Michail Bulgakov, Il volo di Margherita

Il Maestro e Margherita

Michail Bulgakov, Il volo di Margherita

Da Il Maestro e Margherita (Capitolo ventunesimo)

Dopo aver spalmato su tutto il corpo un unguento datole da Azazello, che la ringiovanisce e la rende bellissima e piena di energia vitale, dopo aver scritto una lettera di addio al marito e aver salutato con affetto la domestica Natasa, Margherita vola in cielo nella notte moscovita su uno spazzolone, per raggiungere la dimora di Woland. Giunta nei pressi del Dramilit (Casa del drammaturgo e del letterato), scopre che all’ottavo piano del palazzo si trova l’appartamento del critico Latunskij, stroncatore dell’opera del Maestro. Latunskij per sua fortuna è assente, tuttavia Margherita, con un pesante martello comincia un’opera di distruzione dell’appartamento, allagandolo, e dei beni del critico. Quando la cameriera dell’appartamento sottostante giunge a suonare, lei esce e inizia a frantumare i vetri delle finestre dell’intero palazzo. Giunta al terzo piano, tranquillizza un bambino spaventato e solo, poi riprende il volo lasciando il palazzo nel caos. In volo la raggiunge anche Natasa, trasformata anch’ella in una bellissima strega dalla crema di Azazello, in groppa a Nikolaj Ivanovic, trasformato a sua volta in verro. Poi Natasa riparte a folle velocità. Poco dopo Margherita si ferma presso un fiume e si tuffa nelle sue acque. Sulla riva Margherita viene accolta gioiosamente da streghe nude che le danno il benvenuto, poi un essere dal piede caprino le offre un calice di champagne e le procura una curiosa auto stregonesca che la conduce in volo verso Mosca.

 

Margherita guardò di sottecchi la scritta, chiedendosi che cosa potesse significare la parola «Dramlit». Presa la spazzola sotto il braccio, essa penetrò nell’atrio urtando con la porta il guardaportone meravigliato e sulla parete a fianco dell’ascensore scorse un’enorme lavagna nera che recava scritti in bianco i numeri degli appartamenti e i cognomi degli inquilini. La scritta «Casa del drammaturgo e del letterato» che sormontava l’elenco strappò a Margherita un grido soffocato di cupidigia. Si alzò un po’ di più in aria e cominciò a leggere avidamente i cognomi: Chustov, Dvubratskij, Kvant, Beskudnikov, Latunskij – Latunskij! – strillò Margherita. – Latunskij! Ma è proprio lui… è quello che ha rovinato il Maestro!

Il guardaportone davanti all’ingresso, sbarrando gli occhi e saltellando addirittura dallo stupore, guardava la lavagna nera, sforzandosi di capire per quale prodigio l’elenco degli inquilini avesse improvvisamente cacciato uno strillo.

Nel frattempo, però, Margherita aveva già cominciato a volare con impeto su per le scale ripetendo come inebriata:

– Latunskij ottantaquattro… Latunskij ottantaquattro…Ecco a sinistra l’ottantadue, a destra l’ottantatre, poi ancora più in alto, a sinistra, l’ottantaquattro! Ci siamo! Ed ecco anche il biglietto da visita: «O. Latunskij».

Margherita saltò giù dalla spazzola e il pianerottolo di pietra le rinfrescò piacevolmente le piante dei piedi accaldate. Suonò una volta, due. Ma nessuno apriva. Margherita si mise a premere più forte il bottone e sentì lei stessa lo scampanellio che echeggiava nell’appartamento di Latunskij.

Sì, colui che occupava l’appartamento n. 84 all’ottavo piano doveva essere grato fino alla morte al defunto Berlioz perché il presidente del MASSOLIT era finito sotto un tram e perché la seduta commemorativa era stata fissata appunto per quella sera. Era nato sotto una buona stella, il critico Latunskij, essa l’aveva salvato dall’incontro con Margherita, divenuta una strega quel venerdì.

Nessuno veniva ad aprire. Allora Margherita volò giù a tutto gas, contando via via i piani, arrivò da basso, irruppe nella via e, guardando in alto, contò e controllò i piani da fuori, chiedendosi quali fossero precisamente le finestre dell’appartamento di Latunskij. Non c’era dubbio, erano le cinque finestre buie all’angolo dell’edificio, all’ottavo piano. Quando l’ebbe accertato, Margherita si alzò in aria e pochi secondi dopo essa entrava dalla finestra aperta in una stanza non illuminata in cui s’inargentava soltanto un’esigua passatoia di chiaro di luna. Margherita la percorse, trovò a tastoni l’interruttore. Un minuto dopo tutto l’appartamento era illuminato. La spazzola stava in un angolo. Assicuratasi che non c’era nessuno in casa, Margherita aprí l’uscio delle scale e controllò se c’era quel biglietto da visita. Il biglietto c’era, Margherita l’aveva imbroccata. Già, si dice che ancora adesso il critico Latunskij impallidisca al ricordo di quella terribile sera e che pronunzi con venerazione il nome di Berlioz. S’ignora del tutto da quale fosco e infame delitto sarebbe stata contrassegnata quella sera: al ritorno dalla cucina Margherita si trovò tra le mani un pesante martello.

La nuda e invisibile volatrice si frenava e si esortava alla calma le mani le tremavano dall’impazienza. Mirando attentamente essa colpí la tastiera del pianoforte e per tutto l’appartamento si diffuse il primo urlo lamentoso. Gridava disperatamente il Becker a mezza coda che era del tutto innocente. I suoi tasti sprofondavano, i rivestimenti di osso volavano da ogni parte.

Lo strumento rimbombava ululava, rantolava, tintinnava. Con un rumore che pareva quello di una rivoltellata, sotto il colpo del martello si spaccò la parte superiore, tirata a lucido, della cassa armonica. Ansimando, Margherita strappò e fracassò le corde col martello. Infine, stanca morta, si lasciò cadere di schianto su una poltrona per ripigliar fiato.

Nel bagno l’acqua rombava e così pure in cucina. «Credo che cominci già a scorrere sul pavimento…», pensò Margherita, e aggiunse ad alta voce:

– Però non è il caso di trattenersi a lungo.

Dalla cucina un torrente scorreva già nel corridoio. Guazzando a piedi nudi nell’acqua.

Margherita portò secchi d’acqua dalla cucina nello studio del critico versandoli nei cassetti della scrivania. Poi, demolita col martello la porta della libreria in quello stesso studio, Margherita corse nella camera da letto. Dopo aver rotto l’armadio a specchio, ne tirò fuori un completo del critico e l’annegò nel bagno. Sul soffice, rigonfio letto a due piazze, vuotò tutto il calamaio che aveva preso nello studio.

La devastazione che essa andava operando le procurava un ardente piacere, ma ciononostante perdurava in lei l’impressione che i risultati fossero alquanto miseri. Si diede quindi a lavorare a casaccio. Prese a spaccare i grandi vasi di ficus nella stanza dove c’era il pianoforte, ma senza aver portato a termine la sua opera, tornò in camera da letto e con un coltello da cucina tagliò le lenzuola, mandò in frantumi le fotografie sotto vetro. Pur non sentendosi stanca, era grondante di sudore.

Intanto, nell’appartamento n. 82, sottostante quello di Latunskij, la cameriera del drammaturgo Kvant prendeva il tè in cucina, chiedendosi che cosa fossero quel fracasso, quel correre su e giù e quel tintinnio che provenivano dal piano di sopra. Alzò il capo verso il soffitto e s’accorse a un tratto che sotto i suoi occhi esso veniva mutando il suo color bianco, in un altro, cadaverico, bluastro. La macchia si allargava a vista d’occhio, e all’improvviso delle grosse gocce spuntarono sul soffitto. Per un paio di minuti la cameriera rimase seduta, meravigliandosi di questo fenomeno, finché dal soffitto cominciò a venir giù una vera pioggia che batteva sul pavimento. In quel punto essa balzò in piedi, mise una bacinella sotto lo zampillo la qual cosa non servì a nulla, giacché la pioggia si estendeva e cominciava ad allagare anche il fornello a gas e la tavola ingombra di stoviglie. Allora, gettando un grido, la cameriera di Kvant scappò sulle scale e subito dopo in casa di Latunskij cominciò a squillare il campanello.

– Già, hanno cominciato a suonare… È ora di andarsene, – disse Margherita. Si sedette a cavallo della spazzola, ascoltando una voce femminile che gridava attraverso il buco della serratura:

– Aprite! Aprite! Dusja, apri! Scorre l’acqua da voi? Noi siamo inondati!

Margherita si alzò di un metro e menò un colpo al lampadario. Due lampadine andarono in pezzi e le gocce di cristallo schizzarono da ogni parte. Le grida attraverso il buco cessarono, si sentì uno scalpiccio sulle scale. Margherita volò alla finestra, scivolò fuori, prese un piccolo slancio e col martello menò un colpo sul vetro. Esso esalò un singhiozzo e le schegge corsero giù come una cascata lungo il muro rivestito di marmo. Margherita volò verso la finestra seguente. Laggiù in basso qualcuno si mise a correre sul marciapiede, una delle due macchine ferme davanti all’ingresso azionò la sirena e partì.

Finito che ebbe con le finestre di Latunskij, Margherita volò verso quelle dell’appartamento attiguo. I colpi cominciarono a farsi più frequenti, il vicolo si riempì di suoni e di fracasso. Dal primo ingresso uscì di corsa il guardaportone, guardò in su, esitò un po’, non sapendo lì per lì quel che doveva fare, poi si mise il fischietto in bocca e si diede a fischiare disperatamente. Più che mai infervorata da quel fischio, Margherita frantumò il vetro dell’ultima finestra dell’ottavo piano, poi scese al settimo e anche lì cominciò a spezzare i cristalli.

[Giunta al terzo piano, tranquillizza un bambino spaventato e solo, poi riprende il volo a grande velocità, lasciando il palazzo nel caos.]

In quel punto Margherita fu assalita dal pensiero che, in fondo, non avrebbe dovuto far volare così freneticamente la spazzola, perché si privava della possibilità d’osservare bene le cose e d’inebriarsi del volo, come si conviene. Qualcosa le diceva che là dov’era diretta l’avrebbero aspettata e che quindi era inutile sottoporsi al fastidio di una velocità e di un’altezza così insensate.

Margherita inclinò in avanti la spazzola la cui coda si sollevò, e, rallentando molto, scese verso terra. E questo scivolare giù, come in toboga, le procurò un grandissimo piacere. La terra si alzò verso di lei e in quella che era stata fino allora un’informe massa nera si andavano palesando i segreti e i fascini della terra in una notte di luna. La terra saliva verso Margherita e già l’investiva l’odore dei boschi verdeggianti. Sorvolò, sfiorandola quasi, la bruma che copriva un prato rugiadoso, poi uno stagno. Sotto di lei le rane cantavano in coro e da lontano giungeva il rumore di un treno che la commuoveva profondamente, chi sa perché. Margherita non tardò a scorgerlo; strisciava lento come un bruco, seminando scintille nell’aria. Oltrepassatolo, essa volò ancora sopra uno specchio d’acqua in cui galleggiava una seconda luna, poi si abbassò ancora di più e proseguí, sfiorando quasi coi piedi le vette dei pini giganteschi.

Dietro si sentiva un greve rumore di aria solcata che cominciava a raggiungere Margherita.

A poco a poco a questo rumore di un oggetto volante, forse un proiettile, si unì una risata femminile, udibile a molte verste di distanza. Margherita si voltò e s’accorse che era inseguita da un oggetto scuro e complicato. Via via che s’avvicinava a lei, si profilava sempre meglio e si cominciava a vedere che era qualcuno che volava a cavallo. Infine si delineò completamente: rallentando, Nataša raggiunse Margherita.

Interamente nuda, coi capelli scarmigliati che volavano per aria, essa cavalcava un grosso verro il quale stringeva fra le zampe anteriori una cartella, e con le posteriori martellava l’aria. Di quando in quando un paio d’occhiali a molle che sfavillavano al chiaro di luna, e poi si spegnevano, cadendogli dal naso, svolazzavano a fianco del verro, appese a un cordoncino, e il cappello gli scivolava tutto il tempo sugli occhi. Esaminatolo ben bene, Margherita riconobbe nel verro Nikolaj Ivanovič, e allora la sua risata risuonò sopra il bosco, mischiandosi con quella di Nataša.

– Nataša! – gridò Margherita con voce acuta. – Ti sei data la crema?

– Gioia mia!! – rispose Nataša, ridestando con i suoi schiamazzi la pineta addormentata. – Mia regina francese, gliel’ho data anche a lui sulla zucca pelata, anche a lui!

– Principessa! – urlò il verro con voce piagnucolosa, portando al galoppo l’amazzone.

– Margherita Nikolaevna! Gioia mia! – gridava Nataša, galoppando a fianco di Margherita, – lo confesso, ho preso la crema! Anche noialtre, sa, vogliamo vivere e volare! Mi perdoni, sovrana, ma io non tornerò, neppure dipinta tornerò! Ah, che bellezza, Margherita Nikolaevna!…Ha chiesto la mia mano, – e Nataša indicò col dito il collo del verro ansimante e vergognoso, – me l’ha chiesta!

Come mi hai chiamata, eh? – gridò Nataša, chinandosi all’orecchio del verro.

– O dea! – ululò questi, – non posso volare così presto! Potrei perdere qualche carta importante, Natal’ja Prokof’evna, io protesto!

– Va’ un po’ al diavolo, tu e le tue carte! – gridò Nataša, ridendo sguaiatamente.

– Che dice mai, Natal’ja Prokof’evna? Potrebbero sentirci! – urlò il verro in tono d’implorazione.

Mentre volava a fianco di Margherita, Nataša le raccontò fra le risa quanto era accaduto nella palazzina dopo che Margherita Nikolaevna aveva varcato in volo il portone.

Nataša confessò che, senza più toccare alcuna delle cose a lei regalate, si era spogliata di furia, s’era buttata sulla crema e se l’era immediatamente spalmata addosso. E le era accaduto lo stesso che alla sua padrona. Mentre Nataša, ridendo di gioia, s’inebriava della sua magica bellezza davanti allo specchio, la porta si era aperta e le era comparso dinanzi Nikolaj Ivanovič. Era agitato, teneva in mano il camicino di Margherita Nikolaevna, nonché il proprio cappello e la cartella.

Vedendo Nataša, Nikolaj Ivanovič era allibito. Riavutosi un po’, rosso come un gambero, aveva dichiarato che s’era creduto in dovere di raccattare il camicino, di riportarlo personalmente…

– Cosa non ha detto, quel mascalzone! – strillava e rideva Nataša. – Cosa non ha fatto per adescarmi! Quanto denaro ha promesso! Diceva che Klavdija Petrovna non ne avrebbe saputo nulla.

Su, parla, dico bugie? – gridò Nataša al verro, e questi, tutto vergognoso, si limitò a voltare il muso dall’altra parte.

Dopo aver folleggiato in camera da letto, Nataša aveva unto con la crema Nikolaj Ivanovič, e lei stessa era rimasta sbalordita. La faccia del rispettabile inquilino del piano di sotto s’era ridotta a un grugno, ai piedi e alle mani gli erano spuntati gli zoccoli. Guardatosi nello specchio, Nikolaj Ivanovič aveva cacciato un urlo selvaggio e disperato, ma era troppo tardi. Pochi secondi dopo, cavalcato da Nataša, egli volava via da Mosca, sa il diavolo dove, singhiozzando di dolore.

– Esigo che mi venga restituito il mio aspetto normale! – rantolò e grugnì a un tratto il verro con tono fra il disperato e il supplichevole. – E non intendo volare a un assembramento illegale!

Margherita Nikolaevna, lei ha l’obbligo di ridurre alla ragione la sua cameriera!

– Ah, sicché adesso sarei la cameriera per te? La cameriera? – gridava Nataša, pizzicando l’orecchio del verro. – E non ero una regina? Non mi chiamavi così?

– Venere! – rispose lamentosamente il verro, volando sopra un torrente spumeggiante fra le rocce e sfiorando con gli zoccoli i cespugli di nocciolo.

– Venere! Venere! – proclamò vittoriosamente Nataša, mettendosi una mano sul fianco e protendendo l’altra verso la luna. – Margherita! Regina! Interceda per me, affinché mi lascino continuare a essere strega! Per lei faranno tutto, lei è potente!

E Margherita rispose:

– Va bene, lo prometto.

– Grazie! – esclamò Nataša, e all’improvviso si mise a gridare in tono brusco e anche un po’ malinconico: – Arri! Arri! Più presto! Più presto! Su, dài!

Ella strinse fra i calcagni i fianchi del verro, dimagriti durante la folle galoppata ed egli diede una strappata tale che riprese a fendere l’aria; dopo un attimo Nataša non era più che un puntino nero, poi scomparve del tutto e il rumore del suo volo si dileguò. […]

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