Leopardi – La formazione e il pensiero

Leopardi – La formazione e il pensiero

 

La formazione giovanile di Leopardi si realizza prevalentemente attraverso la lettura dei classici e degli scrittori illuministi, mentre la conoscenza di autori romantici, pur rilevante, è più limitata. Inizialmente l’assimilazione è prevalentemente enciclopedica ed erudita, poi più meditata e personale.Quando Leopardi giunge, dopo la crisi del 1819, a una prima definizione del suo pensiero, la sua concezione del mondo è quella che comunemente si definisce di pessimismo storico. Egli riflette sul divario tra i sogni della fanciullezza e le sue presenti sofferenze, che lo condannano a un futuro d’infelicità. Tale condizione di sofferenza individuale viene dal poeta collocata nell’ambito della condizione esistenziale dell’uomo: influenzato dal pensiero di Rousseau, Leopardi è convinto che l’infelicità sia condizione propria dell’uomo moderno, cui la civiltà ha sottratto le illusioni e la possibilità di aprirsi a passioni magnanime, di cui la Natura lo aveva fornito mediante l’immaginazione. Analogamente l’età adulta, svelando la realtà di malattia e di morte che l’uomo porta in sé, preclude al singolo individuo le fantasticherie infantili. L’uomo stesso, allontanatosi dal felice stato di natura, ha in parte causato o accentuato la propria infelicità, mentre la natura, “madre” benevola, condurrebbe alla felicità. L’età primitiva e l’infanzia sono epoche della vita storica e individuale dell’uomo in cui egli è stato o è meno infelice perché capace di illudersi, perché disposto all’immaginazione e alla fantasia; il progresso e l’età adulta sono invece epoche di disillusione, di scoperta delle verità filosofiche sgradevoli, di infelicità e angoscia.

Nel corso degli anni successivi, Leopardi metterà in discussione questa concezione, giungendo a quello che è stato definito pessimismo cosmico. Nelle Operette morali egli passa a una concezione radicalmente negativa della natura: non esiste uno stato felice di natura da cui l’uomo si sarebbe allontanato. La natura, preoccupata esclusivamente del perenne ciclo di produzione e distruzione della materia, che caratterizza l’esistenza universale, non si preoccupa minimamente della sorte degli individui. Non solo l’infinito desiderio di piacere e di felicità che caratterizza l’uomo è impossibile da realizzare, ma la natura colpisce tutti gli esseri viventi con innumerevoli sofferenze, destinandoli inevitabilmente alla morte.

Il male caratterizza l’esistenza universale. La ragione, in precedenza considerata come una delle cause dell’infelicità umana, tende ora ad apparirgli come un efficace strumento conoscitivo, capace di svelare le contraddizioni della realtà. Essa non può condurre l’uomo alla felicità, ma può contribuire a renderlo consapevole della propria condizione, liberandolo dalle false credenze, dalla superbia di chi si crede misura e fine dell’universo e dall’umiliazione di chi implora una pietà che gli è inevitabilmente negata. L’esito di quest’analisi così desolata del male di vivere non è, come si potrebbe pensare, quello del suicidio ma una “morale eroica“, che accetta la fatica della vita: la constatazione della sofferenza universale deve produrre in noi un sentimento di pietà per tutti gli esseri viventi e vederci uniti fraternamente contro la natura, comune nemica.

Si è discusso a lungo della “filosofia” di Leopardi, talvolta per negarne la validità, come fece Croce che definì pseudofilosofia il suo pessimismo, di cui sarebbe responsabile la “vita strozzata” e l’ “offesa base fisiologica”. Appare più equilibrata l’interpretazione di Timpanaro, secondo il quale nel poeta l’esperienza della deformità e della malattia non restò “motivo di lamento individuale”, ma “divenne un formidabile strumento conoscitivo”, con cui egli seppe guardare, più a fondo di tanti altri, la realtà.

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