Zola, Una grande abbuffata

abbuffata

Emile Zola, Una grande abbuffata

(da L’Assommoir)

Con il sontuoso banchetto da lei allestito in occasione del suo quarantesimo compleanno, Gervaise vuole celebrare la propria ascesa sociale e umiliare coloro che hanno sempre sparlato di lei. Esso però rappresenta anche l’inizio della fine.

 

Ah! fulmini del cielo! che vuoti nella fricassea! Se parlavano poco, con le mascelle lavoravano sodo. Frugavano nell’insalatiera conficcando il cucchiaio al centro di quella salsa densa e saporita, una salsa gialla che tremolava come una gelatina. Da lì pescavano i pezzi di vitello; e ce n’erano sempre, l’insalatiera passava di mano in mano, i volti si chinavano e cercavano dei funghi. I grossi pani appoggiati al muro, alle spalle dei commensali, sparivano in un batter d’occhio. Fra un boccone e l’altro si sentiva il rumore dei bicchieri che ricadevano sulla tavola. La salsa era un po’ troppo salata, e ci vollero quattro litri per annegare quella maledetta fricassea, che scivolava giù come una crema e vi metteva un incendio nel ventre. E non ci fu nemmeno il tempo di riprender fiato, perché la costata di maiale, imbandita in un piatto fondo e circondata da enormi patate rotonde, stava già arrivando in una nuvola di fumo. Fu un unico grido. Perdio! che trovata! Piaceva a tutti. E a quella vista l’appetito si risvegliava; ognuno seguiva il piatto con la coda dell’occhio, pulendo il coltello sul pane per essere pronto. Poi quando tutti si furono serviti, ci si diede di gomito, si parlò con la bocca piena. Eh! che burro, quella costata! qualcosa di delicato e sostanzioso che si sentiva scorrere lungo le budella fino alla punta dei piedi. Le patate erano uno zucchero. Questa volta non c’era troppo sale; ma appunto per le patate, ci voleva una bella innaffiata a ogni minuto. Fecero fuori altri quattro litri. I piatti furono ripuliti così bene che non li cambiarono per mangiare i piselli al lardo. Oh! i contorni non fanno mai male! E ne divoravano allora a cucchiaiate, come per gioco. Insomma! una vera ghiottoneria: erano la delizia delle signore. Il meglio dei piselli erano i pezzetti di lardo che, rosolati a puntino, puzzavano di zoccolo di cavallo. Bastarono due litri.

«Mamma! mamma!», gridò all’improvviso Nanà, «Augustine sta mettendo le mani nel mio piatto!».

«Basta, mi scocci! mollale uno schiaffo!», rispose Gervaise che si stava abboffando di piselli.

Nell’altra camera, alla tavola dei bambini, Nanà faceva da padrona di casa. Si era seduta accanto a Victor, e aveva sistemato il fratello Etienne vicino alla piccola Pauline; e giocavano a marito e moglie, fingevano d’essere due coppie di sposi che facevano una gita. Dapprima Nanà aveva servito i suoi invitati con molto garbo, con dei sorrisi già da donna adulta; ma ben presto aveva ceduto al suo amore per i lardelli e li aveva presi tutti per sé. Quella strabicuccia di Augustine, che ronzava di continuo attorno ai bambini, ne aveva approfittato per prendere i pezzetti di lardo a piene mani, con il pretesto di rifare le parti. Nanà, furiosa, le aveva morsicato il polso.

«Ah! sai», mormorò Augustine, «vado a raccontare a tua madre che dopo la fricassea hai detto a Victor di baciarti».

Ma tutto rientrò nell’ordine, quando Gervaise e mamma Coupeau entrarono per sfilare l’oca dal girarrosto. Alla tavola grande i commensali tiravano il fiato, riversi contro lo schienale delle sedie. Gli uomini si sbottonavano il panciotto, le signore si asciugavano il volto con il tovagliolo. Il pranzo fu come interrotto: solo qualche invitato, con le mascelle ancora in moto, continuava a inghiottire dei grossi bocconi di pane senza nemmeno accorgersene. Lasciavano che il cibo s’assestasse per bene nello stomaco, aspettavano. Lentamente era scesa la sera; una luce sporca, d’un grigio cenere, s’addensava dietro le tende. Quando Augustine accese due lumi e li sistemò ai due capi della tavola, quella vivida luce mise di colpo a nudo tutto il disastro dell’apparecchiatura: le forchette e i piatti unti, la tovaglia macchiata di vino e coperta di briciole. C’era tutt’attorno un odore acre e soffocante. Ma ogni volta che una zaffata calda arrivava fino a loro, tutti i nasi si volgevano verso la cucina.

«Possiamo darvi una mano?», gridò Virginie.

E lasciò la sua sedia, passò nella stanza vicina. Tutte le donne la seguirono una a una. In piedi attorno al girarrosto, osservarono con profondo interesse Gervaise e mamma Coupeau che s’affannavano a sfilare la bestia. Poi si levò un gran grido: si distinguevano le voci stridule e i salti di gioia dei bambini. L’ingresso fu davvero trionfale: Gervaise portava l’oca con le braccia tese, la faccia coperta di sudore e distesa in un largo sorriso silenzioso; le signore venivano dopo di lei e sorridevano a loro volta, mentre Nanà, che chiudeva il corteo, si sollevava sulla punta dei piedi e spalancava gli occhi per veder meglio. Quando l’oca fu sulla tavola, enorme, dorata, colante di grasso, non l’attaccarono subito. Lo sbalordimento, la sorpresa piena d’ammirazione, avevano azzittito tutta la compagnia. Se la mostravano l’un l’altro ammiccando, scrollando il capo. Perbacco! una vera signora! che cosce e che ventre! […]

E fu davvero una colossale scorpacciata! Nessuno della compagnia ricordava d’aver mai avuto un’indigestione simile sulla coscienza. Gervaise, straboccante, poggiata sui gomiti, divorava enormi porzioni di petto in assoluto silenzio, per paura di lasciarsi sfuggire qualche boccone; era solo un po’ imbarazzata dalla presenza di Goujet, si vergognava di mostrarsi al fabbro più golosa d’una gatta. Del resto anche Goujet si rimpinzava più volentieri, vedendola tutta colorita dal cibo. E poi, nella sua ingordigia, restava pur sempre così gentile, così buona! Gervaise non parlava, ma s’alzava dalla sedia di continuo, per prendersi cura di papà Bru e mettergli qualcosa di delicato nel piatto. Era commovente vedere quella ghiottona che si toglieva di bocca un’ala per passarla al vecchio che, come se non sapesse distinguere un pezzo da un altro, mandava giù tutto allo stesso modo, a testa bassa, inebetito dal troppo mangiare, proprio lui il cui palato non ricordava nemmeno più il gusto del pane. I Lorilleux sfogavano la loro rabbia sull’arrosto; ne prendevano per tre giorni, avrebbero ingoiato il piatto, la tavola e l’intera bottega solo per il piacere di rovinare di colpo la Zoppa. Tutte le signore avevano voluto un po’ della carcassa: la carcassa è il boccone delle signore. La signora Lerat, la signora Boche e la signora Putois ripulivano le ossa, mentre mamma Coupeau, che adorava il collo, ne strappava la carne con gli ultimi due denti che le restavano. A Virginie piaceva la pelle, soprattutto se così ben rosolata, e ogni invitato le metteva la sua nel piatto, per galanteria. Poisson finì per guardare la moglie con aria severa, le ordinò di smetterla: ne aveva presa abbastanza; già una volta, per essersi abboffata d’oca arrosto, era rimasta a letto per quindici giorni con la pancia che le scoppiava. Ma Coupeau s’indignò e passò a Virginie un pezzo di coscia, gridando che, per tutti i fulmini! se non lo spolpava fino all’osso, non era una vera donna. Quando mai l’oca aveva fatto male a qualcuno? Al contrario, l’oca guariva le malattie della milza. La si mandava giù senza pane come un dessert. Quanto a lui, avrebbe potuto mangiarne per tutta la notte senza risentirne in alcun modo; e per fare lo sbruffone, si ficcò in bocca tutta la parte inferiore della coscia. Clémence stava intanto finendo il boccone del prete, lo succhiava schioccando le labbra, torcendosi sulla sedia dal gran ridere per le oscenità che Boche le diceva sottovoce. Ah! perdio! sì, che gran spanciata! Quando uno ci si trova, tanto vale che ne approfitti, non è così? e se non ci si concede una bella scorpacciata che una volta tanto, sarebbe proprio da sciocchi non riempirsi fino agli occhi! E davvero le trippe sembravano sul punto di scoppiare. Le signore parevano gravide. Mangiavano tutti a crepapelle, quei maledetti papponi! Con la bocca aperta e il mento impiastricciato di grasso, avevano delle facce che sembravano dei deretani, e dei deretani da gente ricca che scoppiasse di salute, da tanto che erano rosse.

E. Zola, L’assommoir, cit., p. 238 e sgg.

Analisi del testo

L’ossessione del cibo

Nel mondo dell’Assommoir il cibo ha sempre un posto di primo piano. Per i poveri, è la preoccupazione principale, un’ossessione che non può essere mai elusa. Per i ricchi, è la manifestazione più immediata della loro agiatezza: significa mangiare quando e quanto si vuole, permettersi pietanze inconsuete e raffinate, fare sfoggio della propria ricchezza nei ricevimenti.

Gervaise e il cibo

Nel caso di Gervaise la parabola del rapporto col cibo è esemplare. All’inizio la donna ama mangiare bene ma si dedica con moderazione alla cucina. Quando diventa una ‘proprietaria’ piccolo-borghese, viene presa da una golosità compulsiva, che la spinge ad abbuffarsi senza ritegno, facendola diventare sempre più grassa.

Il banchetto organizzato da Gervaise in occasione del suo quarantesimo compleanno rappresenta un momento importante di svolta: segna l’apice del suo successo sociale ed è organizzato con voluta grandiosità, per umiliare coloro che hanno sempre sparlato di lei. Esso però rappresenta anche l’inizio della fine: in questa occasione ricompare Lantier, che contribuirà in modo decisivo a mettere in crisi la già traballante condizione di Gervaise. Il banchetto è descritto con minuziosità in tutti i suoi dettagli, portata dopo portata: la fricassea di vitello, la costata di maiale con le patate al forno, i piselli al lardo, l’oca allo spiedo. Ma, soprattutto, è sottolineata la voracità quasi animalesca con cui tutti i commensali si avventano sul cibo, divorando tutto quello che passa loro davanti, abbuffandosi senza ritegno. La tavola imbandita si trasforma velocemente in un campo di battaglia: sporca, unta, disordinata, cosparsa di macchie…

L’approccio smodato al cibo ha una valenza duplice, perché da un lato manifesta il raggiunto successo, dall’altra testimonia un inesorabile degrado morale: quanto più la vita familiare va a rotoli (con Coupeau che non lavora e si fa mantenere), tanto più lei ingrassa e mangia smodatamente. La fase discendente di questa parabola è rappresentato dalla miseria degli ultimi anni e dalla cronica mancanza di cibo che la caratterizzerà: pur di trovare qualcosa da mangiare, Gervaise sarà allora disposta a tutto.

Una varietà di punti di vista

È molto difficile stabilire da quale punto di vista venga svolta la narrazione. In molti punti sembra di riconoscere la voce corale dei commensali, colpiti dalla grandiosità del pranzo, sopraffatti dal piacere del cibo, ma pronti sempre a sparlare e a criticare, a commentare in maniera malevola qualsiasi dettaglio insignificante. Così, l’esclamazione iniziale («Ah fulmini del cielo! Che vuoti nella fricassea!») riproduce lo stupore ammirato davanti ai resti della pietanza voracemente divorata. Subito dopo, però, si insinua la critica: «la salsa era un po’ troppo salata, e ci vollero quattro litri per annegare quella maledetta fricassea, che scivolava giù come una crema e vi metteva un incendio nel ventre».

È evidente l’uso dell’indiretto libero: il narratore non dice chi sta parlando, ma sta riportando in maniera indiretta un giudizio corale e collettivo. Poco dopo, vengono nuovamente riportate le grida di approvazione dei commensali: «Eh! che burro, quella costata! qualcosa di delicato e sostanzioso che si sentiva scorrere lungo le budella fino alla punta dei piedi».

Nel corso del brano questa voce corale è affiancata da altre voci. Dopo aver riportato il commento generale («E fu davvero una colossale scorpacciata! Nessuno della compagnia ricordava d’aver mai avuto un’indigestione simile sulla coscienza»), il narratore riporta il punto di vista di Gervaise, che prova vergogna perché Goujet la osserva mangiare così smodatamente. Subentra poi il punto di vista di Goujet stesso, che continua ad ammirare Gervaise nonostante tutto: «Del resto anche Goujet si rimpinzava più volentieri, vedendola tutta colorita dal cibo. E poi, nella sua ingordigia, restava pur sempre così gentile, così buona!»).

Nella frase successiva («Era commovente vedere quella ghiottona che si toglieva di bocca un’ala per passarla al vecchio») riemerge un punto di vista malevolo: Gervaise non è più buona e gentile, ma è quella ghiottona. Il suo gesto di generosità è giudicato sarcasticamente dagli altri osservatori. Poco più avanti abbiamo in indiretto libero il punto di vista dei Lorilleux: «avrebbero ingoiato il piatto, la tavola e l’intera bottega solo per il piacere di rovinare di colpo la Zoppa»), quella di Poisson che rimprovera la moglie, infine quella di Coupeau («Quando mai l’oca aveva fatto male a qualcuno? … Quanto a lui, avrebbe potuto mangiarne per tutta la notte senza risentirne in alcun modo»), guardato alla fine di nuovo dall’esterno («e per fare lo sbruffone, si ficcò in bocca tutta la parte inferiore della coscia»).

L’eclissi del narratore

Il narratore sembra scomparire dietro questo intreccio di voci, quasi che la scena fosse vista esclusivamente dall’interno, senza distacco critico. La prospettiva ‘interna’ è sottolineata dall’uso dell’argot, dalla ripresa di parole, esclamazioni, insulti e modi di dire del gergo popolare. Ma se consideriamo meglio la scena, proprio l’assenza di un giudizio esplicito superiore e l’adozione di una prospettiva interna permette all’autore di rappresentare con gelida freddezza un’umanità abbrutita, disposta a tutto pur di soddisfare i propri istinti primari.

Esercizi di analisi

  1. Quali sono le pietanze servite da Gervaise ai suoi ospiti?
  2. Come si comporta Nanà durante il banchetto?
  3. Perché Gervaise si vergogna davanti a Goujet?
  4. Quando interviene Coupeau? Perché?
  5. Perché i Lorilleux «sfogano la loro rabbia sull’arrosto»?

 

ZolaLa vita

Il romanzo sperimentale

L’Assommoir

 

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