Edgar Allan Poe, Il gatto nero.

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Edgar Allan Poe, Il gatto nero

Prendete un gatto nero, un uomo alcolizzato e sua moglie. Che cosa ne può derivare? Poe crea una sorta di triangolo malefico. L’uomo dapprima maltratta, poi uccide il gatto impiccandolo, e resta turbato dalla strana immagine che compare sul muro della sua casa, divorata da un incendio, l’immagine di un gatto con un cappio al collo. Poi un secondo gatto, in tutto simile al primo. E ci si aspetta che anche questo sia ucciso, ma il protagonista sbaglia bersaglio e uccide la moglie. I gatti sono astuti e vendicativi. Il protagonista si sente furbo, ma è il gatto alla fine a vincere e a consegnarlo al boia.

 

Per il racconto più straordinario, e al medesimo tempo più comune, che sto per narrare, non aspetto né pretendo di essere creduto.

Sarei davvero pazzo a pretendere che si presti fede a un fatto a cui persino i miei sensi respingono la loro stessa testimonianza. Eppure pazzo non sono, e certamente non vaneggio. Ma domani morrò, e oggi voglio scaricare la mia anima. Mio scopo immediato è di porre innanzi al mondo, in modo piano, succinto, e senza commenti, una serie di casi semplicemente domestici. Nel loro concatenarsi questi fatti mi hanno terrificato, mi hanno torturato, mi hanno annientato. Non tenterò tuttavia di spiegarli. Per me essi non hanno rappresentato che orrore; a molti invece più che terribili essi sembreranno BAROQUES. In seguito forse un intelletto saprà condurre il mio fantasma al senso comune, un intelletto più calmo, più logico, meno eccitabile del mio, il quale scorgerà nelle circostanze che io descrivo con terrore, null’altroché un normale susseguirsi di cause e di effetti naturalissimi.

Sin dall’infanzia sono stato conosciuto per la docilità e la mitezza del mio carattere.

Ero talmente tenero di cuore, anzi, che i miei compagni mi avevano preso a soggetto delle loro beffe. Amavo soprattutto gli animali, e i miei genitori mi avevano concesso di possedere una grande varietà di bestiole preferite. Passavo con questi animaletti la maggior parte del mio tempo, e la mia più perfetta felicità consisteva nel nutrirli e nell’accarezzarli. Questo tratto caratteristico della mia indole crebbe in me coll’andare degli anni e, divenuto adulto, trassi da ciò una delle mie principali fonti di soddisfazione. A coloro che abbiano provato un vivo affetto verso un cane fedele e intelligente non occorrerà che io spieghi la natura e l’intensità del piacere derivante da questa tendenza. Vi è qualcosa nell’amore spoglio di egoismo e ricco di sacrificio di una bestia senz’anima, che va direttamente al cuore di colui che abbia frequenti occasioni di saggiare la pacchiana amicizia e l’instabile fedeltà del cosiddetto UOMO. Mi sposai giovane, e fui felice di ritrovare in mia moglie una tendenza non contrastante con la mia. Avendo notato la mia debolezza verso gli animali domestici, non perdeva occasione di procurarmi quelli che mi piacevano. Avevamo diversi uccelli, dei pesciolini, un bel cane, alcuni conigli, una scimmietta, e UN GATTO. Quest’ultimo era un animale bellissimo, di grossezza notevole, completamente nero, e straordinariamente intelligente. Parlando della sua intelligenza, mia moglie che in cuor suo non era scevra di una certa punta di  superstizione, faceva frequenti allusioni all’antica credenza popolare secondo la quale tutti i gatti neri siano streghe travestite. Non che ella si  esprimesse mai SERIAMENTE su questo punto, e cito questo particolare soltanto perché mi capita ora, proprio per caso, di ricordarlo. Pluto, così si chiamava il gatto, era il mio animale preferito e il mio compagno di giochi. Io soltanto gli davo da mangiare, ed egli mi seguiva dovunque, per casa: anzi duravo fatica a impedirgli di accompagnarmi persino per la strada.

La nostra amicizia si protrasse così per parecchi anni, durante i quali il mio temperamento e il mio carattere in genere,

ad opera del demone Intemperanza (arrossisco nel confessarlo), subirono un radicale mutamento verso il peggio. Ero divenuto di giorno in giorno più scontroso, più irritabile, sempre più incurante dei sentimenti altrui. Ero giunto a usare verso mia moglie un linguaggio sconveniente. Alla fine arrivai persino alla violenza personale contro di lei. Naturalmente anche le mie bestiole ebbero a soffrire di questo mutamento del mio carattere. Non solo le trascuravo, ma le maltrattavo. Verso Pluto comunque sentivo ancora abbastanza tenerezza per trattenermi dal picchiarlo, mentre non mi facevo scrupolo di percuotere i conigli, la scimmia, persino il cane, se essi per caso o per affetto mi si mettevano tra i piedi. Ma il mio male peggiorava, quale male infatti è peggiore dell’alcool? E infine persino Pluto, il quale ormai invecchiava, ed era di conseguenza alquanto stizzoso, persino Pluto cominciò a subire gli effetti del mio cattivo carattere.

Una sera, ritornando a casa dai miei vagabondaggi per la città, ubriaco fradicio,

ebbi la sensazione che il gatto evitasse la mia presenza. Lo afferrai, e l’animale, allora, spaventato dalla mia violenza, mi produsse sulla mano, con i suoi denti, una lieve ferita. In un attimo fui invaso da una furia demonica. Non mi riconoscevo più. Era come se la mia anima originaria mi si fosse a un tratto spiccata dal corpo, e una malvagità peggio che infernale, alimentata dal gin, pervase ogni fibra del mio essere. Mi tolsi di tasca un temperino, lo apersi, afferrai la povera bestia per la gola, e deliberatamente gli feci saltare l’occhio dall’orbita. Arrossisco, avvampo, rabbrividisco, mentre la mia penna descrive questa inaudita atrocità. Allorché col mattino la ragione mi ritornò, dopo che il sonno aveva fatto dileguare lungi da me i fumi dell’orgia notturna, provai un sentimento per metà di orrore, per metà di rimorso, per il delitto di cui mi ero reso colpevole; ma non era che un sentimento debole e ambiguo, e l’anima ne rimase intatta. Mi rituffai nei miei eccessi, e ben presto affogai nel vino ogni ricordo del mio misfatto.

Coll’andare del tempo tuttavia il gatto guarì. Certo la sua occhiaia vuota aveva un aspetto pauroso,

ma l’animale non pareva soffrire più alcun dolore. Si aggirava per la casa come al solito, ma com’era da aspettarsi, fuggiva terrorizzato non appena mi vedeva. Mi era rimasto ancora abbastanza del mio vecchio cuore per sentirmi a tutta prima addolorato da questo evidente disgusto da parte di una creatura che un tempo mi aveva tanto amato. Ben presto però a questo sentimento succedette una viva irritazione. E infine si impadronì di me, per sommergermi in modo definitivo e irrevocabile, lo spirito della PERVERSITA’. Di questo spirito la filosofia non si cura. Eppure sono sicuro, quanto sono sicuro che la mia anima vive, che la perversità è uno degli impulsi più primitivi del cuore umano, una di quelle facoltà o sentimenti primari non analizzabili che dirigono il carattere dell’Uomo. Chi non ha almeno cento volte commessa un’azione sciocca o vile, per nessun altro motivo se non perché sa che non dovrebbe commetterla? Non proviamo noi una tendenza perenne, a dispetto di ogni nostra migliore saggezza, a violare ciò che è la LEGGE, soltanto perché la riconosciamo tale? Questo spirito di perversità, ripeto, produsse in me il decadimento finale. Era questo insondabile anelito dell’anima A TORTURARE SE STESSA, a violentare la propria stessa natura, a fare il male soltanto per amore del male, che mi sospinse a continuare e infine a consumare l’offesa che avevo inflitta alla bestia innocente.

Un mattino, a sangue freddo le passai un cappio al collo e la impiccai al ramo di un albero;

la impiccai, con le lagrime che mi sgorgavano dagli occhi e col più amaro rimorso nel cuore; la impiccai perché sapevo che mi aveva amato, e perché sentivo che non mi aveva dato alcun motivo di offesa; la impiccai perché sapevo che così facendo commettevo un peccato, un peccato mortale che avrebbe posto in tale pericolo la mia anima immortale da sottrarla (se una cosa simile fosse possibile) perfino all’infinita misericordia dell’Infinitamente Misericordioso e Infinitamente Terribile Iddio.

La notte di quel giorno in cui avevo compiuto questo gesto crudele fui risvegliato nel sonno da grida di “al fuoco! Al fuoco!”.

I cortinaggi del mio letto erano in fiamme, tutta la casa ardeva. Fu con grande difficoltà che mia moglie, una domestica e io stesso riuscimmo a salvarci dall’incendio. La distruzione fu totale. Tutta la mia sostanza venne inghiottita dal disastro, e da quel momento in avanti io mi abbandonai alla disperazione. Non ho affatto la debolezza di cercar di stabilire un nesso di causa e di effetto tra questa sciagura e l’atrocità da me commessa. Ma sto enumerando una catena di fatti, e non desidero perciò lasciare incompiuto anche un solo eventuale anello.

Il giorno successivo all’incendio mi recai a ispezionare le macerie.

Tutti i muri della casa erano caduti, a eccezione di uno solo. Si trattava di un muro divisorio, non molto massiccio, che si trovava verso il mezzo della casa, e contro il quale aveva sempre poggiato la testa del mio letto. In questo punto l’intonaco aveva in gran parte resistito all’azione del fuoco, un particolare che io attribuii al fatto essere stata quella parete appunto ripulita di fresco. Intorno a questo muro si era radunata una densa folla, e molte persone sembravano esaminare un certo tratto di parete con attenzione minutissima e ansiosa. Le parole “Strano!”, e “Incredibile!”, e altre espressioni consimili eccitarono la mia curiosità. Mi avvicinai e vidi, quasi fosse scolpita in BAS-RELIEF sulla superficie bianca, l’immagine di un gatto gigantesco. L’effetto era reso con una precisione che aveva veramente del fantastico. Intorno al collo dell’animale penzolava una corda. A tutta prima, nel trovarmi di fronte a quella apparizione, poiché non potevo considerarla altrimenti, fui invaso da uno sbalordimento e da un terrore incontrollabili. Ma in seguito la ragione mi venne in soccorso. Mi rammentai di avere impiccato il gatto in un giardino adiacente alla casa. Quando era stato dato l’allarme d’incendio questo giardino era stato immediatamente invaso dalla folla, e tra questa qualcuno doveva aver tolto l’animale dall’albero e doveva averlo gettato attraverso la finestra aperta, nella mia stanza. Forse avevano fatto questo con l’intenzione di svegliarmi. La caduta di altre pareti aveva schiacciato la vittima della mia crudeltà nella massa dell’intonaco spalmato di fresco; e la calce di questo, unitamente alle fiamme a all’ammoniaca esalante dalla carogna avevano poi compiuto la raffigurazione che io ora vedevo dinanzi.  Per quanto riuscissi a placare con questa riflessione il mio cervello, se non completamente la mia coscienza, e giustificare così il fatto sorprendente che ho testé narrato, non mi fu tuttavia possibile sottrarmi alla profonda impressione che esso aveva provocato sulla mia fantasia.

Per mesi interi non riuscii a liberarmi del fantasma del gatto,

e durante tutto quel tempo il mio spirito fu tormentato da un sentimento indefinito che poteva sembrare, ma non era, rimorso. Giunsi sino al punto di rimpiangere la perdita dell’animale e a guardarmi attorno, nei sordidi ambienti che ormai frequentavo d’abitudine, in cerca di qualche altro esemplare della stessa specie, se non proprio del tutto identico, da poter coccolare, e grazie al quale sostituire la bestiola perduta.

Una notte, mentre sedevo, in stato di semistupidimento, in una taverna malfamata,

la mia attenzione fu improvvisamente attratta da un oggetto nero che posava sul coperchio di una delle tante botti enormi piene di gin o di rum costituenti il principale arredamento della stanza. Già da alcuni minuti stavo fissando proprio il coperchio di quella botte, e fui perciò sorpreso di non essermi accorto prima dell’oggetto che vi era adagiato sopra. Mi avvicinai e lo toccai con la mano. Era un gatto nero enorme, grosso quanto Pluto, e che gli assomigliava in tutto tranne che per un unico particolare. Pluto non aveva un solo pelo bianco in tutto il corpo, mentre questo gatto aveva l’intera zona del petto ricoperta di una larga se pure indefinita macchia bianca. Non appena lo toccai l’animale si alzò immediatamente, si mise a ronfare forte, si strofinò contro la mia mano, parve insomma felice della mia attenzione verso di lui. Era dunque proprio il gatto di cui andavo in cerca. Offersi subito al taverniere di acquistarlo, ma l’uomo dichiarò di non avere alcun diritto su quella bestia, poiché non ne sapeva nulla, né mai l’aveva veduta prima. Seguitai ad accarezzarlo, e mentre mi disponevo a ritornare a casa, l’animale dimostrò subito una evidente intenzione di accompagnarmi. Naturalmente ne fui ben contento, e di quando in quando mi chinavo a lisciargli il pelo pur seguitando a procedere nel mio cammino. Non appena giunto a casa la bestia si addomesticò subito e divenne immediatamente il coccolo di mia moglie. Per parte mia mi accorsi ben presto che in me sorgeva contro l’animale una viva antipatia. Era proprio il contrario di quanto avevo preveduto, ma non so perché o come fosse, la sua manifesta tenerezza verso la mia persona mi indispettiva e disgustava. Gradatamente questi sentimenti di ribrezzo e di insofferenza si tramutarono in un odio profondo. Evitavo l’animale; un vago senso di vergogna e il ricordo del mio precedente atto di crudeltà mi impediva di maltrattarlo fisicamente.

Per alcune settimane mi trattenni dal picchiarlo, o dal fargli comunque del danno,

ma a poco a poco, oh, per lentissimi gradi, giunsi a considerarlo con un ribrezzo indescrivibile e a fuggire silenziosamente la sua odiosa presenza come sarei fuggito dal lezzo pestilenziale di una malattia contagiosa. Quel che alimentava senza dubbio il mio odio verso l’animale era stata la scoperta, il mattino successivo alla sua venuta nella mia casa, che anche questo gatto, al pari di Pluto, era cieco di un occhio. Questo particolare invece non aveva fatto che renderlo ancora più caro a mia moglie, la quale, come già ho detto, possedeva in sommo grado quella umanità di sentimenti che era stata un tempo il mio tratto caratteristico, e la fonte di molte tra le mie più semplici e più pure soddisfazioni. Ma quanto più la mia avversione per questo gatto cresceva, tanto più sembrava aumentare da parte sua la tenerezza verso di me. Seguiva i miei passi con una ostinazione che sarebbe difficile far comprendere al lettore. Dovunque mi sedessi, subito si accovacciava sotto la mia seggiola, o mi balzava sulle ginocchia, importunandomi con le sue insopportabili feste. Se mi alzavo per passeggiare, ecco che correva a mettermisi fra i piedi e per poco non mi faceva cadere, oppure conficcando nel mio vestito i suoi unghioli lunghi e aguzzi, si arrampicava con questo sistema sino al mio petto. In quei momenti, benché mi divorasse il desiderio di distruggerlo con un colpo solo, ero trattenuto dal far ciò, in parte dal ricordo del mio precedente delitto, ma soprattutto, lasciate che lo confessi subito, da un vero e proprio TERRORE dell’animale. Questo terrore non era esattamente il terrore di un possibile male fisico, e tuttavia non saprei come altrimenti definirlo. Ho quasi vergogna di ammettere – sì, persino in questa cella d’infamia, ho quasi vergogna d’ammettere, – che il terrore e l’orrore ispiratimi dall’animale erano stati rafforzati da una tra le più chimeriche assurdità che sia possibile immaginare. Mia moglie aveva più d’una volta richiamata la mia attenzione sulla stranezza della macchia di peli bianchi di cui ho già accennato, e che costituiva la sola differenza visibile tra questo misterioso gatto e quello che io avevo ucciso. Il lettore si rammenterà che questo segno, per quanto grande, dapprincipio era molto indefinito, mentre invece in seguito (per gradi lentissimi, quasi  impercettibili, e che la mia Ragione si rifiutò a lungo di ammettere, respingendoli come un’assurda fantasia) aveva infine assunto nettezza di  contorni e una forma precisa. Esso era divenuto ora la rappresentazione di un oggetto che rabbrividisco a nominare, e per questo soprattutto odiavo e paventavo e avrei voluto sbarazzarmi di quel mostro SE SOLTANTO LO AVESSI OSATO, poiché questo segno, ripeto, si era finalmente trasformato nella figurazione limpidissima di un oggetto odioso e ributtante: era divenuto una FORCA, oh, lugubre e terribile macchina di orrore e di delitto, di agonia e di morte!

E adesso la mia miseria superava la miseria tutta dell’Umanità intera. E una BESTIA BRUTA, il cui simile io avevo così sprezzantemente annientato, una BESTIA BRUTA doveva foggiare per ME, per me uomo, fatto a immagine  dell’Altissimo Iddio, un così intollerabile tormento? Ahimé! Non conobbi più né di notte né di giorno la benedizione del riposo! Di giorno l’animale non mi lasciava solo neppure per un istante; e di notte mi svegliavo di ora in ora di soprassalto, da incubi grevi di indicibile paura, per sentirmi l’alito caldo di QUELLA COSA sulla faccia, e la vasta massa del suo corpo. Incubo incarnato che non avevo il potere di scuotermi di dosso, eternamente incombente sul mio CUORE!

Sotto l’incalzare di siffatte torture, quel poco di bene che ancora restava in me scomparve. Pensieri malvagi divennero i miei soli compagni, ed erano i più tetri, i più malvagi dei pensieri. L’ombrosità abituale del mio carattere si tramutò in un odio forsennato di tutte le cose e dell’intera umanità; mentre degli scoppi improvvisi, frequenti, incontrollabili di collera ai quali ora io  ciecamente mi abbandonavo, la mia docile moglie, era divenuta, ahimé! la vittima più consueta e più paziente.

Un giorno ella mi accompagnò per necessità domestiche nello scantinato del vecchio edificio

dove la nostra povertà ci costringeva ora ad abitare. Il gatto naturalmente mi aveva seguito giù per i ripidi scalini, e, avendo io evitato per vero miracolo di cadere lungo disteso per causa sua, mi aveva esasperato  sino alla follia. Sollevai una scure e dimenticando nella mia collera il terrore puerile che sino a quel momento mi aveva trattenuto la mano, diressi contro l’animale un colpo che certo lo avrebbe ucciso all’istante se fosse calato come io avrei voluto. Ma questo colpo fu arrestato dalla mano di mia moglie. La sua intromissione mi colmò di furore demoniaco e liberando violentemente il mio braccio dalla sua stretta le affondai la scure nel cervello. Ella cadde morta stecchita, senza emettere un gemito. Appena compiuto questo odioso crimine, mi posi immediatamente e con fredda deliberazione all’impresa di occultare il cadavere. Sapevo che non mi era possibile rimuoverlo dalla casa, né di giorno né di notte, senza correre il rischio di essere notato dai vicini. Formai nella mia mente molti progetti. A tutta prima pensai di tagliare il cadavere in pezzi minuti e di distruggerli nel  fuoco. In un secondo tempo decisi di scavare una fossa nel pavimento della cantina. Poi architettai di gettarlo nel pozzo del cortile, oppure di porlo dentro una scatola, come se fosse della merce, e ordinare al portiere di portarlo via da casa. Infine escogitai quello che mi parve l’espediente migliore. Decisi di murarlo nella cantina stessa, come si narra solessero murare le proprie vittime i monaci medievali. La cantina era adattissima a uno scopo come il mio. Le sue pareti erano state costruite rozzamente, e di fresco intonacate con cemento grossolano, cui  l’umidità atmosferica aveva impedito d’indurirsi. Inoltre in una delle pareti vi era uno sporto, provocato da un falso camino, o caminetto, che era stato riempito e trasformato in modo da somigliare al resto dello scantinato. Mi assicurai che mi sarebbe stato facile spostare i mattoni in quel punto, inserirvi il cadavere, e tornare a murare il tutto come prima, in modo che nessun occhio umano potesse scorgervi alcunché di sospetto. I miei calcoli non dovevano ingannarmi. Con l’aiuto di una sbarra di ferro scostai facilmente i mattoni, e dopo avere accuratamente deposto il cadavere contro la parete interna, lo puntellai in quella posizione mentre andavo via via riaccomodando senza fatica l’intera opera muraria così come era stata originariamente costruita. Mi ero procurato con tutte le possibili cautele della calce e della sabbia, avevo preparato l’intonaco in modo che non era assolutamente possibile distinguerlo dal vecchio, e con esso ricopersi accuratamente la nuova opera muraria. Quando ebbi finito mi accorsi con soddisfazione di aver compiuto un buon lavoro. Il muro non sembrava essere stato manomesso minimamente. Spazzai con attenzione minutissima il pavimento dei rifiuti e delle scorie di cui lo avevo sporcato. Mi guardai attorno trionfante e dissi a me stesso: “Meno male! Le mie fatiche non sono state vane”.

Subito dopo, il mio primo pensiero fu quello di andare in cerca dell’animale che era stata la causa di tanta sciagura,

poiché ero ormai fermamente deciso ad ucciderlo. Se fossi stato in grado di acchiapparlo in quel momento, il suo destino sarebbe stato indubbiamente segnato, ma, a quel che pareva, l’astuta bestia si era spaventata del mio precedente accesso di collera, e si guardava bene dal presentarsi al mio cospetto, date le attuali condizioni del mio umore. Mi è impossibile descrivere, o fare immaginare al lettore, il senso profondo, quasi estatico di sollievo che la constatazione della scomparsa dell’odiata creatura suscitò nel mio petto. Per tutta quella notte non si fece vedere, e così per una notte almeno, da quando si era introdotto nella mia casa, riuscii a dormire di un sonno profondo e pacifico; sì, DORMII nonostante il peso del delitto che mi gravava sull’anima! Passò il secondo giorno, passò il terzo, ma il mio tormentatore non comparve.  Tornai a respirare come un uomo libero. Certo il mostro, spaventato, era fuggito dalla mia casa per sempre! Non lo avrei più veduto! La mia felicità era al colmo! Non sentivo quasi la colpa del mio truce misfatto. Mi erano state rivolte alcune domande, ma avevo saputo rispondere a tutte in modo soddisfacente. Era stata persino ordinata un’inchiesta, ma naturalmente nessuno aveva scoperto nulla. Ero certo di avere ormai assicurato un avvenire tranquillo e sereno.

Il quarto giorno successivo all’assassinio entrò però inaspettatamente in casa mia una squadra di poliziotti

che procedette a un rigoroso esame dei locali. Sicuro però della inaccessibilità del mio nascondiglio non provai alcun imbarazzo. I funzionari di polizia mi pregarono di accompagnarli nella loro perquisizione. Ogni angolo, ogni ripostiglio fu attentamente esplorato. Infine scesero in cantina per la terza o quarta volta. Non uno solo dei miei muscoli tremò. Il mio cuore batteva calmo come batte a chi dorme nel sonno dell’innocenza. Percorsi la cantina da un capo all’altro, tenendo le braccia incrociate sul petto, e aggirandomi di qua e di là con disinvoltura. I poliziotti si dichiararono soddisfatti e si disposero ad andarsene. L’esultanza del mio cuore era troppo intensa perché potessi trattenerla. Bruciavo dal dire ancora una parola sola, per rafforzare il mio trionfo, e rassicurarli doppiamente della mia innocenza.

– Signori, – dissi infine, mentre già stavano salendo i gradini, – sono lieto di avere calmato i vostri sospetti.

Vi auguro buona salute, e vi porgo i miei omaggi. A proposito, signori, questa… questa è una casa costruita meravigliosamente bene. – (Nel desiderio morboso di parlare con disinvoltura, quasi non mi rendevo conto delle parole che proferivo). – Posso dire anzi che è una casa costruita in maniera ECCELLENTE. Queste pareti, ve ne state già andando, signori? queste pareti, guardate come sono solide! – E a questo punto, in una vera frenesia di sfida, picchiai pesantemente con la mazza che tenevo in  mano proprio su quel tratto di opera muraria dietro al quale stava il cadavere della moglie che io avevo tanto amata. Ma possa Iddio proteggermi e liberarmi dagli artigli dell’Arcidemonio! Non appena gli echi dei miei colpi si furono spenti nel silenzio, ecco che ad essi una voce rispose dal segreto loculo! Era un pianto, dapprima soffocato e interrotto, come il singhiozzare di un bambino, che rapidamente si enfiò sino a divenire un unico lungo, alto, continuo urlo, indicibilmente strano e inumano, un ululato, uno strido guaiolante, per metà di orrore e per metà di trionfo, quale solo avrebbe potuto levarsi dal fondo dell’inferno, se le gole di tutti i dannati nella loro angoscia e tutti i demoni nell’esultanza della dannazione umana si fossero insieme congiunte. Di quel che fossero i miei pensieri in quel momento è follia parlare. Sentendomi venir meno, arretrai barcollando verso la parete opposta. Per un attimo i poliziotti, giunti già in cima alle scale ristettero immobili, raggelati dall’orrore e da una specie di arcana paura. Un attimo dopo dodici braccia robuste si davano da fare attorno alla parete. Questa cadde di colpo in tutta la sua massa. Il cadavere, già quasi interamente decomposto e chiazzato di sangue raggrumato, apparve eretto dinanzi agli occhi degli agenti. Sul suo capo, con la sua rossa bocca spalancata e l’unico occhio di fiamma, sedeva lo spaventoso animale la cui malizia mi aveva indotto al delitto, e la cui voce rivelatrice mi aveva consegnato al boia.

Avevo murato il mostro entro la tomba!

Edgar Allan Poe, Il gatto nero, in Tales of Grotesque and Arabesque, 1840

Analisi del testo

Il racconto inizia a cose fatte. Un uomo condannato all’impiccagione per un delitto da lui commesso, ci racconta la sua storia, una storia che lui stesso stenta a considerare credibile. Il protagonista-narratore ammette l’improbabilità che si presti fede alla sua storia. Eppure la racconta, la scrive. Vuole sgravare la sua coscienza da un peso, raccontando gli eventi che lo hanno spinto fino all’omicidio.

Il protagonista dice di essere stato buono nella sua infanzia, fin troppo buono, e di aver amato in particolare gli animali, preferendoli agli esseri umani, per la loro capacità di amare senza egoismo. Sposatosi, tra i molti animali che la moglie gli regala vi è un bellissimo gatto nero, Pluto, che per lungo tempo è il suo preferito. Ma il demone dell’intemperanza, indotto dall’alcol, muta il suo buon carattere ed egli sfoga la sua rabbia sulla moglie e sugli animali, in particolare sul gatto. Rientrato una sera a casa ubriaco gli toglie un occhio con un temperino, poi un mattino lo uccide, impiccandolo a un albero, spinto dallo spirito di perversità. La notte successiva la sua casa va a fuoco e sull’unico muro superstite il protagonista può vedere l’inquietante bassorilievo di un gatto con un cappio al collo.

Qualche tempo dopo, in una taverna, il protagonista incontra un gatto, in tutto simile a Pluto tranne che per un’indefinita macchia bianca sul petto, che lo segue fino a casa. Per qualche tempo l’uomo riesce a controllare le proprie pulsioni malvagie ma finisce poi per odiare il gatto, sul cui petto la macchia bianca ha finito con l’assumere i netti, inquietanti contorni di una forca. L’immagine della forca rievoca l’impiccagione di Pluto, ma anticipa anche il destino del protagonista.

Un giorno, mentre scende con la moglie nello scantinato, il gatto lo fa inciampare e lui cerca di ucciderlo con una scure. Fermato dalla moglie, egli rivolge la propria ira contro di lei e le spacca il cranio. L’assassino nasconde il cadavere della moglie un cantina murandolo, poi cerca il gatto che però sembra scomparso nel nulla.

Il protagonista si comporta in modo strano, con gli investigatori venuti a indagare, vuol mostrare estrema sicurezza e addirittura, quando stanno per andarsene, picchia su muro che nasconde il cadavere con una mazza, per mostrare – dice – la solidità della costruzione. A quel punto l’atroce miagolio del gatto, che egli inavvertitamente ha murato assieme alla moglie, rivela agli inquirenti la verità e consegna l’assassino alla forca.

Nel gesto che svela l’omicidio, al di là della dichiarata volontà di prendersi gioco degli investigatori e della sensazione di trionfo della propria astuzia, vi è forse, il desiderio di confessare la propria colpa. Come nel racconto Il cuore rivelatore l’assassino è tormentato, sembra desideroso di parlare, di confessare il proprio delitto, come accadrà a Raskol’nikov, protagonista di Delitto e castigo di Dostoevskij.

Tutto il racconto è implicitamente attraversato dalla duplicità di carattere del protagonista: è buono, ma inevitabilmente finiscono per prevalere in lui pulsioni malvagie; ama gli animali ma finisce per provare un odio inspiegabile per i due gatti. Una doppiezza che sembra preludere al romanzo di Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr Hyde.

Il ritmo della narrazione ha un ruolo importante. In essa si alternano sommari e pause riflessive, in cui l’autore esprime i propri pensieri e stati d’animo. Come di consueto Poe usa abilmente i rallentamenti del ritmo per creare suspense alternandoli a improvvise accelerazioni degli eventi.

Esercizi di analisi del testo: Il gatto nero

  1. Dividi il testo in sequenze: fanne la titolazione e il riassunto. Quale rapporto c’è tra fabula e intreccio?
  2. In che situazione si trova il protagonista all’inizio del racconto? Il protagonista-narratore ammette l’improbabilità che si presti fede alla sua storia. Eppure la racconta, la scrive. Perché?
  3. Che cosa caratterizza, a suo dire, la sua infanzia? Egli sostiene di aver preferito gli animali agli uomini. Per quale ragione? Quali animali procura la moglie al protagonista?
  4. Che aspetto presenta Pluto? Che cosa dice la moglie a proposito dei gatti neri?
  5. Esamina i comportamenti e le emozioni del protagonista nelle varie fasi della narrazione, in relazione con i due gatti della storia. Perché egli cambia atteggiamento nei loro confronti?
  6. Quali fatti inquietanti sono associabili alla morte di Pluto? Quale spiegazione ne dà il protagonista?
  7. Quali elementi rendono il secondo gatto molto simile al primo e quale lo rende diverso? Perché quest’ultimo è particolarmente inquietante? Cosa ricorda e cosa anticipa?
  8. Il protagonista dopo il delitto si comporta in modo strano con gli investigatori. Come spieghi il suo comportamento? In cosa è simile e in cosa diverso da quello del protagonista del “Cuore rivelatore”?
  9. Il ritmo della narrazione ha un ruolo importante. In essa si alternano sommari e pause riflessive, in cui l’autore esprime i propri pensieri e stati d’animo. Quali sono i più importanti cambiamenti di ritmo narrativo?
  10. Nel racconto vi sono scarse indicazioni relative al contesto ambientale e sociale. Sulla base dei pochi riferimenti, quali sono le condizioni sociali del protagonista?
  11. Pazzia e “domesticità” sono due dei temi presenti nel racconto: che relazione vi è tra di essi?

gatto nerogatto nero

 

 

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