mani sotto le ascelle, la testa insaccata nelle spalle, il tricorno cal­cato sulla fronte.

Nostro padre si sporse dal davanzale. – Quando sarai stanco di star lì cambierai idea! – gli gridò.

– Non cambierò mai idea, – fece mio fratello, dal ramo.

– Ti farò vedere io, appena scendi!

– E io non scenderò più! – E mantenne la parola.

La conclusione…

Certi aeronauti inglesi facevano esperienze di volo in mongolfiera sulla costa. Era un bel pallone, ornato di frange e gale e fiocchi, con appesa una navicella di vimini: e dentro due ufficiali con le spalline d’oro e le aguzze feluche guardavano col cannocchiale il paesaggio sottostante. Puntarono i cannocchiali sulla piazza, osservando l’uomo sull’albero, il lenzuolo teso, la folla, aspetti strani del mondo. Anche Cosimo aveva alzato il capo, e guardava attento il pallone.

Quand’ecco la mongolfiera fu presa da una girata di libeccio; cominciò a correre nel vento vorticando come una trottola, e andava verso il mare. Gli aeronauti, senza perdersi d’animo, s’adoperavano a ridurre – credo – la pressione del pallone e nello stesso tempo srotolarono giù l’ancora per cercare d’afferrarsi a qualche appiglio. L’ancora volava argentea nel cielo appesa a una lunga fune, e seguendo obliqua la corsa del pallone ora passava sopra la piazza, ed era pressapoco all’altezza della cima del noce, tanto che temevamo colpisse Cosimo. Ma non potevamo supporre quello che dopo un attimo avrebbero visto i nostri occhi.

L’agonizzante Cosimo, nel momento in cui la fune dell’ancora gli passò vicino, spiccò un balzo di quelli che gli erano consueti nella sua gioventù, s’aggrappò alla corda, coi piedi sull’ancora e il corpo raggomitolato, e così lo vedemmo volar via, trascinato nel vento, frenando appena la corsa del pallone, e sparire verso il mare…

La mongolfiera, attraversato il golfo, riuscì ad atterrare poi sull’altra riva. Appesa alla corda c’era solo l’ancora. Gli aeronauti, troppo affannati a cercar di tenere una rotta, non s’erano accorti di nulla.

Si suppose che il vecchio morente fosse sparito mentre volava in mezzo al golfo.

Così scomparve Cosimo, e non ci diede neppure la soddisfazione di vederlo tornare sulla terra da morto. Nella tomba di famiglia c’è una stele che lo ricorda con scritto: «Cosimo Piovasco di Rondò -Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo».

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