Orwell, Tutti gli animali sono uguali ma…

Fattoria animali

George Orwell, Tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri

Da >>> La fattoria degli animali

 

Dopo il ritorno delle pecore, in una deliziosa serata quando, finito il lavoro, gli animali stavano rientrando alle loro stalle, un terribile nitrito di cavallo risuonò nel cortile. Stupiti, gli animali si arrestarono.

Era la voce di Berta. Essa nitrì ancora e tutti gli animali irruppero a galoppo nella corte. Videro allora ciò che aveva visto Berta.

Fattoria animaliUn maiale stava camminando sulle gambe posteriori. Sì, era Clarinetto. Un po’ goffamente, come se non fosse abituato a portare in quella posizione il suo considerevole peso, ma con perfetto equilibrio, passeggiava su e giù per il cortile. Poco dopo, dalla porta della casa colonica uscì una lunga schiera di maiali: tutti camminavano sulle gambe posteriori. Alcuni lo facevano meglio degli altri, qualcuno era ancora un po’ malfermo e sembrava richiedere il sostegno di un bastone, ma tutti fecero con successo il giro del cortile. Infine, fra un tremendo latrar di cani e l’alto cantar del gallo nero, uscì lo stesso Napoleon, maestosamente ritto, gettando alteri sguardi all’ingiro, coi cani che gli saltavano attorno. Stringeva fra le zampe una frusta.

Seguì un silenzio mortale. Stupefatti, atterriti, stringendosi assieme, gli animali guardavano la lunga fila dei maiali marciare lentamente attorno al cortile. Era come se il mondo si fosse capovolto. Poi venne il momento in cui, passato il primo stordimento, nonostante tutto – nonostante il terrore dei cani, l’abitudine sviluppata durante lunghi anni di non lamentarsi mai, di non criticare mai sentirono la tentazione di pronunciare parole di protesta. Ma in quell’attimo stesso, come a un segnale dato, tutte le pecore ruppero in un tremendo belato: «Quattro gambe, buono; due gambe, meglio! Quattro gambe, buono; due gambe, meglio! Quattro gambe, buono; due gambe, meglio!».

Continuarono così per cinque minuti, senza soste. E, quando le pecore si furono calmate, la possibilità di protestare era passata perché i maiali erano rientrati nella casa.

Benjamin sentì un naso strofinarsi contro la sua spalla. Guardò. Era Berta. I suoi vecchi occhi erano più appannati che mai. Senza dir nulla, lo tirò gentilmente per la criniera e lo portò nel grande granaio ove erano scritti i Sette Comandamenti. Per qualche istante ristette fissando la parete scura e le lettere bianche.

«La mia vista si indebolisce» disse infine. «Anche quando ero giovane non riuscivo a leggere ciò che era scritto qui. Ma mi pare che la parete abbia un altro aspetto. I Sette Comandamenti sono gli stessi di prima, Benjamin?»

Per una volta Benjamin consentì a rompere la sua regola e lesse ciò che era scritto sul muro. Non vi era scritto più nulla, fuorché un unico comandamento. Diceva:

TUTTI GLI ANIMALI SONO UGUALI MA ALCUNI SONO PIU’ UGUALI DEGLI ALTRI

Dopo ciò non parve strano che i maiali che sorvegliavano i lavori reggessero fruste nelle loro zampe. Non sembrò strano di apprendere che i maiali si erano comperati per loro uso un apparecchio radio, che stavano impiantando un telefono, che avevano fatto l’abbonamento al «John Bull», al «Tit-Bits» e al «Daily Mirror».

Non sembrò strano vedere Napoleon passeggiare nel giardino della casa colonica con la pipa in bocca; no, neppure quando i maiali presero dal guardaroba gli abiti del signor Jones e li indossarono e fu visto Napoleon in giacca nera, pantaloni e scarpe di cuoio, mentre la sua scrofa favorita vestiva l’abito di seta che la signora Jones portava la domenica, neppur questo sembrò strano. Una settimana dopo, nel pomeriggio, numerose carrozze giunsero alla fattoria. Una deputazione di agricoltori del vicinato era stata invitata a fare un giro d’ispezione. Fu mostrata loro tutta la fattoria, ed essi espressero grande ammirazione per ciò che vedevano, specialmente per il mulino. Gli animali stavano sarchiando il campo di rape. Lavoravano con attenzione, quasi senza osar sollevare la testa da terra, non sapendo se avevano più paura dei maiali o dei visitatori umani.

Quella sera alte risa e canti uscirono dalla casa colonica, e ad un tratto, all’udir tutte quelle voci, gli animali si sentirono presi da curiosità. Che cosa stava succedendo la dentro, ora che per la prima volta gli animali e gli uomini si incontravano su un piede di eguaglianza? In un solo accordo, essi cominciarono a strisciare silenziosamente nel giardino della casa colonica. Al cancello si fermarono dubbiosi se entrare o no. Ma Berta aprì la strada. In punta di piedi si portarono fin presso la casa e quelli che erano abbastanza alti spiarono attraverso la finestra della sala da pranzo. Là, attorno alla lunga tavola, sedevano una mezza dozzina di agricoltori e una mezza dozzina o più di eminenti maiali. Napoleon occupava il posto d’onore a capo della tavola. I maiali sembravano completamente a loro agio sulle seggiole. La compagnia stava giocando una partita a carte, momentaneamente sospesa, evidentemente per un brindisi. Circolava una grande anfora e i bicchieri venivano riempiti di birra. Nessuno si accorse delle facce attonite degli animali che spiavano dalla finestra.

Il signor Pilkington di Foxwood si era alzato reggendo il bicchiere. Fra un istante, egli disse, avrebbe chiesto alla compagnia di fare un brindisi, ma prima sentiva il dovere di pronunciare alcune parole. Era per lui motivo di grande soddisfazione, disse – e, ne era sicuro, per tutti gli altri presenti – di sentire che il lungo periodo di diffidenza e di incomprensione era finito. C’era stato un tempo non che lui o alcuno dei presenti avesse condiviso tali sentimenti – ma c’era stato un tempo in cui i rispettabili proprietari della Fattoria degli Animali erano stati guardati, non con ostilità, ma forse con qualche sospetto dagli uomini del vicinato. C’erano stati disgraziati incidenti, c’erano state incomprensioni. Si sentiva che l’esistenza di una fattoria tenuta e governata da maiali era qualcosa di anormale e rischiava di avere un malefico effetto sul vicinato. Troppi agricoltori erano convinti, senza prova alcuna, che in quella fattoria dominava lo spirito di licenza e di indisciplina. Erano inquieti per l’effetto che la cosa poteva avere sui loro animali e anche sui propri impiegati umani.

Ma ogni dubbio era ora dissipato. Quel giorno assieme ai suoi amici aveva visitato la Fattoria degli Animali, ne aveva ispezionato ogni palmo coi propri occhi, e che cosa aveva trovato? Non solo i metodi più moderni, ma una disciplina e un ordine da porre come esempio agli agricoltori di ogni dove. Credeva di poter dire a ragione che gli animali inferiori della Fattoria degli Animali facevano più lavoro e ricevevano meno cibo di tutti gli animali della contea. In realtà assieme ai suoi amici visitatori aveva quel giorno osservato molte cose che intendeva introdurre subito nelle proprie fattorie.

Chiudeva la sua perorazione, disse, esaltando ancora i sentimenti di amicizia che esistevano e dovevano esistere tra la Fattoria degli Animali e i suoi vicini. Tra i maiali e gli uomini non vi era e non doveva esservi alcun conflitto d’interessi. Le loro lotte e le loro difficoltà erano uniche. Non era il problema del lavoro lo stesso ovunque? Qui parve che il signor Pilkington stesse per lanciare qualche ben preparata arguzia sulla compagnia, ma per il momento era troppo sopraffatto dal piacere per poterla pronunciare. Dopo molti colpi di tosse durante i quali i suoi numerosi menti si fecero di bracia, riuscì a metterla fuori: «Se voi avete i vostri animali inferiori contro cui lottare» disse «noi abbiamo le nostre classi inferiori!». Questo bon mot fece scoppiare dalle risa tutta la tavola; e il signor Pilkington ancora si congratulò coi maiali per le razioni scarse, le lunghe ore di lavoro e la generale assenza di sovrabbondanza che aveva osservato nella Fattoria degli Animali.

E ora, disse infine, chiedeva alla compagnia di alzare la zampa e assicurarsi che il bicchiere fosse pieno.

«Signori» concluse il signor Pilkington «signori, brindo a voi e alla prosperità della Fattoria degli Animali!»

Seguirono entusiastici applausi e battere di piedi. Napoleon era tanto soddisfatto che si alzò dal suo posto e fece il giro della tavola per venire a toccare il suo bicchiere con quello del signor Pilkington prima di vuotarlo. Quando gli applausi si placarono, Napoleon, che era rimasto in piedi, annunciò che aveva qualche parola da dire.

Come tutti i discorsi di Napoleon, anche questo fu breve ed esplicito. Anche lui, disse, era felice che il periodo dell’incomprensione fosse finito. Per molto tempo erano corse voci – messe in giro, aveva ragione di credere, da qualche nemico maligno – che le direttive sue e dei suoi colleghi rivestissero qualcosa di sovversivo e di rivoluzionario Erano stati accusati di suscitare la ribellione fra gli animali delle vicine fattorie. Niente di più lontano dalla verità! Il loro solo desiderio, ora come nel passato, era di vivere in pace e in buone e normali relazioni con tutti i vicini. Questa fattoria che aveva l’onore di controllare, aggiunse, era una specie di impresa cooperativa. Le azioni che erano in suo possesso erano comune proprietà dei maiali.

Egli non credeva, disse, che alcuno degli antichi sospetti continuasse a sussistere; ma alcuni cambiamenti, recentemente introdotti nelle consuetudini della fattoria, dovevano aver l’effetto di promuovere un’ancor maggiore fiducia. Fino ad allora gli animali della fattoria avevano avuto la sciocca abitudine di chiamarsi l’un l’altro “compagni”. Ciò doveva aver termine. C’era anche stato lo strano costume, la cui origine era sconosciuta, di sfilare la domenica mattina davanti al teschio di un verro posto su un ceppo nel giardino. Questo pure sarebbe stato abolito, e già il teschio era stato sepolto. I suoi visitatori avevano certo visto la bandiera verde spiegata in cima all’asta e avevano forse notato che lo zoccolo e il corno dipinti in bianco, di cui prima era fregiata, erano scomparsi. La bandiera, d’ora innanzi, sarebbe stata verde soltanto. Egli aveva solo una critica, disse, da fare all’eccellente e amichevole discorso del signor Pilkington. In esso il signor Pilkington si era sempre riferito alla “Fattoria degli Animali”. Non poteva sapere, naturalmente – perché lui, Napoleon, lo annunciava ora per la prima volta – che il nome “Fattoria degli Animali” era stato abolito. Da quel momento la fattoria sarebbe ritornata “Fattoria Padronale”, quello cioè che, egli credeva, era il suo vero nome d’origine.

«Signori» concluse Napoleon «ripeterò il brindisi di prima, ma in forma diversa. Riempite fino all’orlo i vostri bicchieri. Signori, ecco il mio brindisi: alla prosperità della Fattoria Padronale!»

Come prima, vi furono calorosi applausi e i bicchieri vennero vuotati fino al fondo. Ma mentre gli animali di fuori fissavano la scena, sembrò loro che qualcosa di strano stesse accadendo. Che cosa c’era di mutato nei visi dei porci? Gli occhi stanchi di Berta andavano dall’uno all’altro grugno. Alcuni avevano cinque menti, altri quattro, altri tre. Ma che cos’era che sembrava dissolversi e trasformarsi? Poi, finiti gli applausi, la compagnia riprese le carte e continuò la partita interrotta, e gli animali silenziosamente si ritirarono.

Ma non avevano percorso venti metri che si fermarono di botto. Un clamore di voci veniva dalla casa colonica. Si precipitarono indietro e di nuovo spiarono dalla finestra. Sì, era scoppiato un violento litigio. Vi erano grida, colpi vibrati sulla tavola, acuti sguardi di sospetto, proteste furiose. Lo scompiglio pareva esser stato provocato dal fatto che Napoleon e il signor Pilkington avevano ciascuno e simultaneamente giocato un asso di spade.

Dodici voci si alzarono furiose, e tutte erano simili. Non c’era da chiedersi ora che cosa fosse successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all’uomo, dall’uomo al maiale e ancora dal maiale all’uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due.

 

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