Verga, Libertà

bronte

Verga, Libertà

Se avevano detto che c’era la libertà!…

Libertà è una delle novelle più discusse di Verga. Vi si narra la tragica rivolta dei contadini di Bronte che, all’arrivo dei garibaldini nel 1860, si illusero che fosse giunto il momento della redistribuzione delle terre. Il taglio del racconto dimostra con chiarezza che Verga non condivide e non comprende le ragioni dei rivoltosi, ma anzi tende a giustificare la dura repressione di Nino Bixio. Questa posizione sembra anticipare l’ideologia reazionaria e conservatrice verso la quale lo scrittore si orientò sempre più nettamente negli anni della vecchiaia.

 

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: – Viva la libertà! –

Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.

– A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! – Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. – A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! – A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! –

E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! – Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! –

Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. – Perché? perché mi ammazzate? – Anche tu! al diavolo! – Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. – Abbasso i cappelli! Viva la libertà! – Te’! tu pure! – Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. – Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! – La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e rimpieva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. – Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse – lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia – don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. – Paolo! Paolo! – Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.

Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: – Neddu! Neddu! – Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia. – Un altro gridò: – Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! –

Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! – Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. – Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! – Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! – Te’! Te’! – Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!

La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. – Viva la libertà! – E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. – I campieri dopo! – I campieri dopo! – Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: – Mamà! mamà! – Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.

E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.

Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. – Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! – Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.

E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. – Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! – Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! – Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! – E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? – Ladro tu e ladro io -. Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! – Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.

Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.

Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.

Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo – ahi! – ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in  faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole.

Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne  seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: – Sta tranquilla che non ne esce più -. Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci.

Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia – ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. – Voi come vi chiamate? – E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: – Sul mio onore e sulla mia coscienza!…

Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!… –

Da G. Verga, Novelle rusticane,in Tutte le novelle, Oscar Mondadori, Milano 1988

Analisi del testo.

Nella novella Verga elabora sul piano letterario la vicenda della rivolta contadina di Bronte, un centro agricolo posto sulle pendici dell’Etna, scoppiata tra il 2 e il 5 agosto 1860. I contadini, che videro nell’arrivo di Garibaldi una promessa di liberazione dalla secolare miseria, insorsero e misero a ferro e fuoco il paese. Furono appiccate le fiamme a decine di case, al teatro e all’archivio comunale. La rivolta degenerò in atti di atrocità rivolti non solo contro gli amministratori delle terre ma anche contro vittime innocenti. Sedici furono i morti fra nobili, ufficiali e civili, tra cui anche il barone del paese con la moglie e i figli, il notaio e il prete, prima che la rivolta si placasse.

Giunto a Bronte per sedare la rivolta, quando la situazione si era già calmata, Nino Bixio fece imprigionare e, dopo un processo sommario, giustiziare il giorno successivo i presunti capi della rivolta, tra cui l’avvocato “liberale” Nicolò Lombardo insieme con altre quattro persone.

La vicenda è stata variamente interpretata dagli storici. Alcuni hanno giustificato la dura repressione di Bixio con l’esigenza di garantire l’ordine, per evitare ulteriori spargimenti di sangue. Altri hanno sostenuto che, dopo aver sfruttato l’appoggio dei contadini, necessario per la vittoria contro le truppe borboniche, i garibaldini sarebbero poi venuti meno alle promesse di riforma agraria, sotto la pressione delle forze conservatrici, e avrebbero deciso di reprimere il movimento contadino. Nella decisione della repressione pesarono le pressioni degli Inglesi (che avevano facilitato l’impresa dei Mille), perché proprio a Bronte la famiglia dell’ammiraglio Nelson possedeva ben 25000 ettari di terre, di cui si temeva l’esproprio.

Calogero Gasparazzo, uno dei protagonisti dei fatti di Bronte, ha ispirato le strisce a fumetti di Gasparazzo ideata da Roberto Zamarin e pubblicata nel 1972 su Lotta Continua.

La novella si può suddividere in quattro sequenze:

  • La rivolta dei contadini: in cui viene descritta la cieca violenza della folla contro i notabili del paese;
  • L’attesa: in cui Verga evidenzia l’incapacità dei ribelli di organizzare una gestione alternativa;
  • L’arrivo del generale: in cui viene descritto l’arrivo di Bixio e la giustizia sommaria da lui ordinata;
  • Il processo: in cui vengono descritti la permanenza in carcere e il lento svolgersi del processo.

Nella novella la violenza dei contadini prorompe irrefrenabile come un fenomeno naturale, prodotta da una secolare condizione di oppressione e di sfruttamento, nel momento in cui si prospetta, all’improvviso, l’illusoria prospettiva della “libertà”. Verga mette in luce la crudele violenza, la rabbia irrazionale, l’assenza di pietà prodotte dalle prepotenze e dalle ingiustizie subite.

La prima parte della novella è caratterizzata da un ritmo incalzante, che descrive il crescendo di violenze senza tregua, fino al momento in cui la folla, stremata, si placa. Esauritasi la furia omicida, la folla si trova sbandata. Ogni individuo è solo, non più parte di una moltitudine spinta da un unico scopo, distruttivo ma comune.

Verga evidenzia l’inutilità e l’assurdità della rivolta, data l’assoluta incapacità da parte dei contadini di costruire un assetto sociale alternativo e più giusto: essi hanno bisogno, ora, di quei padroni oppressori contro i quali si sono ribellati. Il ritmo della narrazione, in questa sequenza, è notevolmente rallentato rispetto a quella precedente.

Una nuova accelerazione del ritmo, benché meno accentuata rispetto alla prima parte, caratterizza le vicende relative all’arrivo di Bixio. In particolare è la descrizione della giustizia sommaria ordinata dal generale che colpisce per la sua rapida drasticità, che però non assume i toni drammatici con cui sono descritte le violenze dei contadini (le fucilate sono persino paragonate ai “mortaletti della festa”).

L’ultima sequenza, infine, è caratterizzata da un ritmo lento, ben corrispondente alla lentezza con cui si muove la giustizia e con cui si svolge il processo vero e proprio (“Un processo lungo che non finiva più”). Verga ritiene che ribellarsi all’ordine sociale esistente sia del tutto inutile, poiché esso, benché basato sulla sopraffazione, è un dato naturale senza alternative, destinato nella sostanza a non mutare nei suoi meccanismi di fondo. Ribellarsi ad esso può essere solo causa di ulteriori sofferenze.

Tuttavia nella novella la violenza contadina e la giustizia sommaria di Bixio sono presentate come eventi cruenti ma naturali, mentre il lento procedere della “giustizia” assume un che di artificioso e di innaturale, si presenta come una costruzione formale inevitabile ma vuota di significato, che non sia quello di ribadire ufficialmente che “all’aria ci vanno i cenci”.

La lenta pigrizia con cui i giudici, lamentandosi, sbadigliando e chiacchierando tra di loro, amministrano la giustizia è oggetto di amaro sarcasmo da parte di Verga che, pur non condividendo le motivazioni della rivolta, mette in evidenza l’ipocrisia e la falsità di coloro che, scampato il pericolo, ripristinano l’ordine e lo status quo. Questo in contrapposizione con la sincera disperazione di chi aveva inutilmente sperato nel cambiamento, perché avevano detto che c’era la liberta!, che non può comprendere una giustizia fatta di orpelli formali, lontana dalla propria mentalità.

La libertà apre e chiude la novella dandole una struttura circolare: la rivolta inizia con le parole “Viva la libertà!” e il processo che sancisce il suo fallimento si conclude con le parole del carbonaio “Se avevano detto che c’era la libertà!”, a ribadire l’inutilità del tentativo.

Nella prima parte la narrazione è caratterizzata da frasi molto brevi, spesso in stile nominale, intervallate dal discorso diretto libero (non introdotto da verbi dichiarativi), da ellissi, e dalla prevalenza del passato remoto, che determinano un ritmo serrato. L’agire della folla è cieco, inconsapevole, come una forza della natura. Tale caratteristica è sottolineata dal soggetto sottinteso di alcune costruzioni verbali, come Sciorinarono… suonarono… cominciarono a gridare… e dal paragone della folla, protagonista di questa sequenza, che spumeggiava e ondeggiava come il mare in tempesta o come la piena di un fiume.

Sul piano della durata, le violenze della ribellione sembrano svolgersi tutte nell’arco di una sola giornata, poi una giornata (Aggiornava) è occupata dall’attesa dell’arrivo dei garibaldini, che giungono Il giorno dopo e il processo dura tre anni, nientemeno!. Nell’ultima sequenza, quella che descrive il processo, il ritmo della narrazione è notevolmente rallentato, per i periodi più lunghi e strutturati e per la prevalenza dell’imperfetto.

Secondo i canoni del verismo, il narratore evita ogni commento e si limita a una cronaca degli eventi, soffermandosi su alcuni casi individuali, anche se nell’ultima sequenza sembra assumere il punto di vista popolare.

Esercizi di analisi del testo

  1. La ribellione e il comportamento della folla sono paragonati a fenomeni naturali, irrazionali e inconsapevoli: individua nel testo le espressioni che lo dimostrano.
  2. La folla colpisce indistintamente, pur rivolgendosi contro personaggi che agli occhi dei contadini sono espressione del potere secolare che li opprime. Individua tali personaggi, analizzane il ruolo nella comunità e indica di quali “torti” sono colpevoli.
  3. La furia popolare colpisce anche figure “innocenti”. Chi sono? Quali aspetti le caratterizzano e in che modo la folla giustifica la loro uccisione?
  4. Individua nel testo i tratti che descrivono la figura di Nino Bixio: quale ritratto ne emerge? Ti sembra che Verga ne giustifichi o ne critichi il comportamento?
  5. I giudici e gli avvocati sono descritti con tono sarcastico: indica quali aspetti li caratterizzano.
  6. La “giustizia” che ripristina lo status quo è incomprensibile per coloro che ne sono vittime. Per quale ragione?
  7. Nell’ultima sequenza il narratore assume il punta di vista popolare, attraverso l’artificio della regressione. Individua qualche esempio.
  8. Qual è il giudizio di Verga sulla vicenda e quali sono i punti in cui esso emerge?
  9. Il testo è ricco di espressioni popolari, di similitudini, di proverbi e modi di dire. Evidenziali nel testo. Quale obiettivo si propone secondo te l’autore attraverso tale scelta linguistica?
  10. Quali aspetti caratterizzano il ritmo della narrazione? Quali sono le tecniche che Verga utilizza?

 

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