Shakespeare, Essere, o non essere…

Shakespeare, Essere, o non essere…Shakespeare, Essere o non essere

 

>> To be, or not to be

 

ATTO TERZO – SCENA I – Elsinore, una stanza nel castello.

Entrano il RE, la REGINA, POLONIO, OFELIA, ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN

RE – E non potreste voi, con velate domande, fargli direqualche cosa di quel suo turbamento che inasprisce la pace dei suoi giorni in una torbida, insidiosa insania?

ROSENCRANTZ – Ammette di non esser più se stesso, ma si rifiuta di dirne la causa.

GUILDENSTERN – Né lo troviamo aperto e ben disposto a lasciarsi sondare da noi due. Quanto appena tentiamo d’invogliarlo a dir qualcosa sul suo vero stato, svicola, con astuta stravaganza.

REGINA – V’ha bene accolto?

ROSENCRANTZ – Da gran gentiluomo.

GUILDENSTERN – Facendo però assai forza a se stesso.

ROSENCRANTZ – Avaro di domande, ma alle nostre scioltissimo a rispondere.

REGINA – Non avete tentato d’invogliarlo a darsi qualche distrazione?

ROSENCRANTZ – Infatti, signora, si dà il caso che per via ci sia occorso di lasciarci dietro alcuni commedianti qui diretti. Gliene abbiamo parlato, e ci sembrò che avesse un certo gusto a udirne. Quelli sono ora a corte, in qualche luogo, e credo abbian già l’ordine di recitare innanzi a lui stasera.

POLONIO – Proprio così; è stato anzi lui stesso a dirmi di pregar le vostre altezze di assistere anche loro allo spettacolo.

RE – Ma certo! Come no! Con tutto il cuore! E non sapete quanto mi consola apprendere ch’egli è sì ben disposto! A voi, signori miei, di stimolarlo ancora, indirizzandone lo spirito a questo genere di distrazioni.

ROSENCRANTZ – Va bene, vostra altezza, lo faremo.

(Escono Rosencrantz e Guildenstern)

RE – Andate pure voi, dolce Gertrude. Abbiamo fatto, in tutta discrezione, che Amleto venga qui, sì che possa incontrarsi con Ofelia, come fosse per caso: il di lei padre ed io ci disporremo da legittime spie, in modo tale che potremo, vedendo non veduti, dedurre dall’incontro miglior causa di conoscenza della sua condotta, e sapere s’è per la sua passione o no, ch’egli si strugge in questo modo.

REGINA – Farò come voi dite. In quanto a te, Ofelia, m’auguro che le tue grazie siano esse solo la felice causa della stranezza che pervade Amleto, sperando che le tue virtù squisite lo rendano alle forme sue consuete, per l’onore di entrambi.

OFELIA – Dio lo voglia.

(Esce la regina)

POLONIO – Ofelia, qui: comincia a passeggiare. (Al re) E noi, se non dispiace a vostra grazia, andiamo intanto ad appostarci là. (A Ofelia) Mentre passeggi, leggi questo libro. L’ostentazione d’un tale esercizio può dar colore alla tua solitudine… Troppo spesso noi siamo biasimati in questo, ma è provato, arciprovato: viso compunto e atteggiamento pio riescono ad addolcire il diavolo.

RE – (A parte) Troppo vero, ahimè!… Ma che frustata, queste parole per la mia coscienza! La guancia d’una avvizzita puttana non è più brutta dell’immonda pàtina che la copre, di quanto sia più sporco dell’urbano e compunto mio parlare il mio modo d’agire sotterraneo.

POLONIO – Eccolo, monsignore. Ritiriamoci.

(Escono il re e Polonio)

Entra AMLETO

AMLETO – Essere, o non essere… questo è il nodo:([1]) se sia più nobil animo sopportar le fiondate e le frecciate d’una sorte oltraggiosa, o armarsi contro un mare di sciagure, e contrastandole finir con esse. Morire… addormentarsi: nulla più. E con un sonno dirsi di por fine alle doglie del cuore e ai mille mali che da natura eredita la carne. Questa è la conclusione che dovremmo augurarci a mani giunte. Morir… dormire, e poi sognare, forse… Già, ma qui si dismaga l’intelletto: perché dentro quel sonno della morte quali sogni ci possono venire, quando ci fossimo scrollati via da questo nostro fastidioso involucro? Ecco il pensiero che deve arrestarci. Ecco il dubbio che fa così longevo il nostro vivere in tal miseria. Se no, chi s’indurrebbe a sopportare le frustate e i malanni della vita, le angherie dei tiranni, il borioso linguaggio dei superbi, le pene dell’amore disprezzato, le remore nell’applicar le leggi, l’arroganza dei pubblici poteri, gli oltraggi fatti dagli immeritevoli al merito paziente, quand’uno, di sua mano, d’un solo colpo potrebbe firmar subito alla vita la quietanza, sul filo d’un pugnale? E chi vorrebbe trascinarsi dietro questi fardelli, e gemere e sudare sotto il peso d’un’esistenza grama, se il timore di un “che” dopo la morte – quella regione oscura, inesplorata, dai cui confini non v’è viaggiatore che ritorni – non intrigasse tanto la volontà, da indurci a sopportare quei mali che già abbiamo, piuttosto che a volar, nell’aldilà, incontro ad altri mali sconosciuti? Ed è così che la nostra coscienza ci fa vili; è così che si scolora al pallido riflesso del pensiero il nativo colore del coraggio, ed alte imprese e di grande momento, a cagione di questo, si disviano e perdono anche il nome dell’azione. (Vede Ofelia) Ma zitto, adesso!… La leggiadra Ofelia! Ninfa, nelle tue preci rammemoràti siano i miei peccati.

OFELIA – Mio buon signore, come s’è sentito vostro onore, durante questi giorni?

AMLETO – Oh, bene, bene, bene, umili grazie!

OFELIA – Signore, ho qui con me vostri ricordi che da tempo volevo ritornarvi. Vi prego, riprendeteli.

AMLETO – Non io. Non v’ho dato mai niente.

OFELIA – Vostro onore, voi ben sapete di avermeli dati; e accompagnati pure da parole spiranti tal profumo di dolcezza da renderli oltremodo più preziosi. Quel profumo è svanito. Riprendeteli. A cuor gentile anche i doni più ricchi si fan povera cosa, se chi li dona si mostra crudele. Eccoli, mio signore.

(Gli porge un pacchetto)

AMLETO – (Ridendo) Ah, ah! Voi siete onesta?

OFELIA – Monsignore?…

AMLETO – Siete bella?

OFELIA – Che intende vostra altezza?

AMLETO – Che essendo onesta e bella, come siete, mai la vostra onestà dovrebbe ammettere che si parli della bellezza vostra.

OFELIA – Con chi potrebbe meglio accompagnarsi la bellezza, se non con l’onestà?

AMLETO – Oh, sì! Ma la bellezza ha tal potere da far dell’onestà la sua ruffiana, più di quanto non possa l’onestà fare a sua somiglianza la bellezza. Questo un tempo pareva un paradosso, ma ora i tempi provano che è vero. Una volta vi amavo.

OFELIA – Mio signore, confesso, me l’avete dato credere.

AMLETO – Non m’avresti dovuto prestar fede; ché non si può innestare la virtù sul nostro vecchio tronco e fargli perdere la sua natura. Io non t’ho mai amata.

OFELIA – Tanto più mi considero ingannata.

AMLETO – Va’ in un convento. Perché ti vuoi fare procreatrice di peccatori? Anch’io son virtuoso abbastanza, e tuttavia mi potrei incolpar di tali cose, da pensar che sarebbe stato meglio mia madre non m’avesse partorito. Sono molto superbo, vendicativo, pieno d’ambizione, con più peccati pronti ad un mio cenno che pensieri nei quali riversarli, o fantasia con cui dar loro forma, o tempo sufficiente a consumarli. Che ci fa al mondo un essere così? Sempre a strisciare qui, tra cielo e terra? Siamo grandi canaglie, tutti quanti: farai bene a non credere a nessuno. Va’, va in convento… Tuo padre dov’è?

William Shakespeare, Amleto. Traduttore Goffredo Raponi.

Da http://www.liberliber.it/libri/s/shakespeare/index.php

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