Manzoni, Storia della colonna infame.

colonna infame

Manzoni, Storia della colonna infame

Manzoni racconta nella Storia della colonna infame, pubblicata in appendice all’edizione del 1840 dei Promessi sposi, le vicende legate ad una colonna eretta a Milano al tempo della peste. Già ne aveva ampiamente trattato nel 1777 Pietro Verri (suo zio, se è vero che Alessandro Manzoni è nato da una relazione della madre con Giovanni Verri) nelle sue Osservazioni sulla tortura.

Al tempo in cui Pietro Verri scrisse il saggio, la colonna era ancora al suo posto, ormai dal 1630, a ricordo della pretesa infamia di Giangiacomo Mora, messo a tortura e reo confesso, benché innocente, di aver usato unguenti per spargere la peste a Milano. L’anno precedente la stesura del saggio, nel 1776, l’imperatrice Maria Teresa aveva abolito la tortura in tutti gli stati ereditari. Nel 1778 la Colonna infame fu abbattuta, essendo ormai divenuta una testimonianza d’infamia non a carico del condannato, ma per i giudici. La lapide che reca compiaciuta la descrizione della pena inflitta al barbiere Giangiacomo Mora e al commissario di sanità Guglielmo Piazza, si trova in un cortile del Castello sforzesco di Milano.

Il 21 giugno del 1630, una giornata di pioggia, a Milano, nei pressi della contrada della Vetra, Caterina Rosa e Ottavia Boni, due comari affacciate alla finestra di primo mattino, notano un uomo coperto da un mantello nero con il cappello calato sul viso, camminare rasente una casa strofinando la mano destra contro il muro. Allontanatosi, le due donne si precipitano in strada per controllare i segni che, secondo loro, l’uomo ha lasciato sul muro e vedono, o credono di vedere, delle macchie di colore giallo. È allarme. La parte unta viene subito bruciata e coperta di calce. Il Capitano di giustizia, chiamato sul luogo per esaminarlo, conferma i timori della gente, scorgendo dei segni di unto, nonostante il muro fosse stato prontamente bruciato prima e imbiancato poi. All’untore vengono presto dati un volto e un nome: si tratta di Guglielmo Piazza, commissario della sanità, che viene subito arrestato con l’accusa di aver sparso dell’unguento pestifero. Interrogato, l’uomo nega ma, dopo essere stato sottoposto alla tortura della corda (appeso, cioè, ad una fune con le mani legate dietro la schiena e lasciato, poi, cadere di colpo), rasato, purgato e cambiato di abiti, per il timore che potesse nascondere un amuleto in grado di proteggerlo dal dolore delle pene inflittegli, non solo confessa, ma fa anche, o meglio inventa, su promessa di impunità, il nome di un complice.

Lo sfortunato altri non è che il suo barbiere, tal Giangiacomo Mora, a cui proprio pochi giorni prima dell’accaduto, aveva chiesto di mettergli da parte un vasetto di olio curativo contro la peste. Dopo un’attenta perquisizione della sua bottega, che la presenza di alambicchi e fornelli induce gli esaminatori a considerare una vera e propria fabbrica di veleni, il barbiere viene arrestato e interrogato e, dichiaratosi estraneo ai fatti, viene torturato.

Ciò che lo attende è la legatura della canapa, ovvero una matassa con la quale si avvolge una mano e che viene girata fino a slogare il polso, tanto che questi finisce per ripiegarsi sul braccio stesso. Confessa, ma poi, cessato lo strazio, ritratta; sottoposto di nuovo al supplizio, tra grida di dolore e spasimi, ammette ciò che gli esaminatori sostenevano avesse fatto. Questa scena si ripete per giorni, finché il Piazza non fa il nome di una terza persona: Don Giovanni Gaetano Padilla, nobile spagnolo denunciato come l’ideatore del crimine. Al Mora viene chiesto di confermare la responsabilità di quest’ultimo personaggio nei fatti accaduti ed egli acconsente, ormai stremato dai tormenti della tortura (il Padilla fu poi assolto in virtù del suo rango).

Una sentenza del 27 luglio condanna a morte sia il Piazza che il Mora, nonostante le dubbie confessioni dei due, le continue e ripetute smentite del barbiere e l’assenza di una benché minima prova. Entrambi furono caricati su un carro che prima li portò nel luogo che si presumeva infettato dal Piazza, poi davanti alla bottega del Mora, dove fu tagliata loro la mano destra e rotta l’ossatura; in seguito furono posti sulla ruota, i loro cadaveri bruciati e le ceneri gettate nel fiume. La casa del Mora fu demolita e al suo posto eretta una colonna, detta infame, e una lapide che recava la descrizione dei fatti accaduti, a memoria della giustizia compiuta nei confronti dei due principali imputati dell’epidemia di peste che si diffuse quell’anno a Milano.

Sia Verri che Manzoni sono inorriditi dal male consumato prima e dopo la sentenza capitale, ma l’uno guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, mentre il l’altro appunta la sua attenzione sulle responsabilità individuali. La critica del Verri, pur implacabile, dà adito all’ottimismo: basterà infatti riformare le leggi e le istituzioni, perché non si producano più aberrazioni del genere. Il Manzoni argomenta invece che la tortura data al commissario di sanità, dalla quale poi seguì tutto quell’insieme di infamie, era comunque iniqua, anche secondo le leggi del tempo. Dunque ben venga l’abolizione della tortura da parte della saggia e illuminata sovrana Maria Teresa d’Austria, ma leggi migliori, da sole, non ci tutelano dal male, perché il male viene dagli uomini.

La Storia della colonna infame fu scritta da Manzoni nel 1840 come appendice ai Promessi sposi. L’opera è costituita da un’introduzione e da sette capitoli; nell’introduzione l’autore chiarisce il motivo della sua ricostruzione storica che vuol far capire la differenza tra lui e Verri (Osservazioni sulla tortura). Verri voleva dimostrare che la tortura era dovuta alle “barbarie della giurisprudenza e all’ignoranza dei tempi”, elementi tipici del Seicento. Invece, Manzoni inserisce questa storia riportando passi dai documenti originali, per dimostrare che la tortura era dovuta all’individualità dei giudici o in altre parole “all’ingiustizia personale e volontaria dei giudici”. Le accuse rivolte ai giudici sono la menzogna, l’abuso di potere, la violazione delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’uso di doppio peso e doppia misura.

Esercizi – Storia della Colonna infame:

  1. Chi erano gli “untori”?
  2. Che cos’è la “colonna infame”?
  3. Quale scopo si proposero coloro che la fecero erigere?
  4. Perché la colonna è divenuta “infame” per coloro che l’hanno fatta erigere?
  5. Quale diverso intento si proposero Verri e Manzoni nel trattare la vicenda?

 

Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.

[…]

que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia. Non vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in quell’orribile fatto: ne furono, la prima un’occasion deplorabile, l’altra un mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, né il principale. Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse?

Manzoni, Storia della colonna infame

/ 5
Grazie per aver votato!

Print Friendly, PDF & Email

Copyright © 2013 giorgiobaruzzi. All Rights Reserved.