Manzoni, La monaca di Monza

Promessi sposi

Alessandro Manzoni, La monaca di Monza

Renzo, Agnese e Lucia  giungono a Monza  e qui i due promessi sposi si separano. Renzo parte per Milano, mentre il padre guardiano dei cappuccini conduce le due donne al convento di Gertrude, la “Signora”. Dopo la descrizione della donna e del colloquio tra questa, Agnese e Lucia, Manzoni narra la storia di Gertrude: l’infanzia al convento, il rifiuto di prendere il velo, l’ostilità della famiglia, la forzata decisione di farsi monaca.

(dai cap. IX e X dei Promessi sposi)

Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta.

Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e piu forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento. […]

Era essa l’ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l’alta opinione che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi scarse, a sostenerne il decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui.

Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de’ figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa d’alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto; come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: ” bello eh? ” Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de’ maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non con le parole: ” che madre badessa! ” Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, ” tu sei una ragazzina, ” le si diceva: ” queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso “. Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, ” ehi! ehi! ” le diceva; ” non è questo il fare d’una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero; perché il sangue si porta per tutto dove si va.

Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei doveva esser monaca; ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan piú effetto di tutte l’altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello d’un padrone austero; ma quando si trattava dello stato futuro de’ suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva un’immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento d’una necessità fatale.

A sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e, accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asserire che fosse il feudatario di quel paese. Comunque sia, vi godeva d’una grandissima autorità; e pensò che lì, meglio che altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potesser più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Né s’ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come si suol dire, il mestolo in mano, esultarono nel vedersi offerto il pegno d’una protezione tanto utile in ogni occorrenza, tanto gloriosa in ogni momento; accettaron la proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate, per quanto fossero forti; e corrisposero pienamente all’intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d’accordo con le loro. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta all’altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con quella famigliarità un po’ rispettosa, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a tirar la poverina nel laccio; ce n’eran molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non s’accorgevan bene di tutti que’ maneggi, parte non distinguevano quanto vi fosse di cattivo, parte s’astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche, rammentandosi d’essere stata, con simili arti, condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche: ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto mistero; e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma, tra le sue compagne d’educazione, ce n’erano alcune che sapevano d’esser destinate al matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente de’ suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto. All’immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie e luccicanti, di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora, di villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichìo che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I parenti e l’educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale, per farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più omogenee ad essa, si gettò su quelle, con un ardore ben più vivo e più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva che, alla fin de’ conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che l’avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva in fatti. L’idea della necessità del suo consenso, idea che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per godersi più tranquillamente l’immagini d’un avvenire gradito. Dietro questa idea però, ne compariva sempre infallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e, a questa idea, l’animo della figlia era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, ch’erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che, da principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta l’odio s’esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta l’uniformità dell’inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere un’intrinsichezza apparente e passeggiera. Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire all’altre quella sua superiorità; talvolta, non potendo più tollerar la solitudine de’ suoi timori e de’ suoi desidèri, andava, tutta buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sé e con gli altri, aveva varcata la puerizia, e s’inoltrava in quell’età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l’inclinazioni, tutte l’idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in que’ sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e d’affettuoso, che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e a primeggiare nelle sue fantasie. S’era fatto, nella parte più riposta della mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti, ivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d’ogni genere. Di quando in quando, i pensieri della religione venivano a disturbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l’avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come l’altre. Negl’intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all’insinuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d’espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro. […]

Gertrude nella sua permanenza a casa matura l’idea di rifiutare l’ingresso definitivo in convento. I parenti allora la isolano, la ignorano, la trattano come un’estranea, facendola sentire in colpa. Solo un servitore del principe si mostra umano con lei e tra i due avviene uno scambio di lettere. Una di queste viene intercettata da una serva che la mostra al principe, che procede immediatamente a cacciare il ragazzo e a punire con durezza la ragazza facendola rinchiudere in una stanza. Poi comprende di avere un’arma decisiva in mano…

Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.

Al legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentre era caldo. Gertrude comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: ” perdono! ” Egli le fece cenno che s’alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch’era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo. Gertrude domandò, sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull’animo della poveretta, come lo scorrere d’una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che, quand’anche… caso mai… che avesse avuto prima qualche intenzione di collocarla nel secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; giacché a un cavalier d’onore, com’era lui, non sarebbe mai bastato l’animo di regalare a un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sé. La misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c’era rimedio e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è piú chiaramente indicato: ch’essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei…

” Ah sì! ” esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea.

” Ah! lo capite anche voi, ” riprese incontanente il principe. ” Ebbene, non si parli piú del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole, conveniente, che vi rimanesse; ma perché 1’avete preso di buona voglia, e con buona maniera, tocca a me a farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne prendo io la cura “. 

Analisi del testo

Giunte a Monza, Lucia e Agnese raggiungono il convento dei cappuccini, dove mostrano la lettera di presentazione al padre guardiano che presenta le due donne alla “Signora”. Si tratta di una monaca di nobili origini e molto potente che si occuperà della loro sicurezza. Le attende dietro la grata: ritta e altera, ha il portamento di chi è abituato a comandare. La sua bellezza non è propriamente innocente, ma nel suo sguardo mobile e a tratti angosciato si rivela un’anima sensibile e forse tormentata.

Alle domande della “signora” sul cavaliere che la perseguita, Lucia risponde timidamente, e quando Agnese interviene Gertrude la rimprovera aspramente.

Manzoni si sofferma sulla storia della monaca, destinata dal padre, tiranno e subdolo, a diventare monaca contro voglia. Fin da bambina, Gertrude è destinata al convento: le sue bambole sono vestite da monache, chiusa in un convento a sei anni, la fanciulla continua a sognare una vita mondana di sfarzo e di divertimento. In un momento di debolezza firma il documento che precede di un anno l’esame di un ecclesiastico per accertare la vocazione. Si pente, ma il padre le fa pesare il ripensamento con la sua disapprovazione.

Nel mese che la fanciulla deve trascorrere a casa con i parenti prima dell’esame per la vocazione, i familiari sono con lei così freddi, da farle apparire desiderabile la vita monastica piuttosto che la permanenza nella casa paterna. Solo un paggio le dimostra simpatia e Gertrude ricambia la sua tenerezza. I due sono sorpresi da una cameriera e la ragazza è chiusa per punizione nella sua stanza sotto la sorveglianza di una donna della servitù e sotto la minaccia di un oscuro castigo. Dopo cinque giorni di prigionia, la giovane decide di scrivere al padre una lettera, in cui si proclama pentita e pronta a fare la sua volontà. 

Il padre di Gertrude coglie al volo il momento propizio per attuare il suo piano di vedere accolta in convento la figlia una volta per tutte. I familiari si stringono lieti intorno alla ragazza, che ormai non ha più occasione di tirarsi indietro. Tutti la festeggiano e il mattino seguente è condotta a visitare il monastero di Monza, dove ripete alla badessa le parole che le sono state insegnate dal padre. Finché, fra un complimento e l’altro, il suo ingresso al monastero si riduce a pura formalità. Il principe padre di Gertrude e la badessa eludono la procedura prescritta dalla Chiesa e circondano la povera ragazza di ipocrite attenzioni. Alla fine, viene scelta la madrina che diventerà custode della giovane monacanda.

Nel giorno fatale, Gertrude, anche davanti al prete che la esamina, non ha il coraggio di smentire tutto ciò che per settimane ha sostenuto come vero. Il padre, che fino ad allora è stato sulle spine, ne è sollevato. Le feste ed i divertimenti che seguono angosciano la povera ragazza, consapevole di dover presto lasciare tutto quel fasto per sempre. Lei stessa, dunque, chiede di entrare al più presto in convento. Qui, dopo dodici mesi di noviziato, pieni “di pentimenti e di ripentimenti”, fa la professione, giurando voti solenni.

Nel convento, ormai sua nuova casa, Gertrude non cerca consolazione nella religione, come potrebbe fare per trovare finalmente un po’ di pace, ma invidia le compagne che potranno vivere all’esterno e detesta le monache che hanno contribuito a farle prendere i voti. Gode comunque di alcuni privilegi, come quello di abitare in un quartiere a parte, che si rivela essere contiguo alla casa di un giovane corrotto, Egidio. Manzoni accenna appena alla colpevole relazione tra i due. Si sofferma invece sui rimorsi della ragazza, che arriva a farsi complice dell’omicidio di una conversa che ha minacciato di fare rivelazioni compromettenti. Il rimorso per quell’omicidio è nella sua mente da quasi un anno quando le viene presentata Lucia. La “signora” accoglie la ragazza sotto la sua protezione perché le pare in questo modo di sminuire la sua colpa, ma le domande che rivolge alla giovane sono così ardite, e così insolite per una religiosa, da lasciare Lucia piena di stupore.

Il personaggio è chiaramente ispirato alla figura storica di Marianna de Leyva (1575-1650), figlia di Martino conte di Monza e costretta a farsi monaca dal padre contro la sua volontà: entrata in convento tra le umiliate col nome di suor Virginia Maria (1591), esercitò in seguito l’autorità feudale come contessa di Monza e fu perciò chiamata la “Signora”, mentre negli anni seguenti intrecciò una relazione con Gian Paolo Osio (Egidio nel romanzo). Manzoni modifica in parte la vicenda storica e la adatta alle esigenze narrative del romanzo, anche se rivela fin dall’inizio la storicità del personaggio: la Gertrude dei Promessi sposi è detta figlia di un gentiluomo milanese il cui casato non è dichiarato in modo esplicito, anche se la città dove sorge il convento è Monza.

Esercizi di analisi del testo

  1. Spiega per quali ragioni il principe, padre di Gertrude, decide di destinarla a diventare suora.
  2. Quali sono i comportamenti dei famigliari volti a condizionare la decisione di Gertrude di entrare in convento?
  3. Come viene accolta la richiesta del principe di far entrare Gertrude in convento da parte della badessa del monastero di Monza?
  4. In che modo reagiscono le compagne di Gertrude di fronte alle sue vanterie?
  5. Quale effetto produce questa reazione nell’animo della fanciulla?
  6. Perché Gertrude teme di rifiutarsi di entrare in convento definitivamente?
  7. Quale tipo di religiosità è stata inculcata nella ragazza?
  8. Con quali argomenti il principe, infine, piega la sua volontà?
  9. Quale ruolo gioca Gertrude nelle vicende che vedono come protagonista Lucia?
  10. Manzoni fa riferimento al personaggio storico reale di Marianna de Leyva (Suor Virginia) ed alla sua relazione con Paolo Osio. Riassumine brevemente la storia.

 

 

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