Bram Stoker, Il castello di Dracula

Dracula

Bram Stoker, Il castello di Dracula

 

D’un tratto, mi sono reso conto che il cocchiere stava portando il calesse nel cortile di un gran castello in rovina, dalle cui alte, negre finestre non traspariva raggio di luce, e i cui merli crollanti si disegnavano frastagliati contro il cielo rischiarato dalla luna.

2. DIARIO DI JONATHAN HARKER

(Continuazione).

5 maggio. Sì, devo aver dormito, perché, se fossi stato del tutto sveglio, non avrei potuto non notare l’approccio a un luogo così singolare. Nella semioscurità, la corte pareva di notevoli dimensioni, e siccome parecchi anditi bui se ne dipartivano da sotto grandi archi a tutto sesto, forse sembrava più spaziosa di quanto non fosse in realtà. Ancora non ho avuto modo di vederla di giorno.

Fermatosi il calesse, il cocchiere ne è balzato a terra, porgendomi la mano per aiutarmi a scendere, e una volta ancora mi sono meravigliato della sua prodigiosa forza: una mano che sembrava in realtà una morsa d’acciaio che, a suo capriccio, avrebbe potuto stritolare la mia. Poi ha preso il mio bagaglio mettendolo a terra ai miei piedi, di fronte a un grande portone, antico e guarnito di grosse borchie di ferro, incastonato in un portale aggettante di pietra massiccia. Potevo vedere, nonostante la poca luce, che il portale era tagliato in un solo pezzo, ma che i rilievi erano assai consunti dal tempo e dalle intemperie. Mentre me ne stavo lì, il cocchiere è rimontato a cassetta e ha scosso le redini; i cavalli sono ripartiti, e il veicolo e quant’altro sono scomparsi in un buio andito.

Sono rimasto in silenzio dov’ero, non sapendo che fare. Non vi era traccia né di campanello né di picchiotto, ed era improbabile che la mia voce riuscisse a farsi udire di là da quelle arcigne mura e da quelle negre aperture di finestre. Il tempo che sono rimasto in attesa mi è parso interminabile, e mi sentivo assediato da dubbi e paure. A che razza di luogo ero mai approdato, e tra che gente? Che tetra avventura era quella in cui mi ero imbarcato? […] Ho cominciato a fregarmi gli occhi e a pizzicottarmi, per vedere se ero davvero sveglio. Mi sembrava, tutto questo, un orrido incubo, e mi aspettavo di risvegliarmi d’un tratto e di ritrovarmi a casa, l’alba intrufolandosi per le finestre, come tante volte m’era accaduto dopo un giorno di intenso lavoro. Ma la mia carne ha reagito alla prova dei pizzicotti, e i miei occhi, impossibile ingannarli. Ero proprio sveglio, e tra i Carpazi, e altro non mi restava che pazientare e attendere l’arrivo dei mattino.

Ero appena giunto a questa conclusione, quando ho udito un passo pesante venire alla mia volta di là dal gran portone e, attraverso le fessure, è filtrato il raggio di una luce che s’avvicinava. Poi, lo strepito dì catene, il clangore di pesanti catenacci tirati. Una chiave ha girato con l’acuto stridore di un lungo disuso, e il grande battente si è spalancato.

Dentro, stava un vecchio alto, accuratamente sbarbato a parte i lunghi baffi bianchi, e nerovestito da capo a piedi, senza una sola macchia di colore in tutta la persona. In mano reggeva una vetusta lucerna d’argento, la cui fiamma ardeva senza tubo di vetro né globo di sorta, proiettando lunghe, oscillanti ombre come palpitava nello spiffero dell’uscio aperto. Con la destra, il vecchio m’ha rivolto un cortese cenno d’invito, dicendo in un ottimo inglese, ancorché di singolare cadenza:

“Benvenuto nella mia casa! Entrate libero e franco!”

Non ha accennato a venirmi incontro ma è rimasto immobile, come una statua, quasi che il gesto di benvenuto l’avesse pietrificato. Tuttavia, non appena ho varcato la soglia, si è mosso d’un subito e, stendendo la mano, ha afferrato la mia con un vigore tale da farmi sobbalzare, risultato nient’affatto sminuito dal sembrare essa fredda come ghiaccio – più la mano di un morto che di un vivo. E ha ripetuto:

“Benvenuto nella mia casa! Entrate libero e franco. Andatevene poi sano e salvo, e lasciate alcunché della felicità che arrecate!”. La forza della stretta di mano era talmente simile a quella del cocchiere, di cui non avevo scorto il volto, che per un istante mi ha assalito il dubbio che si trattasse della stessa persona. onde accertarmene, ho chiesto:

“Il Conte Dracula?” Quegli ha abbozzato un compito inchino, rispondendo:

“Sono Dracula, e vi dò il benvenuto, signor Harker, in casa mia. Entrate; l’aria notturna è fredda, e avrete bisogno di mangiare e di riposarvi”. Così dicendo, ha collocato la lucerna su un braccio portalampada e, uscito, ha preso il mio bagaglio che ha portato dentro prima che potessi impedirglielo. E alle mie proteste ha replicato: “Orsù, signore, siete mio ospite. È tardi, e la mia servitù si è già ritirata. Lasciate che mi occupi io stesso di voi”. Ha insistito per portare il mio bagaglio lungo il corridoio e poi su per uno scalone a spirale, e lungo un altro ampio corridoio, sul cui pavimento di pietra i nostri passi echeggiavano cupi. In fondo a questo, ha aperto un uscio pesante, e mi sono rallegrato alla vista di una stanza bene illuminata in cui era una tavola apparecchiata con la cena, e nell’immenso camino della quale fiammeggiava e splendeva un gran fuoco di ceppi rincalzati di fresco.

Il Conte si è fermato, ha posato le mie valigie, ha chiuso l’uscio, ha attraversato la stanza, ha aperto un’altra porta che dava in una piccola camera ottagonale illuminata da una sola lampada, in apparenza senza finestra di sorta. Attraversata anche questa, ha aperto una seconda porta, facendomi cenno di entrare. Una vista che mi ha rallegrato: una grande camera da letto bene illuminata e riscaldata da un altro fuoco di legna questo però acceso solo di recente, perché i ceppi non erano consumati – che mandava un cavo ruggito su per l’ampia cappa. Il Conte ha portato dentro il mio bagaglio e si è ritirato, dicendo, prima di richiudere l’uscio:

“Avrete bisogno, dopo il vostro viaggio, di rinfrescarvi e di rassettarvi. Spero che troverete tutto quanto vi occorre. Quando siete pronto, favorite nell’altra stanza, dove troverete la cena che v’aspetta”.

La luce e il calore, uniti al cortese benvenuto del Conte, sembravano aver fugato ogni mio dubbio e paura; e così, ritrovato il mio solito equilibrio, ho scoperto di essere letteralmente morto di fame; e, fatta una frettolosa toletta, sono tornato di là.

La cena era già servita. Il mio anfitrione, in piedi a un angolo del grande camino, appoggiandosi alla spalletta, con un aggraziato cenno della mano mi ha indicato la tavola, dicendo:

“Accomodatevi, vi prego, e mangiate a vostro piacimento. Vorrete scusarmi, spero, se non vi faccio compagnia; ma ho pranzato, e non ceno mai”.

Gli ho porto la lettera sigillata che il signor Hawkins mi aveva affidato, ed egli l’ha aperta e letta con grande attenzione; quindi, con cattivante sorriso, me l’ha tesa perché la leggessi a mia volta. Almeno un passo in essa m’ha dato un brivido di piacere:

“Mi rincresce molto che un attacco di gotta, malattia di cui cronicamente soffro, per qualche tempo mi vieti del tutto ogni viaggio; posso però dirmi lieto di mandare un valido sostituto, in cui ripongo assoluta fiducia. Egli è un giovane, pieno di energia e di talento, e capace di grandissima fedeltà. È discreto e riservato, ed è al mio servizio che ha raggiunto la maggiore età. Sarà a vostra completa disposizione durante il suo soggiorno costì, eseguendo ogni vostra istruzione.”

Il Conte mi è poi venuto accanto, a levare il coperchio di un piatto, e subito mi sono trovato alle prese con un eccellente pollo arrosto.

Questo, insieme a del formaggio, un’insalata e una bottiglia di vecchio Tokay, di cui ho bevuto due bicchieri, è stata la mia cena. Mentre la consumavo, il Conte mi ha rivolto molte domande circa il mio viaggio e, a mano a mano, io gli andavo riferendo le mie esperienze. Nel frattempo avevo terminato il pasto e, obbedendo al desiderio dell’anfitrione, avevo avvicinato una seggiola al fuoco, accendendomi un sigaro offertomi dal Conte, che però ha chiesto scusa di non fumare a sua volta. Ora avevo modo di osservarlo bene e di costatare che aveva una fisionomia dai tratti assai salienti.

Il volto era grifagno, assai accentuatamente tale, sporgente l’arco del naso sottile con le narici particolarmente dilatate; la fronte era alta, a cupola, e i capelli erano radi attorno alle tempie, ma altrove abbondanti. Assai folte le sopracciglia, quasi unite alla radice del naso, cespugliose tanto che i peli sembravano attorcigliarvisi. La bocca, per quel tanto che mi riusciva di vederla sotto i baffi folti, era dura, d’un taglio alquanto crudele, con bianchi denti segnatamente aguzzi, i quali sporgevano su labbra la cui rossa pienezza rivelava una vitalità stupefacente in un uomo così attempato. Quanto al resto, orecchie pallide, assai appuntite all’estremità superiore; mento marcato e deciso, guance sode ancorché affilate. L’effetto complessivo era di uno straordinario pallore.

Finora avevo notato solo il dorso delle sue mani posate sulle ginocchia, alla luce del fuoco: sembravano piuttosto bianche e fini; ma, trovandomele adesso proprio sott’occhio, ho costatato che erano invece piuttosto grossolane – larghe, con dita tozze. Strano a dirsi, peli crescevano in mezzo al palmo. Le unghie erano lunghe e di bella forma, e assai appuntite. Come il Conte si è chinato verso di me e le sue mani mi hanno sfiorato, non ho potuto reprimere un brivido. Può darsi che il suo alito fosse fetido, certo è che un’orribile sensazione di nausea mi ha invaso e, per quanto facessi, mi è stato impossibile celarla. Il Conte, evidentemente accortosene, si è ritratto; e, con una sorta di tetro sorriso, che gli ha messo in mostra più che mai i denti prominenti, è tornato a sedersi dall’altra parte del camino. Per un po’, entrambi abbiamo taciuto; e, volgendo lo sguardo alla finestra, ho scorto la prima, pallida striscia dell’alba nascente. Uno strano silenzio sembrava posare su ogni cosa; ma, tendendo l’orecchio, ho udito, come se provenisse dal fondovalle, l’ululare di molti lupi. Gli occhi del Conte hanno avuto un lampo, ed egli ha detto:

“Ascoltateli, i figli della notte. Che musica fanno, eh?” Colta sul mio viso, così suppongo, un’espressione che gli riusciva strana, ha soggiunto:

“Ah, signore, voi cittadini non potere far vostri i sentimenti del cacciatore”. Quindi, levandosi:

“Ma dovete essere stanco. La vostra camera da letto è pronta, e domani potrete dormire quanto vorrete. Io dovrò assentarmi sino al pomeriggio; e così, dormite bene e sogni propizi!” E, con un cortese inchino, mi ha aperto l’uscio dello stanzino ottagonale, e io sono entrato nella mia camera…

Sono immerso in un mare di interrogativi. Dubito; temo; penso cose strane, che non oso confessare allo stesso mio cuore. Dio mi protegga, non fosse che per l’amore di coloro che mi sono cari!

Analisi del testo.

All’inizio del brano Jonathan descrive il tetro castello in rovina del conte Dracula, dalle cui alte e scure finestre non trapela alcun raggio di luce, e i cui merli cadenti si stagliano irregolari contro il cielo alla luce della luna. Nella semioscurità, il cortile gli appare di notevoli dimensioni, anche per effetto dei numerosi corridoi bui. Jonathan, terrorizzato e angosciato, ha l’impressione, per un momento, di vivere in tremendo incubo, ma giunge poi alla certezza di essere sveglio. Proprio in quel momento si apre con un tetro cigolio il portone il conte Dracula accoglie il giovane. Dracula ha l’aspetto di un vecchio, alto e accuratamente sbarbato, con lunghi baffi e vestito completamente di nero. Dopo essersi ristorato e rianimato in un’accogliente stanza del castello, Jonathan cena alla presenza del conte. Ha così modo di meglio osservare il suo inquietante aspetto: il volto simile a quello di un rapace, con il naso sottile e arcuato; la fronte alta e i capelli erano radi attorno alle tempie; le sopracciglia folte, quasi unite alla radice del naso; la bocca dura, dall’aspetto crudele, con aguzzi denti bianchi che sporgevano sulle labbra rosse; le orecchie pallide e appuntite all’estremità superiore; il mento marcato e deciso e le guance sode benché molto magre; il colore della pelle di uno straordinario pallore; le mani grossolane, con dita tozze e con peli che crescevano in mezzo al palmo e con unghie lunghe, di bella forma e molto appuntite.

Esercizi di analisi del testo.

  1. Nel brano Jonathan descrive il castello di Dracula: delineane le caratteristiche più significative. Qual è lo stato d’animo di Harker di fronte giunto al castello?
  2. Esamina ora l’incontro e l’accoglienza da parte del conte. Quali suoi comportamenti o parole possono apparire strani ed inquietanti? Che cosa, invece, rasserena temporaneamente Jonathan?
  3. Individua nel testo e sottolinea i tratti somatici di Dracula, poi confronta la sua descrizione con quella del vampiro della tradizione, fatta da Baber. Quali ti sembrano le principali differenze? Quali elementi del vampiro rozzo delle origini ti sembrano in qualche modo permanere nella descrizione di Stoker?
  4. In che modo le caratteristiche fisiche del vampiro sono mutate nell’immaginario culturale e letterario?
  5. A quale personaggio storico reale fa riferimento il Dracula di Bram Stoker?

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