Pirandello, La patente

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Luigi Pirandello, La patente  

Commedia in un atto

La patente viene scritta prima in dialetto siciliano poi in italiano: il 19 febbraio viene allestita a Roma, al Teatro Argentina, dalla Compagnia del «Teatro Mediterraneo» diretta da Nino Martoglio, in dialetto siciliano col titolo “’A patenti”. Sarà poi rappresentata per la prima volta in italiano il 23 marzo 1918, a Torino, al Teatro Alfieri dalla compagnia di Angelo Musco.

 

Rosario Chiàrchiaro si presenta dal giudice D’Andrea con l’aspetto dello jettatore[1]: una barbaccia ispida e cespugliosa sulle guance scavate, sul naso un paio di grossi occhiali cerchiati d’osso che gli danno l’aspetto d’un barbagianni, un abito rigonfio e logoro, color topo, una canna d’India in mano col manico di corno.

D’Andrea (con uno scatto violento d’irritazione, buttando via le carte del processo): Ma fatemi il piacere! Che storie son queste! Vergognatevi!

Chiàrchiaro (senza scomporsi minimamente allo scatto del giudice, digrigna i denti gialli e dice sottovoce): Lei dunque non ci crede?

D’Andrea: V’ho detto di farmi il piacere! Non facciamo scherzi via, caro Chiàrchiaro! – Sedete, sedete qua.

Gli s’accosta e fa per posargli una mano sulla spalla

Chiàrchiaro (subito, tirandosi indietro e fremendo): Non mi s’accosti! Se ne guardi bene! Vuol perdere la vista degli occhi?

D’Andrea (lo guarda freddamente, poi dice): Seguitate… Quando sarete comodo… – Vi ho mandato a chiamare per il vostro bene. Là c’è una sedia: sedete.

Chiàrchiaro (prende la seggiola, siede, guarda il giudice, poi si mette a far rotolare con le mani su le gambe la canna d’India come un matterello e tentenna a lungo il capo. Alla fine mastica): Per il mio bene? Per il mio bene lei dice… Ha il coraggio di dire per il mio bene! E lei si figura di fare il mio bene, signor giudice, dicendo che non crede alla jettatura?

D’Andrea (sedendo anche lui): Volete che vi dica che ci credo? Vi dirò che ci credo! Va bene?

Chiàrchiaro (recisamente, con tono di chi non ammette scherzi): Nossignore! Lei ci ha da credere sul serio, sul se-ri-o! Non solo, ma deve dimostrarlo istruendo il processo.

D’Andrea: Ah vedete: questo sarà un po’ difficile.

Chiàrchiaro (alzandosi e facendo per avviarsi): E allora me ne vado.

D’Andrea: Eh, via! Sedete! V’ho detto di non fare storie!

Chiàrchiaro: Io, storie? Non mi cimenti; o ne farà una tale esperienza… – Si tocchi, si tocchi!

D’Andrea: Ma io non mi tocco niente.

Chiàrchiaro: Si tocchi Le dico! Sono terribile, sa?

D’Andrea (severo): Basta, Chiàrchiaro! Non mi seccate. Sedete e vediamo d’intenderci. Vi ho fatto chiamare per dimostrarvi che la via che avete preso non è propriamente quella che possa condurvi a buon porto.

Chiàrchiaro: Signor giudice, io sono con le spalle al muro dentro un vicolo cieco. Di che porto, di che via mi parla?

D’Andrea: Di questa per cui vi vedo incamminato e di quella là della querela che avete sporto. Già l’una e l’altra, scusate, sono tra loro così.

Infronta gli indici delle due mani per significare che le due vie gli sembrano in contrasto.

Chiàrchiaro: Nossignore. Pare a lei, signor giudice.

D’Andrea: Come no? Là nel processo, accusate come diffamatori due perché vi credono jettatore; e ora qua vi presentate a me, parato così, in veste di jettatore, e pretendete anzi ch’io creda alla vostra jettatura.

Chiàrchiaro: Sissignore. Perfettamente.

D’Andrea: E non pare anche a voi che ci sia contraddizione?

Chiàrchiaro: Mi pare, signor giudice, un’altra cosa. Che lei non capisce niente!

D’Andrea: Dite, dite, caro Chiàrchiaro! Forse è una sacrosanta verità, questa che mi dite. Ma abbiate la bontà di spiegarmi perché non capisco niente.

Chiàrchiaro: La servo subito. Non solo le farò vedere che lei non capisce niente; ma anche toccare con mano che lei è un mio nemico.

D’Andrea: Io?

Chiàrchiaro: Lei, lei, sissignore. Mi dica un po’: sa o non sa che il figlio del sindaco ha chiesto il patrocinio dell’avvocato Lorecchio?

D’Andrea: Lo so.

Chiàrchiaro: E lo sa che io – io, Rosario Chiàrchiaro – io stesso sono andato dall’avvocato Lorecchio a dar tutte le prove del fatto: cioè che non solo io mi ero accorto da più di un anno che tutti, vedendomi passare, facevano le corna e altri scongiuri più o meno puliti; ma anche le prove, signor giudice, prove documentate, testimonianze irrepetibili, sa? ir-re-pe-ti-bi-li di tutti i fatti spaventosi, su cui è edificata incrollabilmente, in-crol-la-bil-men-te, la mia fama di jettatore?

D’Andrea: Voi? Come? Voi siete andato a dar le prove all’avvocato avversario?

Chiàrchiaro: A Lorecchio. Sissignore.

D’Andrea (più imbalordito che mai): Eh… Vi confesso che capisco anche meno di prima.

Chiàrchiaro: Meno? Lei non capisce niente!

D’Andrea: Scusate… Siete andato a portare codeste prove contro di voi stesso all’avvocato avversario; perché? Per rendere più sicura l’assoluzione di quei due? E perché allora vi siete querelato?

Chiàrchiaro: Ma in questa domanda appunto è la prova, signor giudice, che lei non capisce niente! Io mi sono querelato perché voglio il riconoscimento ufficiale della mia potenza. Non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza terribile, che è ormai l’unico mio capitale, signor giudice!

D’Andrea (facendo per abbracciarlo, commosso): Ah, povero Chiàrchiaro, povero Chiàrchiaro mio, ora capisco! Bel capitale, povero Chiàrchiaro! E che te ne fai?

Chiàrchiaro: Che me ne faccio? Come che me ne faccio? Lei, caro signore, per esercitare codesta professione di giudice – anche così male come la esercita – mi dica un po’, non ha dovuto prendere la laurea?

D’Andrea: Eh, sì, la laurea…

Chiàrchiaro: E dunque! Voglio anch’io la mia patente. La patente di jettatore. Con tanto di bollo[2]. Bollo legale. Jettatore patentato dal regio tribunale.

D’andrea: E poi? che te ne farai?

Chiàrchiaro: Che me ne farò? Ma dunque è proprio deficiente lei? Me lo metterò come titolo nei biglietti da visita! Ah le par poco? La patente! La patente! Sarà la mia professione! Io sono stato assassinato[3], signor giudice! Sono un povero padre di famiglia. Lavoravo onestamente. M’hanno cacciato via e buttato in mezzo a una strada, perché jettatore! In mezzo a una strada, con la moglie paralitica, da tre anni in un fondo di letto! e con due ragazze, che se lei le vede signor giudice, le strappano il cuore dalla pena che le fanno: belline tutte e due; ma nessuno vorrà più saperne, perché figlie mie, capisce? E lo sa di che campiamo adesso tutt’e quattro? Del pane che si leva di bocca il mio figliuolo, che ha pure la sua famiglia, tre bambini! E le pare che possa fare ancora a lungo, povero figlio mio, questo sacrificio per me? Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione di jettatore!

D’andrea: Ma che ci guadagnerete?

Chiàrchiaro: Che ci guadagnerò? Ora glielo spiego. Intanto, mi vede: mi sono combinato con questo vestito. Faccio spavento! Questa barba… questi occhiali… Appena lei mi fa ottenere la patente, entro in campo! Lei dice, come? Me lo domanda – ripeto – perché è mio nemico!

D’andrea: Io? Ma vi pare?

Chiàrchiaro: Sissignore, lei! Perché s’ostina a non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, ci credono[4]! Questa è la mia fortuna! Ci sono tante case da giuoco nel nostro paese! Basterà che io mi presenti. Non ci sarà bisogno di dir niente. Il tenutario della casa, i giocatori, mi pagheranno sottomano, per non avermi accanto e per farmene andar via! Mi metterò a ronzare come un moscone attorno a tutte le fabbriche; andrò a impostarmi[5] ora davanti a una bottega, ora davanti a un’altra. Là c’è un giojelliere? Davanti alla vetrina di quel giojelliere: mi pianto lì (eseguisce) mi metto a squadrare la gente così, (eseguisce) e chi vuole che entri più a comprare in quella bottega una gioia, o a guardare a quella vetrina? Verrà fuori il padrone, e mi metterà in mano tre, cinque lire per farmi scostare e impostare da sentinella davanti alla bottega del suo rivale. Capisce? Sarà una specie di tassa che io d’ora in poi mi metterò a esigere!

D’andrea: La tassa dell’ignoranza!

Chiàrchiaro: Dell’ignoranza? Ma no, caro lei! La tassa della salute! Perché ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo, signor giudice, d’avere qua in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta un’intera città! – Si tocchi! Si tocchi perdio! Non vede? Lei è rimasto come una statua di sale!

D’Andrea compreso di profonda pietà, è rimasto veramente come balordo a mirarlo.

Si alzi via! E si metta a istruire questo processo che farà epoca, in modo che i due imputati siano assolti per inesistenza di reato; questo vorrà dire per me il riconoscimento ufficiale della mia professione di jettatore!

D’Andrea (alzandosi): La patente?

Chiàrchiaro (impostandosi grottescamente e battendo la canna): La patente, sissignore!

Non ha finito di dire così, che la vetrata della finestra si apre pian piano, come mossa dal vento, urta contro il quadricello e la gabbia, e li fa cadere con fracasso.

D’Andrea (con un grido, accorrendo): Ah, Dio! Il cardellino! Il cardellino! Ah Dio! È morto… è morto… L’unico ricordo di mia madre… morto… morto…

La patente, da Maschere nude.


[1] jettatore: colui che ha presunti poteri di portare sfortuna.

[2] bollo: certificazione, riconoscimento ufficiale.

[3] assassinato: Rosario Chiàrchiaro ha visto andare a rotoli la propria vita a causa delle maldicenze della gente e adesso si vuole vendicare, sfruttando proprio la brutta fama che si è creato.

[4] Tutti, ci credono!: il potere del Chiàrchiaro sta proprio nel fatto che la gente è convinta dei suoi poteri, non serve che siano veri, basta che si creda che lo siano.

[5] impostarmi: appostarmi.

Pirandello

Analisi del testo.

Chiàrchiaro, emarginato nel suo paese perché ritenuto da tutti uno iettatore, denuncia per diffamazione due giovani che al suo passaggio hanno fatto gesti scaramantici. Al contrario di quel che il giudice D’Andrea immagina, il suo scopo non è però quello di farli condannare dal tribunale per ottenere un risarcimento ma di perdere la causa e così vedersi implicitamente riconosciuta la “patente” di iettatore. In tal modo egli potrà appostarsi davanti a fabbriche a negozi e a case da gioco per ricavarne denaro in cambio del suo allontanamento da essi.

Il protagonista, emarginato dalla comunità in cui vive, che ha perso il lavoro e la serenità famigliare, vuole così sfruttare i pregiudizi e la superstizione dei suoi compaesani per sopravvivere e al tempo stesso per ottenere una sorta di vendetta. Se in altri testi di Pirandello i personaggi sono vittime dell’apparenza, in questo caso il protagonista non intende subire la rappresentazione che gli altri fanno di lui, ma la sfrutta facendone un punto di forza. Egli resta, tuttavia, una vittima perché la sua scelta non è certo libera espressione delle sue aspirazioni ma una prospettiva cui l’ignoranza e i pregiudizi l’hanno costretto. La “maschera” di iettatore gli resterà, in ogni caso, addosso: egli potrà usarla per ricavarne denaro, ma non potrà spezzarla.

L’immagine di Chiàrchiaro parato da iettatore, la sua pretesa di ottenere la “patente” inducono al riso. Anche in questo caso, però, si tratta di umorismo, non di comicità, perché dietro la situazione in superficie comica si cela una realtà drammatica, quella di un uomo che comunque è vittima dei pregiudizi dei propri compaesani.

Esercizi di analisi del testo

  1. Sintetizza i contenuti del testo in un massimo di dieci righe.
  2. La “patente” è il termine-chiave del testo. Perché è così importante per il Chiàrchiaro? A che cosa gli servirà?
  3. Che cosa intende il giudice D’Andrea con l’espressione di «tassa dell’ignoranza»?
  4. Anche il personaggio di Chiàrchiaro è vittima della “maschera” che gli altri gli attribuiscono: in quale misura riesce a fare di questa un punto di forza e in quale misura, tuttavia, ne resta vittima?

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