Manzoni, La notte dell’Innominato

Promessi sposi

Alessandro Manzoni, La notte dell’Innominato

da I promessi sposi, cap. XXI

 

Don Rodrigo convince l’Innominato ad aiutarla nel rapimento di Lucia. Il potente signore manda il capo dei suoi bravi, il Nibbio, da Egidio, che ha una relazione con Gertrude, la monaca di Monza. Sollecitata dall’amante, Gertrude chiede a Lucia di uscire dal convento, con una scusa, così i bravi, guidati dal Nibbio, possono rapirla e portarla al castello del loro signore. L’Innominato incarica una vecchia di accogliere Lucia, che viene condotta in una stanza, al castello. Il racconto che il Nibbio fa al padrone sul rapimento di Lucia scuote l’Innominato già da tempo scontento della sua vita e le lacrime di Lucia lo turbano. Durante la notte, mentre la ragazza fa voto di castità alla Madonna se verrà liberata, l’Innominato è assalito da una profonda crisi che lo spinge a meditare il suicidio. Ma all’alba sente suonare le campane nella valle e vede i paesani accorrere gioiosi verso non si sa cosa… Verrà poi a sapere che vanno a incontrare il cardinal Federigo Borromeo, che è in visita pastorale. Il giorno seguente l’Innominato deciderà di recarsi dal cardinale…

 

[…] Ma c’era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell’immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio, il signore s’era andato a cacciare in camera, s’era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell’immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. “Che sciocca curiosità da donnicciola, – pensava, – m’è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!… Io?… io non son più uomo, io? Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?”

E qui, senza che s’affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d’un caso in cui né preghi né lamenti non l’avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell’animo quella molesta pietà; vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. “È viva costei, – pensava, – è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi… Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io…! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d’addosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!… Via! – disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: – via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa”.

E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt’a un tratto restìo per un’ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all’imprese avviate e non finite, in vece d’animarsi al compimento, in vece d’irritarsi degli ostacoli (ché l’ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de’ passi già fatti. Il tempo gli s’affacciò davanti voto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l’ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl’importasse; anzi l’idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio. E se volle trovare un’occupazione per l’indomani, un’opera fattibile, dovette pensare che all’indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.

“La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare… E la promessa? e l’impegno? e don Rodrigo?… Chi è don Rodrigo?”

A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d’un superiore, l’innominato pensò subito a rispondere a questa che s’era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l’antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d’esser pregato, s’era potuto risolvere a prender l’impegno di far tanto patire, senz’odio, senza timore, un’infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell’animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se stesso, per rendersi ragione d’un sol fatto, si trovò ingolfato nell’esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata da’ sentimenti che l’avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que’ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell’immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S’alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e… al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un’inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S’immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d’intorno, lontano; la gioia de’ suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all’aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. “Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è, se è un’invenzione de’ preti; che fo io? perché morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia… E se c’è quest’altra vita…!”

A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!” E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immaginava di condurla lui stesso alla madre. “E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!” E ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d’abbandonare il castello, e d’andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l’animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a’ suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne’ suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s’era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l’eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. “Che allegria c’è? cos’hanno di bello tutti costoro?” Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s’avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un’alacrità straordinaria.

“Che diavolo hanno costoro? che c’è d’allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?” […]

 

Analisi del testo

Quando Lucia giunge al castello, l’Innominato è sconcertato dalle parole del Nibbio, che dice di aver provato compassione per la giovane. Il Nibbio dichiara che la compassione è come la paura e quando uno ne è preda non è più uomo, come ha sperimentato egli stesso nel lungo viaggio da Monza in cui ha sentito Lucia piangere e disperarsi, e l’ha vista impallidire dal terrore e quasi morire. L’Innominato vorrebbe mandare subito Lucia da don Rodrigo, ma poi decide di trattenerla fino al giorno dopo. Decide poi di far visita alla giovane e si reca nella stanza dove è tenuta prigioniera. Cerca in tutti i modi di tranquillizzarla e Lucia, credendo di vedere sul suo volto la compassione, lo implora di liberarla perché “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia”. L’Innominato se ne va, cercando di rassicurare la giovane, ma Lucia è disperata, rifiuta il cibo e trascorre le ore nell’angoscia. Poi prende il rosario, inizia a pregare e pronuncia un voto di castità alla Madonna, con la rinuncia a sposare Renzo. Stremata, alla fine, si addormenta.

Dopo essere quasi scappato dalla stanza della prigioniera, si chiude nella sua stanza. Anche l’innominato vorrebbe dormire, tuttavia non vi riuscirà per tutta la notte. La frase “tu non dormirai”, che egli crede di sentirsi rivolgere dall’immagine di Lucia tremante all’inizio della sua notte angosciosa, si ispira al Macbeth di W. Shakespeare, in cui il protagonista (Atto II, scena II) dopo aver assassinato re Duncan crede di sentire una voce che gli dice “Sleep no more!” (non dormirai più).

Il pensiero fisso di Lucia tremante e le parole che la giovane gli ha rivolto lo tormentano. Maledice la sua decisione di vedere la ragazza, rimproverandosi di essersi lasciato impietosire come una “donnicciola”, ricordando che nella sua vita scellerata ha sentito piangere donne e talvolta anche uomini. Questi ricordi però non lo confortano ma anzi inducono nel suo animo un oscuro terrore, una sorta di pentimento, di cui prova vergogna. È tentato dall’idea di liberare Lucia e di vedere il suo volto rasserenato, per provare sollievo dall’inquietudine, poi pensa che questa sua debolezza passerà. Non trova tuttavia alcun pensiero che gli rechi conforto ma anzi le imprese iniziate lo atterriscono e si pente dei passi compiuti, mentre il futuro gli appare privo di prospettive. Medita nuovamente di liberare Lucia, anche se ciò vorrebbe dire mancare alla parola data a don Rodrigo, con il quale si è impegnato solo per l’antica abitudine al male. Il ricordo di tutte le malefatte del passato gli sembra insopportabile e afferrata una pistola è sul punto di uccidersi. Pensa al suo cadavere che verrebbe trovato il giorno dopo e allo scompiglio nel castello, alla gioia dei suoi nemici e di chi gli sopravvivrà. Suicidarsi nel buio della notte gli sembra un’azione vile e continua ad alzare e abbassare il cane della pistola, mentre lo assale il pensiero angoscioso che, forse, la vita dopo la morte esista davvero.

Il dubbio getta l’innominato in una nera disperazione, che lo porta a lasciar cadere la pistola e a mettersi le mani nei capelli, tremando dalla paura: a un tratto gli tornano in mente le parole di Lucia (“Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia“), pronunciate tuttavia non con il tono supplichevole con cui le ha udite dalla ragazza ma con un accento autorevole che gli ridona speranza. È ansioso che spunti il giorno, per correre a liberarla e ottenere il suo perdono, disposto addirittura a portarla lui stesso dalla madre, quando lo assale però l’incertezza su ciò che potrà fare in futuro. Soprattutto lo atterrisce il pensiero che presto la notte calerà di nuovo e tornerà a tormentarlo, per cui passa dal proposito di fuggire in un paese lontano dove nessuno lo conosca a quello di tornare alle antiche malefatte superando una crisi passeggera, mentre teme di farsi vedere così cambiato dai suoi bravi il giorno dopo e al tempo stesso è ansioso che spunti il sole.

All’alba, quando Lucia si è da poco addormentata, l’innominato sente un rumore confuso e festoso giungere dall’esterno e capisce che si tratta di uno scampanio, che echeggia da punti diversi della valle. L’uomo si alza dal letto e, affacciatosi a una finestra, vede una gran frotta di uomini, donne, fanciulli sempre crescente che procede allegramente verso una destinazione sconosciuta. L’innominato non riesce a spiegarsi le ragioni di quella gioiosa marcia e chiede a uno dei bravi di informarsi in proposito.

Il momento saliente del capitolo è la duplice notte angosciosa vissuta da Lucia e dall’innominato. La giovane trova conforto nel voto pronunciato alla Vergine e riesce alla fine a prendere sonno. Il bandito, invece, è oppresso dalla coscienza dei crimini compiuti ed è in preda alla più tetra disperazione, sfiorando l’idea del suicidio. La notte viene presentata come momento di inquietudine e incertezza per un personaggio, come accadrà per don Rodrigo ammalato di peste.

La notte tragica dell’innominato è un raro esempio di finezza psicologica e di verosimiglianza nel descrivere il rovello interiore che non dà pace al bandito e lo porta alla disperazione: il capitolo si conclude con un’atmosfera di “sospensione”, nel momento in cui egli sente lo scampanio e vede i fedeli che accorrono dal cardinal Borromeo. Sarà l’incontro con il prelato a innescare il suo ravvedimento morale.

 

4,0 / 5
Grazie per aver votato!

Print Friendly, PDF & Email

Copyright © 2020 giorgiobaruzzi. All Rights Reserved.