Boccaccio, Frate Cipolla (Testo parafrasato)

frate cipolla

Frate Cipolla [testo parafrasato]

Sesta giornata, Novella decima (Decameron)

Frate Cipolla promette ad alcuni contadini di mostrare loro una penna dell’arcangelo Gabriele; al posto della quale, trovando dei carboni, egli dice che sono quelli su cui arrostì san Lorenzo.

[…]

Certaldo, come forse saprete, è un castello della Val d’Elsa posto nella nostra campagna che, benché piccolo, è abitato da uomini nobili e ricchi. Un frate di nome Cipolla, dei frati di sant’Antonio, era solito recarvisi ogni anno a chiedere l’elemosina, poiché se ne ricavava molto. Egli vi veniva accolto volentieri, forse anche per via del nome, dato che in quei luoghi il terreno produce cipolle famose in tutta la Toscana.

Questo frate Cipolla, minuto di corporatura, di pelo rosso e col viso sempre lieto, era grande amante delle allegre brigate. Inoltre, pur privo di istruzione, era un predicatore tanto abile che chi non l’avesse conosciuto l’avrebbe ritenuto un grande oratore, paragonabile a Cicerone o forse a Quintiliano. Infine, si era fatti amici quasi tutti quelli che vivevano in quel paese.

Come era sua abitudine, una domenica mattina d’agosto, in cui tutti gli uomini e le donne del contado si erano radunati in chiesa per la messa, al momento opportuno disse:

– Signori e signore, come è noto, siete soliti inviare ogni anno ai poveri frati di messer barone Sant’Antonio una parte del vostro grano e dei vostri cereali, chi poco e chi molto, secondo le proprie ricchezze e secondo la propria devozione. Questo affinché Sant’Antonio vigili sui vostri buoi, sui vostri asini, sui vostri maiali e sulle vostre pecore. Inoltre, siete soliti offrire la decima ogni anno. Io sono stato inviato dall’abate a raccogliere di persona queste offerte.

Perciò, con la benedizione di Dio, oggi pomeriggio, dopo nona, quando sentirete suonare le campane, verrete qui, davanti alla chiesa, dove come al solito potrete ascoltare la mia predica e baciare la croce. E poiché so bene che siete molto devoti a Sant’Antonio, per speciale concessione vi mostrerò una santissima e bellissima reliquia, che ho portato di persona dalle sacre terre d’oltremare. Si tratta di una delle penne dell’arcangelo Gabriele, che restò nella camera della Vergine Maria quando le venne ad annunziare a Nazaret la venuta di Cristo.

Tra i molti che ascoltarono queste parole, c’erano due scaltri giovani, tali Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini, che risero molto tra sé a proposito della reliquia e, benché fossero amici del frate, decisero di fargli una beffa al riguardo della penna. Appreso che Cipolla pranzava nel castello con un suo amico, mentre era a tavola, scesero in strada e si recarono al suo albergo: Biagio avrebbe intrattenuto e distratto il servo del frate, mentre Giovanni avrebbe cercato la penna tra i vari oggetti e l’avrebbe sottratta, per vedere come poi il frate se la sarebbe cavata davanti al popolo.

Il servo di frate Cipolla, che alcuni chiamavano Guccio Balena, altri Guccio Imbratta e altri Guccio Porco, era un omaccione peggiore di Lippo Topo.[1]

Lo stesso Cipolla spesso era solito burlarsi di lui con i suoi amici e dire:

– Il mio servo possiede nove difetti tali che, se anche uno solo di essi fosse in Salomone, Aristotele o Seneca, rovinerebbe la loro virtù, la loro saggezza, la loro santità. Pensate quindi di che soggetto si tratta.

Una volta che gli chiesero quali fossero i nove difetti che aveva, lui rispose elencandoli in rima:

tardo, sudicio come il lardo e bugiardo; negligente, disubbidente e maldicente; trascurato, smemorato e scostumato. Ha poi anche altri difettucci di cui taccio per il suo bene. Quello che più lo rende ridicolo è che ovunque capiti vuole prender moglie e affittare una casa, e benché abbia una gran barbona nera e unta, è così convinto di essere bello e piacevole da pensare che tutte le donne che lo vedono si innamorino di lui. Se non lo trattenessi correrebbe dietro a tutte senza pudore.

In realtà lui mi è di grande aiuto, tanto che nessuno può parlare con me privatamente senza che lui si intrometta. E se capita che mi venga chiesto qualcosa ha così paura che io non sappia rispondere che interviene prontamente lui a rispondere sì o no, come ritiene più opportuno.

Frate Cipolla chiese a costui di custodire con attenzione le sue cose, evitando, in particolare, che qualcuno si avvicinasse alle sue bisacce, che erano piene di sacre reliquie. Ma Guccio Imbratta preferiva stare in cucina, più che un usignolo sui rami verdi, soprattutto se c’era qualche domestica.

Ne adocchiò una grassa e grossa, piccola e mal fatta, con un paio di poppe che sembravano due cestoni per il letame e il viso di singolare bruttezza, che pareva quello di una Baronci, tutta sudata, unta e affumicata. Come un avvoltoio si getta su una carogna, lasciata la stanza di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose abbandonate, si fiondò là. E benché fosse agosto, si mise a sedere vicino al fuoco e cominciò a raccontar frottole a costei, che si chiamava Nuta. Le disse di essere un gentiluomo dotato di enormi ricchezze tanto da poter donare fiorini senza problemi e di essere capace di fare tante cose che neppure un prete ne sapeva fare altrettante.

Guccio aveva un cappuccio tanto unto che avrebbe condito il pentolone dei monaci di Altopascio, una giubba tutta rotta e rappezzata, smaltata di sudiciume sotto il collo e sotto le ascelle, con tante macchie di più colori, più dei panni tartari o indiani, le sue scarpe erano rotte e le sue calze sdrucite. Eppure, come se lui fosse il signore di Castiglione, le disse che voleva rivestirla, rimetterla in buone condizioni e liberarla da quella schiavitù, al servizio di altri. Inoltre, con tono dolce e affettuoso, le raccontò molte altre frottole.

I due giovani videro Guccio Porco occupato con la ragazza, così poterono senza problemi introdursi nella stanza di frate Cipolla, che trovarono aperta. Subito cercarono la bisaccia dentro la quale era conservata la penna, che trovarono dentro una cassettina avvolta in un gran viluppo di seta. Si trattava di una penna presa dalla coda di un pappagallo, che i due ritennero fosse quella che Cipolla aveva promesso di mostrare ai certaldesi, contando sul fatto che essi non avevano mai visto penne di quel tipo.

I due giovani presero la penna e, per non lasciarla vuota, riempirono la cassettina di carboni che erano nella stanza e rimisero tutto a posto come prima. Poi, senza essere visti se ne andarono e si accinsero a vedere la reazione di Cipolla quando l’avrebbe aperta.

Intanto, in tutto il paese non si parlava che della penna dell’arcangelo Gabriele, che il frate aveva promesso di mostrare al popolo. Frate Cipolla, dopo aver mangiato e dormito, al suo risveglio vide che era giunta presso la chiesa una gran moltitudine di contadini, venuti per vedere la penna. Così, mandò Guccio a prendere le sue bisacce. Questi, a fatica liberatosi della Nuta, andò da Cipolla con quanto gli aveva richiesto.

Quando tutto il popolo fu radunato, frate Cipolla, senza avvedersi di nulla, cominciò la sua predica. Arrivato il momento di mostrare la penna dell’arcangelo Gabriele, pronunciata con enfasi la preghiera del confiteor, fece accendere due grandi ceri e prese con solennità la cassetta, togliendo con cura la seta che la avvolgeva. Pronunciate alcune parole in lode dell’angelo e della sua reliquia aprì la cassetta. Quando la vide piena di carboni non sospettò Guccio capace di avergli giocato uno scherzo e non lo maledisse per non aver vigilato sulle sue cose, ma maledisse se stesso per essersi fidato di lui, pur sapendolo tanto negligente.

Tuttavia, senza mutare espressione, alzati il viso e le mani al cielo, disse con voce roboante:

– O Dio, sia sempre lodata la tua potenza!

Poi richiuse la cassetta e si rivolse al popolo:

– Uomini e donne, dovete sapere che da giovane fui inviato nel luogo dove sorge il sole e mi fu ordinato espressamente di cercare i documenti che attestano i privilegi del Porcellana (l’ospedale di San Filippo a Firenze). Così, partito da contrada Venezia e avviatomi per Borgo dei Greci, poi cavalcando lungo il quartiere del Garbo e per contrada Baldacca, giunsi in Parione, da dove, non senza patir la sete, arrivai in Sardigna.

Ma perché vi sto descrivendo tutti i paesi da me visitati? Passato il braccio di San Giorgio, giunsi in Truffia (truffa) e Buffia (beffa), paesi molto popolosi. Pervenni poi in terra di Menzogna, dove si trovano molti nostri confratelli e di altri ordini, che miravano tutti a scansare le fatiche e che non si curavano di quelle degli altri, pur di ricavare un vantaggio per sé.

Arrivai poi in terra d’Abruzzi dove uomini e donne van per i monti con gli zoccoli[2], rivestendo i maiali con le loro budella. Poco più in là trovai popoli che portano il pane infilato nei bastoni e il vino negli otri. Di lì andai alle montagne dei Baschi, dove tutte le acque corrono in giù. Tanto mi inoltrai che alla fine giunsi fino in India Pastinaca, dove vi giuro, per l’abito che indosso, che vidi volare i pennati[3]. Mi sia testimone Maso del Saggio[4], grande mercante che trovai là, a schiacciare noci e vendere i gusci al dettaglio.

Dato che non potei trovare quel che cercavo e poiché di lì si prosegue solo per mare, tornai indietro e arrivai in quelle terre sante dove d’estate il pane freddo vale quattro denari e il caldo è gratis. E qui trovai il venerabile padre Nonmiblasmete Sevoipiace[5], degnissimo patriarca di Gerusalemme, che per rispetto all’abito che indosso di messer il barone santo Antonio volle che io vedessi tutte le sante reliquie che aveva presso di sé.

In primis mi mostrò il dito dello Spirito Santo, così intero e saldo come mai, poi il ciuffo del serafino apparso a san Francesco, poi una delle unghie dei Cherubini, poi una delle costole del Verbum-caro-fatti-alle-finestre[6], poi i vestiti della Santa Fede cattolica e molti raggio della stella che apparve ai re Magi in oriente, poi un’ampolla del sudore di San Michele quando combatté col diavolo e la mascella della morte di san Lazzaro, e molte altre ancora.

E poiché io spontaneamente gli donai i declivi di Monte Morello in volgare e non pochi capitoli del Caprezio, che da tempo cercava, lui mi fece partecipe delle sue sante reliquie. Mi donò uno dei denti della santa Croce, il suono delle campane del tempio di Salomone, dentro una piccola ampolla, la penna dell’arcangelo Gabriele, di cui vi ho parlato, e uno degli zoccoli di san Gherardo da Villamagna (che io ho poi donato qualche tempo fa, a Firenze, a Gherardo di Bonsi, che vi è particolarmente devoto). Infine mi ha donato anche i carboni con i quali fu arrostito il beatissimo martire san Lorenzo. Tutte queste cose ho portato devotamente con me e le conservo con cura.

In verità il mio abate non ha mai gradito che io le mostrassi finché non fosse certificato che fossero vere, ma ora che hanno fatto miracoli e che sono pervenute lettere che ne attestano l’autenticità da parte del Patriarca, mi ha concesso di mostrarle.

Siccome non mi fido a lasciarle in custodia ad altri, le porto sempre con me. La penna dell’angelo Gabriele è conservata in una cassetta, perché non si sciupi, e i carboni con cui fu bruciato san Lorenzo in un’altra. Ma sono a tal punto simili che mi capita spesso di scambiarle, e così mi è capitato. Perciò, io credevo di aver portato la cassetta con la penna invece ho portato quella con i carboni. Ma credo che in realtà non si sia trattato di errore, ma piuttosto certamente della volontà di Dio, e che Lui stesso abbia posto nelle mie mani la cassetta dei carboni, poiché rammento ora che la festa di San Lorenzo è tra due giorni.

Così, volendo Dio che io alimentassi nelle vostre anime la devozione per il santo, mi ha fatto prendere non la penna, come era mia intenzione, ma i carboni benedetti su cui il santo fu martirizzato. E quindi, figlioli benedetti, scopritevi il capo e avvicinatevi devotamente per vederli. Ma prima voglio che sappiate che chiunque con questi carboni avrà il segno della croce, per tutto l’anno può essere sicuro che non si scotterà senza che lo senta.

Dopo queste parole, cantando una lode a san Lorenzo, aprì la cassetta e mostrò i carboni. La stolta moltitudine li ammirò a lungo con reverenza, poi fece ressa attorno a frate Cipolla e, facendo doni più abbondanti del solito, lo imploravano di segnarli con i carboni. Di conseguenza frate Cipolla con i carboni in mano cominciò a tracciare croci a destra e a manca, sui camiciotti bianchi, sui farsetti e sui veli delle donne, affermando che quanto si consumavano a disegnare croci, tanto poi ricrescevano nella cassetta, come più volte aveva potuto verificare.

Così, non senza suo grandissimo guadagno aveva segnato con croci i contadini di Certaldo. E in questo modo, con la sua pronta reazione, si fece beffe di chi aveva creduto di poterlo beffare. I due giovani, che avevano assistito alla predica, che avevano sentito quale rimedio avesse trovato, come l’avesse presa da lontano e con quali parole, si smascellarono dalle risate. Dopo che il popolo se ne fu andato, si recarono da lui e allegramente gli rivelarono di avergli sottratto la penna e gliela resero. Con essa, l’anno seguente, fra Cipolla non guadagnò certo di meno di quel che avesse ottenuto quel giorno con i carboni.

[1] Lippo Topo: proverbiale personaggio di aneddoti e novelle.

[2] Si tratta anche di una perifrasi per indicare l’omosessualità.

[3] Pennati: doppio senso tra pennati (coltelli per potare) e pennuti, uccelli.

[4] Maso del Saggio: famoso burlone.

[5] Nonmiblasmete Sevoipiace: non mi biasimate per piacere.

[6] Verbum-caro-fatti-alle-finestre: storpiatura della frase evangelica “Verbum caro factum est” (Il Verbo si fece carne)

 

 

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