Lovecraft, L’estraneo.

estraneo

Howard Phillips Lovecraft, L’estraneo

The Outsider è considerato uno degli esempi più palesi dell’influsso che lo stile e le tematiche di Edgar Allan Poe hanno esercitato su Lovecraft. Lo stesso autore di Providence era il primo a riconoscere il debito. “Poe mi ha probabilmente influenzato più di ogni altra persona”, scrisse a J. Vernon Shea in una lettera del 19 giugno 1931. “Se mai mi è capitato di avvicinarmi al suo genere di brivido letterario, è stato soltanto perché lui stesso ha aperto la via, creando un metodo e un’atmosfera che altri – minori di lui – possono ancora seguire con relativa facilità. Non pretendo certo di essere un autore gotico di prima fila – posizione che compete a Poe fra gli scomparsi, e ad Arthur Machen, Algernon Blackwood, Walter de la Mare, Lord Dunsany e Montague Rhodes James fra i viventi. Mi basta fare buona figura fra gli autori di secondo piano, quelli pubblicati dalle riviste popolari… Quanto a The Outsider, so che a molti, compreso Farnsworth Wright, il racconto è piaciuto, ma non posso dire di condividere il giudizio. È troppo meccanico nei suoi effetti, e quasi comico nella gonfia pomposità del linguaggio… Rappresenta al massimo grado la mia imitazione letterale, ancorché inconscia, di Poe.” Al di là del giudizio impietoso del suo stesso autore, la storia si segnala comunque per la sua sottintesa nota autobiografica. Nel protagonista, che cresce solo in un vecchio castello, nutrendo la sua cultura di vecchi libri, è facile riconoscere l’infanzia solitaria dello stesso Lovecraft.


Quella notte il Barone sognò molte sciagure,

E tutti i suoi ospiti guerrieri, in forma ed apparenza

Di streghe, larve e grassi vermi delle sepolture,

A lungo tormentarono i suoi sogni.

KEATS

Infelice chi dell’infanzia ha soltanto memorie di paura e tristezza. Sventurato chi, volgendosi indietro, non vede che ore solitarie trascorse in sale vaste e malinconiche, tappezzate di lugubri tendaggi e file esasperanti di libri antichi, o in desolate veglie in boschi crepuscolari fitti di immensi alberi grotteschi coperti da erbe, che agitano silenziosi in alto i rami contorti. Tal sorte gli dèi hanno riservato a me… A me: l’attonito, il deluso; l’abbandonato, l’infranto. Eppure, stranamente pago, mi aggrappo in modo patetico anche a questi ricordi appassiti negli attimi in cui la mente minaccia di soverchiarli per richiamare l’altro ricordo.

Non so dove sono nato: so soltanto che il castello era infinitamente antico e infinitamente orribile, pieno di ànditi oscuri e di alti soffitti ove l’occhio null’altro incontrava che ombre e ragnatele. Le pietre dei corridoi in sfacelo parevano sempre odiosamente viscide, e ovunque stagnava un lezzo esecrabile, come di cadaveri ammucchiati nell’avvicendarsi delle morte generazioni. Non vi era mai luce, sicché solevo talvolta accendere qualche candela e contemplare la fiamma per trovar conforto. Né mai risplendeva il sole al di fuori, ché gli alberi giganteschi crescevano più alti della torre più elevata che fosse accessibile. Una sola torre, nera, si innalzava al di sopra degli alberi, riuscendo a penetrare il cielo sconosciuto: ma era diroccata all’interno e non si poteva ascendere se non arrischiando una scalata pressoché impossibile lungo la parete nuda, pietra dopo pietra.

In quel luogo devo aver vissuto per anni, ma non so misurarne il numero. Qualcuno di certo doveva provvedere a ciò che mi era necessario; tuttavia, non mi sovviene di altri esseri umani all’infuori di me, né di alcunché di vivo eccetto i topi silenziosi, i pipistrelli o i ragni. Credo che chi mi ha allevato dovesse essere paurosamente vecchio, giacché la mia prima idea di un essere vivente fu di qualcosa che mi rassomigliava in maniera caricaturale, ma che era deforme, avvizzito e cadente come il castello.

Non trovavo nulla di grottesco nelle ossa e negli scheletri che affollavano una parte delle cripte di pietra dei profondi sotterranei. Nella mia fantasia, accomunavo quelle cose agli eventi quotidiani, e le ritenevo assai più naturali delle immagini variopinte di esseri umani che scorgevo in molti dei libri ammuffiti. Da quei libri ho appreso tutto ciò che conosco. Nessun maestro mi ha mai stimolato o guidato, né rammento di aver mai udito voce umana durante quei lunghi anni, foss’anche la mia stessa voce; di fatto, benché dalle mie letture avessi appreso dell’esistenza del linguaggio, non mi è mai venuto in mente di parlare a voce alta. Anche il mio aspetto era al di fuori delle mie congetture, dato che nel castello non vi erano specchi, ed io per istinto mi consideravo simile alle figure giovanili che vedevo disegnate o dipinte nei libri. E che fossi giovane lo deducevo dalla esiguità dei miei ricordi.

Sovente uscivo a sdraiarmi oltre il putrido fossato, sotto i cupi alberi muti ove passavo ore ed ore a sognare di ciò che avevo letto nei libri; e con ardente desiderio mi figuravo tra folle di gente gaia nel mondo assolato che si apriva oltre la foresta infinita. Una volta tentai di fuggire da quella foresta ma, non appena mi fui allontanato dal castello, l’ombra si fece più spessa e l’aria più densa di insidie paurose; al punto da indurmi a tornare indietro, in corsa affannosa, per timore di smarrirmi in quel labirinto di notturni silenzi. Così, tra crepuscoli infiniti, sognavo ed aspettavo, senza neppure sapere che cosa aspettassi. Finché, in quella solitudine fatta di ombre, la mia brama di luce divenne così intensa da non darmi più pace, e sollevavo le mani supplicanti verso la nera torre in rovina che, sola, valicava la foresta innalzandosi nel cielo sconosciuto. Alla fine, mi risolsi a scalarla anche a costo di precipitare, perché sarebbe stato certo preferibile scorgere il cielo e poi perire, piuttosto che vivere senza aver mai conosciuto la luce del giorno.

Nell’umida penombra, mi inerpicai su per la scala di pietra antica e consunta, quindi, giunto là dove si interrompeva, mi aggrappai pericolosamente ai piccoli appigli che conducevano in alto. Pauroso e terribile mi appariva quel cilindro di roccia, inanime e privo di scale; tetra, diroccata e desolata, la torre era resa ancor più sinistra dai pipistrelli spaventati che agitavano ali silenti. Ma ancor più paurosa e terribile era la lentezza con la quale procedevo; difatti, per quanto continuassi ad arrampicarmi, il buio che mi sovrastava non accennava a dissiparsi, e fui assalito da una sensazione nuova: un gelo malefico, come di una muffa spettrale e immensamente antica. Rabbrividii domandandomi perché non raggiungessi mai la luce, e fui tentato di guardare in basso, ma non osai farlo. Immaginai che la notte mi avesse sorpreso d’improvviso, e invano tastai il muro con la mano libera alla ricerca di una finestra dalla quale sporgermi a guardar fuori per cercare di farmi un’idea dell’altezza raggiunta.

All’improvviso, dopo un’interminabile cieca scalata su per il terribile precipizio concavo, sentii il mio capo urtare qualcosa di solido, e capii allora di essere infine giunto al tetto, o comunque ad una sorta di soffitto. Nelle tenebre, sollevai la mano libera e saggiai l’ostacolo, che si rivelò di pietra e inamovibile. Intrapresi dunque un mortale circuito all’interno della torre, aggrappandomi ad ogni appiglio che la viscida parete mi offrisse, finché arrivai ad un punto che cedette alla pressione della mia mano. Mi volsi nuovamente verso l’alto e presi a spingere la lastra – o porta che fosse – con la testa, usando entrambe le mani per la terrificante ascesa. Non intravidi la più fioca luce sopra di me e, allorché portai le mani più in alto, compresi che per il momento la mia scalata era terminata. La lastra era difatti una botola che conduceva ad una superficie di pietra di circonferenza maggiore di quella della torre sottostante. Indubbiamente, si trattava del pavimento di un alto e spazioso osservatorio. Con grande cautela mi infilai attraverso la botola e cercai di impedire che la pesante lastra ricadesse a chiudere l’apertura, ma non vi rìuscii. E mentre, esausto, giacevo sul pavimento di pietra, udii l’eco spaventosa della sua caduta; mi augurai di riuscire a risollevarla se fosse stato necessario. Convinto di trovarmi ormai ad un’altezza prodigiosa, molto al di sopra dei detestati rami del bosco, mi tirai su e, annaspando tutt’intorno, cercai una finestra dalla quale, per la prima volta, avrei potuto vedere il cielo, la luna e le stelle di cui avevo letto.

Dovetti disilludermi: le mie mani non trovarono che nicchie di marmo sulle quali erano disposte lunghe casse esagonali di dimensioni inquietanti. Ero sempre più dubbioso, e mi chiedevo quali antichi segreti fossero racchiusi in quell’elevata dimora da tempo immemorabile separata dal castello sottostante; ad un tratto, inaspettatamente, le mie mani si posarono su un arco che sormontava un portale di pietra istoriato con bizzarre cesellature. Lo tentai, e vidi che era chiuso; poi, con uno sforzo supremo, superai tutti gli ostacoli e riuscii ad aprirlo tirandolo verso di me. Subito fui pervaso dall’estasi più pura che abbia mai conosciuto, perché, rifulgente di un quieto bagliore, attraverso una grata di ferro arabescata e al termine di una breve scalinata che risaliva dal varco appena trovato, v’era raggiante la luna piena, che non avevo mai visto prima, se non nei sogni e in quelle visioni confuse che non osavo chiamare ricordi.

Immaginando di aver raggiunto il pinnacolo più alto del castello, presi a salire di corsa i gradini che avevo scorto oltre il portale; ma una nuvola velò improvvisamente la luna e inciampai, per cui dovetti proseguire nel buio con maggior cautela. Le tenebre erano ancora fitte quando giunsi alla grata. Mi provai a spingerla con prudenza, trovandola non serrata. Decisi comunque di non forzarla, temendo di precipitare da quell’altezza  vertiginosa alla quale ero asceso. Quand’ecco, che la luna riapparve.

estraneoIl più demoniaco di tutti gli sconvolgimenti, è quello che unisce il profondamente inatteso con il grottescamente incredibile. Nulla di ciò che avevo sofferto fino a quel momento poteva paragonarsi al terrore che scaturiva dalla bizzarra prodigiosità della visione che ora si apriva dinanzi ai miei occhi, e all’assurdo che essa implicava. La scena in se stessa era semplice, e al tempo stesso sbalorditiva, perché si riduceva a questo: invece di una vertiginosa prospettiva di cime d’alberi viste da una elevatissima altura, al di là dell’inferriata si stendeva tutt’intorno, al mio stesso livello, nient’altro che il solido terreno, una compatta superficie di terra interrotta da lapidi marmoree e adorna di colonne anch’esse di marmo, sovrastate dall’ombra di un’antica chiesa di pietra la cui guglia diroccata riluceva spettralmente nel chiarore lunare.

Rimorso postumoSemincosciente, aprii il cancello e, barcollando, m’incamminai lungo il bianco sentiero di ghiaia che si diramava in due diverse direzioni. La mia mente, pur stordita e confusa, conservava tuttavia il desiderio febbrile della luce, e neppure la scoperta incredibile che avevo fatto avrebbe potuto fermare i miei passi.

Non sapevo, né mi premeva saperlo, se l’avventura che stavo vivendo fosse un sogno, magia, oppure frutto della follia. Non aveva importanza alcuna per me, che ero più che mai deciso a contemplare ad ogni costo lo splendore e la gioia. Non sapevo chi fossi, né che cosa fossi, e neppure a quale mondo appartenessi; tuttavia, mentre avanzavo solitario incespicando ad ogni passo, nacque in me la coscienza di una sorta di spaventosa memoria latente che rendeva il mio procedere non del tutto casuale.

Passai sotto un arco che delimitava quella estensione di lapidi e colonne, e mi ritrovai così a vagare in aperta campagna. Talvolta seguivo la strada visibile, ma a tratti me ne allontanavo, seguendo una strana ispirazione, per percorrere prati nei quali ruderi scheletrici testimoniavano l’antica presenza di una strada dimenticata. Attraversai a nuoto il fiume che correva rapido e vi scorsi muscose rovine diroccate, vestigia di un ponte da lungo tempo caduto.

Dovevano esser certamente trascorse più di due ore, quando giunsi a quella che sembrava fosse la mia meta: un antico castello ricoperto d’edera che sorgeva in un parco fitto di alberi. Mi appariva assurdamente familiare, eppure era dotato di sconcertanti stranezze. Osservai che il fossato era stato riempito e che alcune delle torri erano state demolite, mentre nuove ali erano state aggiunte all’edificio per disorientare l’osservatore. Ma ciò che contemplai con sommo interesse e diletto furono le finestre aperte, magnificamente ravvivate dalla luce, dalle quali si udiva provenire l’eco della baldoria più gaia. Mi accostai ad una di esse e guardai dentro: una compagnia di persone curiosamente abbigliate si divertivano e parlavano allegramente tra di loro. Per quel che ne sapevo, non avevo mai udito prima d’allora il linguaggio umano, sicché potevo soltanto intuire quel che dicevano. Alcuni di quei volti recavano espressioni che richiamavano alla mia memoria reminiscenze incredibilmente remote, laddove altre sembianze mi risultavano del tutto estranee.

Scavalcai allora la bassa finestra e penetrai nella sala inondata dalla luce più splendente e, ciò facendo, passai dall’attimo di suprema e fulgida speranza allo spasimo più oscuro della disperazione e della rivelazione. L’incubo fu lesto a venire: allorché fui nella stanza, si verificò immediatamente una delle più terrificanti reazioni che mai avessi concepito. Avevo appena varcato il davanzale, che su tutta la comitiva si abbatté un improvviso e inatteso terrore di spaventosa intensità, tale da sfigurare ogni volto e indurre ogni gola ad emettere le urla più orribili. Tutti fuggirono all’impazzata, e in quell’ondata di panico e confusione, alcuni caddero in terra svenuti e furono travolti dai compagni che scappavano in preda al delirio. Molti si coprivano gli occhi con le mani precipitandosi in una fuga cieca e impetuosa, durante la quale rovesciavano mobili e andavano a cozzare contro i muri, prima di riuscire a guadagnare una delle numerose porte.

Le grida erano raccapriccianti; ed io, rimasto solo e inebetito nella sala splendidamente illuminata, raggiunto dall’eco delle urla che si allontanavano, tremavo al pensiero della minaccia invisibile che forse si celava in agguato presso di me.

Ad una prima occhiata superficiale, la stanza mi parve deserta ma, allorché avanzai verso una delle alcove, mi sembrò di avvertirvi una presenza: un movimento furtivo oltre la porta incorniciata da un arco dorato che sembrava dare accesso ad un’altra stanza identica alla prima.

Mentre mi approssimavo all’arco, cominciai a percepire quella presenza in maniera sempre più distinta; fu allora che, col primo e ultimo suono che la mia gola abbia mai emesso – un ululato spaventoso che mi sconvolse nel profondo quasi quanto ciò che lo aveva provocato – contemplai nella sua più piena e terrificante vivezza l’inconcepibile, indescrivibile e indicibile mostruosità che, al suo solo apparire, aveva trasformato una festosa compagnia in un branco di fuggiaschi deliranti.

Quella cosa, non posso neppure tentare di descriverla. Era un miscuglio di tutto ciò che è immondo, innaturale, ripugnante, abnorme e detestabile. Era lo spettro demoniaco della putrefazione, della decrepitezza e della dissoluzione; la marcia, stillante effigie delle rivelazioni più empie, l’orrenda esibizione di ciò che la terra misericordiosa dovrebbe tenere per sempre celato. Dio sa che non apparteneva a questo mondo – o meglio non vi apparteneva più – eppure, con immenso orrore, riconobbi nei lineamenti corrosi dai quali affioravano le ossa, la parodia aberrante e perversa della forma umana, e in quell’insieme putrido e disfatto, scorsi qualcosa di indicibile che mi agghiacciò ancor di più.

Ero pressoché paralizzato, cionondimeno riuscii a trovare la forza per un pietoso tentativo di fuga; arretrai vacillando di un passo, ma non infransi l’incantesimo nel quale il mostro muto e innominabile mi teneva prigioniero. I miei occhi, stregati da quelle orbite vitree che li fissavano disgustosamente, rifiutavano di chiudersi ma, offuscatisi misericordiosamente dopo il primo sguardo, scorgevano ora quella cosa terribile in maniera indistinta. Mi provai a sollevare la mano onde celare quella visione, ma i miei nervi erano così storditi che il braccio non seppe obbedire appieno alla mia volontà. Il tentativo fu però sufficiente a farmi perdere l’equilibrio, sicché, ondeggiando, avanzai di alcuni passi per evitar di cadere. Allora fui improvvisamente e angosciosamente consapevole della vicinanza di quell’essere-carogna, del quale mi parve di udire il sordo e odioso respiro. Ormai prossimo alla follia, fui tuttavia capace di allungare una mano per respingere la fetida apparizione che mi incalzava così dappresso, quand’ecco che, in un istante di orrore cosmico e di evento infernale, le mie dita toccarono la putrida zampa del mostro tesa al di sotto dell’arco dorato. Non urlai, ma tutti i demoni malvagi che cavalcano i venti della notte urlarono per me, allorché, in quello stesso istante, fui travolto da un’improvvisa e compatta valanga di ricordi che mi annientarono l’anima. Seppi allora tutto ciò che era stato; il ricordo valicò gli alberi e il castello spaventoso e riconobbi l’edificio, pur trasformato, nel quale mi trovavo. Ma, più terribile di tutto ciò, riconobbi l’empia abominazione che mi ghignava davanti mentre ritraevo dalle sue le mie dita insozzate.

Per fortuna nel cosmo, accanto all’amarezza, vi è anche il balsamo per alleviarla, e quel balsamo è il nepente [1]. Nell’orrore supremo, l’oblio mi soccorse, e l’esplosione di quegli oscuri ricordi svanì in un caos di immagini degradanti.

Come in un sogno, fuggii dal maledetto castello stregato e corsi via in silenzio nella luce della luna. Quando tornai al cimitero marmoreo antistante la chiesa e discesi i gradini, non mi riuscì di smuovere la botola di pietra, ma non ne fui rattristato, sì tanto avevo odiato gli alberi e l’antico castello.

Adesso corro con demoni beffardi nel vento della notte, e di giorno mi trastullo tra le catacombe di Nephren-Ka, nella valle cupa e sconosciuta di Hadoth presso il Nilo. So che la luce non è per me, eccetto quella della luna sulle tombe rocciose di Neb, e neppure per me è la gaiezza, eccetto quella delle abominevoli feste di Nitokris ai piedi della Grande Piramide; eppure, nella mia nuova e sfrenata libertà, accetto quasi con gioia l’amarezza dell’alienazione. Perché, pur se l’oblio del nepente ha lenito la mia sofferenza, ugualmente so di essere un estraneo, uno straniero in questo secolo e tra coloro che sono ancora uomini. E lo so da quando ho proteso le dita verso quell’obbrobrio entro la grande cornice dorata: da quando ho proteso le dita e ho toccato la fredda e dura superficie di uno specchio.

[1] nepente: citato da Omero (Odissea, 4, 220-221), è il farmaco che, secondo il senso del suo nome, “dà l’oblio dal dolore” (N.d.C.).

Esercizi di analisi del testo

  1. La vicenda viene narrata dal punto di vista del personaggio. Si tratta però di un’ottica piuttosto limitata, che solo alla fine del racconto permette al lettore di comprendere le caratteristiche del protagonista. Individua nel testo che cosa il personaggio conosce di sé e che cosa non conosce.
  2. Il lettore scopre ad un certo punto del racconto che la voce narrante è quella di un essere mostruoso, di un “estraneo” al genere umano. In quale punto della narrazione lo si capisce?
  3. Il percorso che il protagonista compie per uscire dal castello è un andare indietro nel tempo. In questo “viaggio” egli comprende la drammatica verità: quali sono gli indizi che progressivamente lo avvicinano ad essa? Quale elemento si rivela alla fine decisivo per fargli comprendere la propria identità?
  4. Tra spazio e tempo si può osservare una corrispondenza, segnalata anche dai tempi verbali: il movimento nello spazio è anche un muoversi nel tempo. Stabilisci un ordine cronologico dei fatti rapportandoli agli ambienti descritti.
  5. La descrizione dell’ambiente è centrata su quattro elementi: i due castelli e il cimitero, l’Egitto (il Nilo). Rilevane le caratteristiche. Quali sono gli elementi tipici del genere horror che riscontri nelle descrizioni?
  6. L’autore utilizza vari elementi per creare suspense. I più evidenti sono i rallentamenti descrittivi e il non detto: individuali.
  7. La scena che si svolge nel secondo castello ricorda il racconto La maschera della morte rossa di Edgar Allan Poe. Spiega perché.
  8. Lovecraft, cresciuto in un ambiente familiare poco felice, trascorse un’infanzia in totale solitudine e fu costretto ad affrontare in giovane età terribili difficoltà economiche. Alla luce di questa considerazione, quale ti sembra essere il significato del racconto?

 

 

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