Pirandello, Il fu Mattia Pascal

Mattia Pascal

Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal

Il romanzo si articola in una struttura circolare costituita da 18 capitoli, che si possono suddividere in tre parti, corrispondenti al cambiamento dell’identità del protagonista: Mattia Pascal – Adriano Meis – Il fu Mattia Pascal

La trama

La storia inizia dalla fine, con due premesse teoriche del narratore – protagonista, che precedono la narrazione vera e propria. Il giovane Mattia Pascal vive nell’immaginario paese di Miragno, in Liguria. Il padre, morto quando Mattia è ancora un fanciullo, lascia in eredità alla moglie e ai due figli una discreta fortuna, ben presto mandata in fumo dall’avido e disonesto amministratore Batta Malagna (la talpa), al quale la madre di Mattia, incauta e inesperta, l’ha affidata. Per vendicarsi di Batta Malagna, Pascal ne seduce la nipote, Romilda, che viene messa incinta da Mattia. Oppresso da un matrimonio infelice e da una suocera che lo maltratta, dopo un ennesimo litigio familiare, Mattia fugge da casa con pochi soldi in tasca. A Montecarlo vince un’ingente somma di denaro al Casinò e decide così di tornare al suo paese ma, mentre è in viaggio, legge su un giornale la straordinaria notizia della propria morte. Così, all’improvviso, egli concepisce l’idea di sparire per sempre e di ricominciare a vivere sotto una nuova identità. Sceglie un nome diverso, Adriano Meis, e si stabilisce a Roma, in una pensione tenuta dal signor Paleari e dalla figlia di lui, Adriana, della quale si innamora. Mattia si accorge però che gli è impossibile condurre una nuova vita: non ha documenti che comprovino la sua identità, non può quindi trovare un lavoro, né sposare Adriana, né denunciare un furto del quale è rimasto vittima. Finge dunque il suicidio per rinascere come Mattia Pascal. Torna al paese, e qui scopre che la moglie si è risposata con il suo amico Pomino. Sebbene legalmente egli abbia la possibilità di far annullare il secondo matrimonio, si rende conto di non poter distruggere quella nuova famiglia. Così, il “fu” Mattia Pascal si rassegna a vivere con una vecchia zia, trascorrendo gran parte del tempo in biblioteca in compagnia del curato, con l’aiuto del quale scrive la sua incredibile vicenda. Il manoscritto lo lascerà alla biblioteca, con l’obbligo che nessuno lo apra se non dopo cinquant’anni dalla sua “terza, ultima e definitiva morte”.

Mattia: un inetto.

Mattia Pascal è un tipico uomo del Novecento, privo di certezze, la cui esistenza è in gran parte affidata all’imprevedibile intervento del caso. I rapporti con la suocera, la vincita al gioco, l’equivoco della morte, che determinano la nascita dell’“alter ego” e il tentativo di crearsi una nuova vita come Adriano Meis, vedono tutti il prevalere del caso sulla libertà di scelta del protagonista. Mattia è un inetto che ha avuto una serie di occasioni, ma non è riuscito a sfruttarle: liberato dall’opprimente condizione famigliare, il protagonista cerca un’identità autentica ma inutilmente.

La crisi d’identità.

L’occhio strabico di Mattia è simbolo della sua crisi d’identità, che dipende anche dalla sua tendenza a sdoppiarsi e a porsi davanti allo specchio. Per due volte assume una nuova personalità, prima come Adriano Meis poi come “fu” Mattia Pascal, riproducendo ripetutamente situazioni dalle forti analogie (seduce prima Romilda, poi Oliva; finge due volte il suicidio; ecc.).

Le tecniche narrative.

Per vari motivi, Il fu Mattia Pascal (pubblicato nel 1904) può essere considerato una premessa fondamentale a tutta la prosa italiana del Novecento, il capostipite del cosiddetto antiromanzo, ossia di quella forma narrativa che non deve rispettare un ordine logico e una struttura sequenziale, come era invece tenuto a fare il romanzo naturalista. L’autore usa tecniche narrative analoghe a quelle che saranno impiegate da Svevo nella Coscienza di Zeno (1923): non narra una storia oggettiva, ordinata secondo una linea cronologica. Il racconto è condotto dal punto di vista del “personaggio”, e l’intreccio è basato sull’intervento continuo di colui che sta narrando in prima persona le vicende delle quali è già stato protagonista.  La narrazine si organizza sotto forma di un flusso di eventi e di pensieri spesso privi di connessioni cronologiche e disposti secondo un procedere casuale. Il racconto comincia quando la vicenda è conclusa, e procede “all’indietro”, con una serie di anticipazioni e di recuperi temporali, analoghi ai flashback cinematografici, attraverso i quali il soggetto narrante rivive il passato e compie l’analisi di sé in una visione “straniata”, di cui è metafora il suo occhio strabico.

Il lessico.

Il lessico è grigio e volutamente privo di rilievo drammatico, ma è reso particolarmente espressivo da coloriture dialettali, neologismi o termini ormai desueti. La lingua mescola vari registri, facendosi di volta in volta comica o patetica, ironica o drammatica. L’andamento sintattico è spezzato, e alterna uno stile freddo, analitico a uno più istintivo e immediato, che risponde ai sentimenti e alle passioni che ispirano il personaggio. L’immediatezza del pensiero e la spontaneità del parlato sono rese attraverso l’uso costante del presente, al cui interno, però, convivono e si nascondono tre diversi livelli temporali: quello corrispondente al momento in cui il testo è stato scritto e quello in cui è stato vissuto dal personaggio.

Trama dettagliata del romanzo

Capitolo I –Premessa. Il personaggio-narratore dichiara che una delle poche certezze che un tempo aveva era quella di chiamarsi Mattia Pascal. Lascia poi intendere che in seguito, per qualche ragione imprecisata, persino quella certezza, benché minima, è venuta meno. Il protagonista, che ha svolto per circa due anni la mansione di bibliotecario, dice di essersi deciso a raccontare per iscritto il proprio “caso”, pur provando scarsa stima per i libri, perché lo ritiene particolarmente curioso e istruttivo. Egli lascerà il manoscritto nella biblioteca dove ha lavorato, con l’obbligo però di aprirlo soltanto cinquant’anni dopo la sua terza, ultima e definitiva morte.

Capitolo II – Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa. Il consiglio di mettere per iscritto le proprie vicende viene a Mattia da un suo amico bibliotecario, don Eligio Pellegrinotto, al quale sarà consegnato il manoscritto una volta finito, che gli suggerisce di scrivere il libro sul modello di quelli scovati nella biblioteca. Mattia ribatte che non è più tempo di scrivere libri, neppure per scherzo: da quando Copernico ha scoperto che gli uomini sono “atomi infinitesimali su un granellino di sabbia impazzito, che gira e rigira senza sapere perché”, le storie degli uomini non hanno più alcun valore. Tuttavia gli uomini, per fortuna, dimenticano la propria nullità. Per questa ragione, e soprattutto per la singolare stranezza del suo caso, Mattia parlerà di sé, ma il più brevemente possibile.

Capitolo III – La casa e la talpa. Il narratore comincia a raccontare di sé e della propria famiglia. Il padre, intraprendente e fortunato mercante, morto a soli trentott’anni, quando Mattia è ancora un fanciullo, lascia in eredità alla moglie e ai due figli una discreta fortuna, ben presto mandata in fumo dall’avido e disonesto amministratore Batta Malagna (la talpa), al quale la madre di Mattia, incauta e inesperta, l’ha affidata. La zia Scolastica, cognata della donna, per sottrarla alle grinfie dell’amministratore la sollecita a risposarsi con Gerolamo Pomino, anch’egli vedovo, il cui figlio è molto amico di Mattia. I due fratelli Pascal crescono senza preoccupazioni, istruiti dal precettore Pinzone, un tipo originale e bizzarro, sia per l’aspetto che per la preparazione culturale, di cui vengono descritti i singolari metodi “didattici”. Mattia inoltre accenna al proprio aspetto fisico: un occhio strabico, un barbone rossastro e ricciuto, il naso piccolo, la fronte spaziosa. Il fratello Berto viene definito invece bello, vanitoso e raffinato. I due fratelli vivono nell’agiatezza, finché la madre è in vita, ma dopo la sua morte viene alla luce, in particolare per Mattia, “l’abisso”, infatti il suo matrimonio… A questo punto il personaggio-narratore si rivolge a don Eligio osservando che dovrà ora parlare del suo matrimonio e ne riceve conferma.

Capitolo IV – Fu così. Dopo aver descritto la figura di Batta Malagna, il disonesto amministratore, tratteggiandone le caratteristiche fisiche (panciuto e molliccio, sudato e sbuffante) e il rapporto di inferiorità con la prima moglie, Mattia descrive la seconda moglie di lui, Oliva, fanciulla semplice, di campagna, “sana, florida, robusta e allegra” che lo stesso Mattia aveva corteggiato. Dopo tre anni di matrimonio senza figli fra Oliva e Malagna, questi le rinfaccia la sua presunta sterilità. Contemporaneamente Mattia inizia a frequentare la casa di Marianna Dondi, vedova del cugino di Malagna, Francesco Pescatore. Suo proposito è quello di aiutare l’amico Pomino a conquistare l’animo della giovane figlia Romilda, sottraendola alle losche trame matrimoniali del Malagna e della madre di lei. In realtà, dopo un’assidua frequentazione, un mattino Romilda e Mattia si trovano soli e… Quando Mattia, dopo parecchi giorni, “ancora ebbro di lei”, sta pensando seriamente di sposarla, riceve una secca lettera in cui Romilda lo invita a considerare chiusa la loro relazione. Lo stesso giorno Oliva corre piangendo dalla madre di Mattia: Malagna le ha detto di avere le prove di non essere lui sterile. Mattia comprende allora l’inganno: Romilda aspetta un bambino da lui, ma ne attribuisce la paternità a Malagna. Mattia allora si reca dalla povera Oliva e le spiega come sono andate le cose, mostrandole la lettera di Romilda. Le suggerisce poi di non dire niente al marito, confermando anzi la sua affermazione che egli può avere figli… Circa un mese dopo Malagna, saputo dalla propria moglie che è incinta, la picchia, poi si precipita a casa di Mattia, intimandogli di riparare sposando Romilda, ora che avrà un figlio “legittimo” dalla propria moglie. A Mattia non resta che acconsentire.

Capitolo V – Maturazione. Mattia è sposato: con lui e la moglie vive anche la “vedova Pescatore”, che lo rimprovera continuamente, mentre Romilda è afflitta da una gravidanza difficile. L’atmosfera famigliare peggiora ulteriormente quando le condizioni economiche dei Pascal li costringono a vendere tutte le loro proprietà e la madre di Mattia è costretta a trasferirsi anch’essa a casa del figlio, che inutilmente cerca un lavoro. La situazione degenera quando zia Scolastica accorre per portare via la cognata: prima di andarsene, provocata, butta in faccia alla madre di Romilda “il batuffolo della pasta”. Mattia si abbandona ad un riso irrefrenabile e la suocera, prima di essere colta da una crisi isterica, lo colpisce e lo graffia al volto, in una scena comica e tragica al tempo stesso. Mattia esce di casa col proposito di tornarvi solo dopo aver trovato di che mantenere la moglie. S’imbatte in Pomino che, dapprima irritato con lui per avergli sottratto Romilda, commosso dalla cattiva sorte dell’amico, lo aiuta a procurarsi un posto presso la biblioteca Boccamazza. Un giorno viene chiamato d’urgenza perché la moglie sta partorendo: vengono alla luce due gracili gemelle, di cui una muore dopo pochi giorni mentre l’altra dopo quasi un anno, nello stesso giorno e quasi alla stessa ora in cui muore anche la madre di Mattia. Il fratello Roberto invia cinquecento lire per il funerale ma, avendo a questo già provveduto zia Scolastica, quel denaro sarà per Mattia la causa della sua “prima morte”.

Capitolo VI –Tac tac tac… Il capitolo inizia “in medias res”, mentre la pallina della roulette gira, seguita dagli sguardi ansiosi dei giocatori che la contemplano come “dea crudele”. Mattia, dopo uno dei tanti litigi famigliari, se n’è andato di casa con le cinquecento lire inviate dal fratello, col proposito d’imbarcarsi per l’America. Decide di fare tappa a Montecarlo per tentare la sorte alla roulette ed inaspettatamente comincia a vincere forti somme di denaro. Sospende per un po’ il gioco, poi catturato di nuovo dall’eccitazione, ricomincia a puntare e a vincere, in modo rischiosissimo. Mattia suscita l’ammirazione dei giocatori, in particolare di uno spagnolo, che gli chiede il segreto delle sue vincite (Mattia gli risponde che si tratta solo di fortuna, ma lui non gli crede) e gli propone, inutilmente, di giocare per lui. Ai misteriosi sospetti del suo interlocutore, Mattia si allontana sdegnato. Il protagonista torna al Casinò, deciso a rischiare ancora. Giunge a vincere un’enorme somma di denaro, ma dopo nove giorni di vincite comincia a perdere, senza sapersi fermare. Il suicidio di un giovane, che ha perso tutto, finalmente lo trattiene, così riparte da Montecarlo, con l’ancor cospicua somma di ottantaduemila lire.

Capitolo VII – Cambio treno. Il protagonista, sul treno verso casa, pensa a quel che potrà fare del denaro vinto e immagina lo stupore della moglie e della suocera, ma anche i problemi che dovrà affrontare, arrivando alla deprimente conclusione che il denaro gli verrà completamente sottratto dai creditori. Per calmarsi compra un giornale e legge in seconda pagina la notizia di un suicidio. Pensa dapprima che si tratti del giovane di Montecarlo ma scopre, con crescente stupore, che il suicidio è avvenuto a Miragno (il suo paese) e che il cadavere, ripescato nella gora del podere della Stìa, è stato riconosciuto per quello del bibliotecario Mattia Pascal, scomparso da parecchi giorni. Il protagonista, alla stazione successiva, scende precipitosamente, con l’intenzione di telegrafare al suo paese la smentita della notizia, ma ad un tratto intravede un’allettante prospettiva di liberazione. Si procura il giornale locale di Miragno “Il foglietto” e legge così il pezzo dell’amico Lodoletta, che ricostruisce i particolari della vicenda: il movente (la perdita dei beni, della figlia e della madre), il dolore della moglie, l’affetto e il cordoglio del paese. Considerato che la sua ricomparsa non riporterebbe in vita il vero suicida ed irritato dalla rapidità con cui moglie e suocera l’hanno riconosciuto morto, conclude con un “lunghissimo sospiro di sollievo”.

Capitolo VIII – Adriano Meis. Inizia così per il protagonista la ricostruzione di sé, interiore ed esteriore, con l’intento di essere finalmente artefice del proprio destino. Si fa accorciare la folta barba, senza la quale appare visibile lo sgradevole mento aguzzo rientrante, e si fa crescere i capelli, mentre immodificabile resta l’occhio storto, che si propone però di nascondere dietro un paio di lenti. Indossando poi una lunga giacca a falde posteriori e un cappellaccio a larghe tese finisce per assumere l’aspetto di un “filosofo tedesco”. Il nuovo nome gli viene offerto per caso da una discussione in treno tra due eruditi: l’uno, nel sostenere la propria tesi, alludendo all’imperatore Adriano, ripete continuamente “Adriano”; l’altro, nell’andarsene, risponde risentito, alla domanda insolente del proprio interlocutore (“Chi lo dice?”). “Camillo De Meis!”. Il protagonista decide allora di chiamarsi, d’ora in poi, Adriano Meis. Il protagonista prova un senso di libertà e leggerezza nuovi, poi decide di disfarsi dell’anello di matrimonio, che ancora lo lega al passato, e lo getta nel gabinetto di una stazione. Inizia quindi a immaginare un passato per Adriano Meis, inventandosi una sorta di schematica “carta d’identità”. Vive per qualche tempo in varie città d’Italia, poi viaggia in Germania e infine torna a Milano, dove vorrebbe comprare un cagnolino da un venditore di cerini ma non può farlo perché questo lo costringerebbe a pagare una tassa.

Capitolo IX – Un po’ di nebbia. Dopo circa un anno dalla sua “nascita”, Adriano Meis sente un forte bisogno di stabilità e la necessità di fissare la propria dimora. Ripensa così a tutte le città che ha visitato e si sente escluso dalla vita che vi si conduce, percependo la precarietà della propria condizione, che non gli permette di costruire rapporti stabili e lo costringe a vivere “con la valigia in mano”, senza una casa propria. La vicinanza del Natale gli fa desiderare l’intimità di una casa e per consolarsi pensa che però non sarebbe più sereno passarlo con Romilda e sua madre. Mattia/Adriano vuole trovare almeno un amico e pensa di averlo trovato nel suo vicino di tavola, della trattoria che frequenta, Tito Lenzi, un ometto quarantenne mezzo calvo e con gli occhiali d’oro. Tuttavia i discorsi dell’uomo, dapprima interessanti, si fanno da un lato troppo personali, relativamente all’identità di Adriano, e dall’altro troppo frivoli e inconsistenti. Il narratore si chiede cosa spinga Lenzi a raccontare bugie, senza esserne costretto, come lui, e conclude che non sarà mai in grado di instaurare una vera amicizia, che presuppone sincerità. Nella condizione in cui si trova di estraneo alla vita osserva il nonsenso della frenetica vita della città, propria della civiltà delle macchine. Infine il protagonista, dopo essersi visto costretto a “conversare” con un canarino, conclude di non poter sopportare la sua condizione di solitudine e di estraneità alla vita.

Capitolo X –Acquasantiera e portacenere: Pochi giorni dopo Adriano si trova a Roma, per stabilirvisi. Qui prende in affitto una stanza sul Lungotevere, nella casa di Anselmo Paleari e della figlia. Vivono con loro la signorina Caporale, a pigione, e temporaneamente anche il vedovo della sorella di Adriana, Terenzio Papiano, e il fratello malato di costui. Ad Adriana è affidata la conduzione della casa, mentre Anselmo è dedito ai propri studi teosofici e occultistici. La signorina Caporale pare avere doti medianiche che la rendono preziosa per le sedute spiritiche organizzate dal vecchio Paleari. La signorina Caporale è in credito nei confronti di Papiano, genero di Paleari, al quale ha affidato i propri averi senza che le siano stati restituiti. Adriana è molto religiosa, a differenza del protagonista, che tuttavia finisce per subire l’influenza delle teorie teosofiche e spiritistiche di Paleari, che lo invita a partecipare a qualche seduta spiritica. Anche Roma, secondo Paleari, è una città morta, perché ormai legata al passato. Egli la paragona all’acquasantiera della stanza di Adriano che, ormai rotta, viene utilizzata ora come posacenere.

Capitolo XI – Di sera, guardando il fiume. Il protagonista è restio a farsi coinvolgere dalla vita della famiglia che lo ospita e spesso se ne sta da solo. Una notte, mentre ritorna a casa, dopo l’incontro con un ubriaco, s’imbatte in quattro malintenzionati che stanno aggredendo una prostituta. Adriano interviene in sua difesa e finisce per indurli alla fuga. Intervenute due guardie, a fatica Adriano riesce ad evitare la prospettiva di sporgere denuncia, comparendo così sui giornali. La signorina Caporale gli chiede un giorno se sia vedovo e lo assilla con insistenti domande sul suo passato, al punto che egli inizia ad inventare, nelle amabili conversazioni che intrattiene con lei e con Adriana. Il protagonista si accorge che la signorina Caporale si è innamorata di lui, che però cerca una segreta intesa con Adriana, che lo ricambia. Una notte Meis assiste ad un colloquio fra la signorina Caporale e Papiano, che sembra irritato per la sua presenza in casa Paleari. Papiano fa chiamare Adriana, che sta dormendo, e ha con lui un atteggiamento brusco ed aggressivo, tanto che il protagonista spalanca le imposte. Viene così invitato da Adriana a raggiungerli sul terrazzino, e Papiano si mostra ostentatamente gentile nei suoi confronti. Rientrato in camera, il protagonista medita con preoccupazione sul contegno ambiguo del cognato di Adriana, ripensando poi con piacere all’intensa stretta di mano da lei ricevuta al momento del congedo.

Capitolo XII –L’occhio e Papiano. Paleari, parlando con il protagonista a proposito di uno spettacolo di “marionette automatiche” ricavato dall’Elettra di Sofocle, gli espone una sua teoria: se mentre Oreste sta per uccidere la propria madre ed Egisto, per vendicare l’assassinio di suo padre Agamennone, si producesse “uno strappo nel cielo di carta del teatrino”, Oreste resterebbe sconcertato e diventerebbe come Amleto. Perciò, secondo la sua tesi, la differenza fra la tragedia antica e quella moderna sta “in un buco in un cielo di carta”. Cresce l’avversione di Adriano per Terenzio Papiano, che mira a sposare Adriana, per evitare di restituire la dote della moglie. Papiano si mostra invece condiscendente nei suoi confronti. Una sera però conduce in casa un presunto “parente” di Adriano, che questi congeda seccamente. Pochi giorni dopo Papiano conduce in casa un individuo che Meis ha in precedenza incontrato al casinò di Montecarlo. Decide così, per evitare di essere riconosciuto, di cancellare dal suo volto l’ultima traccia di Mattia Pascal, facendosi operare all’occhio strabico.

Capitolo XIII – Il lanternino. Il capitolo si apre a operazione avvenuta: Adriano è costretto a trascorrere quaranta giorni nel buio della sua stanza e sente il bisogno di avere accanto a sé Adriana. Paleari, che gli tiene compagnia, gli spiega la propria concezione filosofica (“lanterninosofia”): l’uomo ha il triste privilegio di sentirsi vivere, e questo sentimento è paragonabile ad un lanternino che proietta attorno a noi una luce, circondata da un’ombra nera e paurosa. Il lanternino che abbiamo in noi fa scarsa luce attorno e ci fa credere che quella scarsa porzione illuminata sia l’esistenza, e le tenebre circostanti la morte. Invece, sostiene Paleari, le immagini che vediamo non sono altro che fumose illusioni di vita, mentre l’uomo vive nel flusso continuo della vita universale. Analogamente, i termini astratti come Verità, Virtù, Bellezza, Onore non sono che “lanternoni” tenuti accesi dal “sentimento collettivo”. In epoche di transizione e di incredulità i lanternoni vacillano o sono spenti, e l’uomo si sente smarrito. C’è chi si rivolge alla ragione e chi alla scienza. Ma Paleari ritiene che la verità stia nella continuità della vita universale. La stanza di Adriano viene predisposta per organizzare una seduta spiritica. Ad essa partecipano Papiano, Paleari, Adriano, un pittore, la giovane Pepita Pantogada, la sua governante e la Caporale come medium, con l’intento di comunicare con lo spirito di Max Oliz, suo compagno d’Accademia.

Capitolo XIV – Le prodezze di Max. Fin dalla prima seduta è visibile, per Adriano, la manipolazione operata da Papiano e dalla Caporale. Quest’ultima, come in dormiveglia, dice che lo spirito di Max chiede una disposizione diversa della catena: i mutamenti portano la signorina Pantogada vicino al pittore e Adriano fra la signorina Caporale e Adriana. Il tavolino, con quattro colpi chiede il buio, ma appena spento il lanternino rosso, la signorina Caporale viene colpita al viso da un pugno. Uno strano strofinio alla propria sedia impressiona il protagonista, ma la signora Candida, la governante di Pepita, spiega che si tratta della sua cagnetta Minerva, che ha l’abitudine di strofinarsi sotto le sedie. Durante una delle sedute successive Pepita riceve carezze e un bacio sulla guancia e il protagonista ne approfitta per baciare Adriana sulla bocca. Ma all’improvviso c’è un gran trambusto: alla luce dei fiammiferi e del lanternino, un tremendo colpo si abbatte sul tavolino; Scipione Papiano è a terra, rantola e viene soccorso da Terenzio; il tavolino all’improvviso si solleva da terra e ricade pesantemente al suolo. Il capitolo si chiude con gli inquietanti interrogativi del protagonista, a causa della conclusione della seduta.

Capitolo XV – Io e l’ombra mia. Il protagonista medita sulla sua triste condizione: non può, infatti, sposare Adriana, essendo egli privo d’identità. Mentre riflette, Adriana bussa alla porta per consegnargli il conto del medico che lo ha operato all’occhio. Adriano è tentato di rivelarle tutta la sua storia, ma poi non trova il coraggio. Poi scopre che gli è stato sottratto del denaro e Adriana, poiché i sospetti cadono su Terenzio Papiano, vorrebbe che lui lo denunciasse, ma egli sa di non poterlo fare, essendo privo d’identità. Esce di casa, esasperato, e camminando contempla la propria ombra, consapevole di non essere nulla di più. Poi rientra a casa.

Capitolo XVI – Il ritratto di Minerva. Rientra a casa mentre Adriana sta accusando Terenzio Papiano per il furto, ma Adriano dichiara di aver ritrovato il denaro, confidando che il cognato lo userà per estinguere il proprio debito con lei. Il protagonista non sa come comportarsi con Adriana, ma alla fine decide di rendersi ai suoi occhi meschino e disprezzabile. Tutti si recano al palazzo del marchese Giglio d’Auletta, per cui Papiano lavora. Qui, in attesa del pittore che deve ritrarre la cagnetta Minerva, Adriano inizia a corteggiare la bella Pepita. Il pittore, ingelosito, lo sfida a duello. Poiché sia il Paleari che Terenzio Papiano si sottraggono alla richiesta di fargli da padrini, il protagonista si rivolge ad alcuni ufficiali, ma si accorge subito delle insuperabili formalità che dovrebbe affrontare. Vaga per le vie di Roma, esasperato, infine decide di fingere un suicidio, per poi tornare al suo paese in veste di Mattia Pascal e vendicarsi. Lascia sul parapetto di un ponte il cappello con dentro un foglio su cui ha scritto “Adriano Meis” e il bastone da passeggio, poi si allontana senza voltarsi.

Capitolo XVII – Reincarnazione. Il protagonista si reca in treno a Pisa, dove intende trascorrere qualche giorno per non far coincidere la scomparsa di Adriano Meis con la ricomparsa di Mattia Pascal. Riflette, intanto, sulle conseguenze della sua scelta, in particolare su Adriana, e sul futuro che lo attende nei panni del rinato Mattia Pascal, di cui assume nuovamente le sembianze tagliandosi i capelli e comprando un cappello del tipo usato da Mattia. Il giorno seguente legge sui giornali la notizia della sua “seconda morte”. Mattia si reca poi a casa del fratello Berto che, incredulo e felice, lo abbraccia. Berto lo informa che Romilda si è risposata con Pomino e Mattia prorompe in un riso amaro e incontenibile, dichiarandosi ancor più deciso a tornare a Miragno. Il fratello lo avverte che però sarà costretto a riprendersi in moglie Romilda, perché in casi come il suo è previsto l’annullamento del secondo matrimonio, come gli conferma il cognato avvocato di Berto.

Capitolo XVIII – Il fu Mattia Pascal. Senza più curarsi di essere riconosciuto, Mattia fa ritorno al paese natio con ansia e rabbia crescenti, e si dirige al palazzo dove abitano Pomino e Romilda. Al suo apparire tutti sono esterrefatti: Pomino cade a terra, la vedova Pescatore emette un grido acutissimo, Romilda sviene. Ma i propositi di vendetta di Mattia si placano, in seguito alla scoperta che la coppia ha una figlia. Mattia li tranquillizza, dicendo di non voler certo tornare ad essere genero della Pescatore. Pomino ricostruisce le vicende che hanno condotto al matrimonio, mentre Mattia racconta qualcosa di quel che gli è accaduto, poi all’alba egli si congeda da loro per sempre. Così, Mattia si rassegna a vivere con la zia Scolastica, trascorrendo gran parte del tempo in biblioteca in compagnia di don Eligio Pellegrinotto, con l’aiuto del quale scrive la sua incredibile vicenda dietro la promessa che il curato ne manterrà il segreto, come in confessione. Il manoscritto, poi, lo lascerà alla biblioteca, con l’obbligo che nessuno lo apra se non dopo cinquant’anni dalla sua “terza, ultima e definitiva morte”. Nel cimitero di Miragno il protagonista, che ha portato una corona di fiori sulla tomba che porta la lapide a lui intestata, incontra talvolta qualche curioso che lo interroga sulla sua identità, e lui risponde: <<Eh, caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal>>.

 

 

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