Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio.

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Giacomo Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio

[Testo parafrasato]

Plotino non trova argomenti razionali tali da dissuadere l’amico Porfirio dall’idea del suicidio. Quel che gli resta è un affettuoso appello alla sua umanità, alla sua amicizia, all’amore per le persone che gli sono vicine, cui arrecherebbe un grande dolore togliendosi, egoisticamente, la vita.

 

Un giorno pensai di togliermi la vita. Il mio amico Plotino se ne accorse mi disse di non farlo, perché magari ero solo depresso e mi sarebbe passata. Ne nacque questo dialogo tra noi.

Plotino. Porfirio, tu sai quanto ti sono amico e quanto mi stai a cuore. Da più giorni ti vedo triste e pensieroso. Dal tuo sguardo e dalle tue parole capisco che tu hai una cattiva intenzione. 

Porfirio. Come, che vuoi dire?

Plotino. Una cattiva intenzione contro te stesso, che a nominarla è di cattivo augurio. Non negare, Porfirio mio, non offendere l’amore che da tanto tempo ci unisce. Capisco che tu volessi nascondermi questo proposito, ma io non potevo tacere su una cosa tanto grave. Parliamone insieme con calma, e cerchiamo di capirne le ragioni. Sfogati e piangi pure con me, e alla fine non ti impedirò di fare quello che troveremo insieme che sia ragionevole e utile. 

Porfirio. Non ti ho mai nascosto qualcosa che tu mi chiedessi, Plotino mio. E ora ti confesso quello che avrei voluto tener segreto, e che non confesserei ad altri per alcuna ragione al mondo. Quel che tu immagini è la verità. Se ti piace che noi ragioniamo di quest’argomento, anche se il mio animo non vorrebbe perché queste decisioni si prendono in silenzio, e la mente ama essere solitaria e chiusa in sé, facciamolo pure. Anzi comincerò io stesso e ti dirò che questa mia decisione non è causata da alcuna sciagura presente o futura. Solo, provo fastidio per la vita. Un tedio così forte da essere simile a dolore e spasimo. Esso deriva dalla consapevolezza concreta, che tocco con mano ogni giorno della vanità di ogni cosa. Di modo che non solo il mio intelletto, ma tutti i sentimenti e il mio stesso corpo, sono pieni di questa vanità. 

Non potrai negare che questa mia propensione sia ragionevole, anche se posso concederti che essa possa essere causata da un qualche malessere del corpo. Tuttavia, è molto ragionevole: anzi tutte le altre tendenze degli uomini, per le quali si vive e si ritiene che la vita e le cose umane abbiano un significato sono lontane dalla ragione e basate sull’inganno e l’illusione. 

Nessuna cosa è più ragionevole della noia. I piaceri sono tutti vani. Il dolore dell’animo, per lo più è vano, inconsistente. Lo stesso dicasi per il timore e la speranza. Solo la noia, che sempre nasce dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno né mai fondata sul falso. Ed essendo tutto il resto vano, quel che c’è di reale ed essenziale nella vita degli uomini si riduce alla noia.

Plotino. E sia. Non voglio contraddirti in questo. Ma consideriamo il tuo proposito. Platone sostiene, come tu ben sai, che all’uomo non è lecito, come un servo fuggitivo, sottrarsi al carcere nel quale si trova per volontà degli Dei, cioè privarsi della vita spontaneamente. 

Porfirio. Ti prego, Plotino mio, lasciamo da parte adesso Platone, e le sue dottrine, e le sue fantasie. Un conto è lodare, commentare, difendere certe opinioni nell’insegnamento e nei libri, un altro è seguirle nella pratica. Nell’insegnamento e nei libri, ho dovuto in qualche modo approvare i sentimenti di Platone e seguirli, dato che tale è l’usanza oggi. Nella vita, non solo non li approvo ma li detesto.

Si dice che Platone suggerisse nei suoi scritti certe teorie sulla vita dopo la morte, affinché gli uomini temessero pene e tormenti, trattenendosi così dal compiere ingiustizie e azioni malvagie. Se così fosse, gli direi: guarda Platone, quanto la natura, il destino o la necessità o qualunque sia la potenza creatrice dell’universo si mostrano nemici perenni della nostra specie. Agli uomini si potrà contestare quel primato che per tanti aspetti ci arroghiamo di avere sugli altri animali, ma per nessuna ragione si potrà togliere loro il primato loro attribuito da Omero,  quello dell’infelicità. 

Tuttavia la natura ci ha riservato per medicina di tutti i mali la morte, che usando un po’ il cervello, sarebbe ben poco da temere, forse anche da desiderare. Sarebbe una dolcissima consolazione per la nostra vita, piena di tanti dolori, l’attesa e il pensiero della nostra fine. Con questo dubbio terribile, suscitato da te nelle menti degli uomini, hai tolto da questo pensiero ogni dolcezza, e l’hai reso il più amaro di tutti gli altri.

Per questo gli infelicissimi mortali temono più il porto che la tempesta, e rifuggono da quell’unico rimedio per le angosce e le sofferenze della vita. Tu sei stato per gli uomini più crudele che il fato, la necessità o la natura. E non essendo possibile sciogliere questo dubbio in alcun modo né le menti nostre esserne liberate, li hai indotti a credere che la morte sarà piena di sofferenze, peggio della vita. Così, per colpa tua, mentre gli animali muoiono senza alcun timore, la quiete è per sempre esclusa dall’ultima ora dell’uomo. Questo mancava, o Platone, a tanta infelicità della specie umana. 

A parte che lo scopo di trattenere gli uomini dalle violenze e dalle ingiustizie non si è realizzato. Infatti, quei dubbi e quelle credenze spaventano tutti gli uomini in punto di morte, quando ormai non sono più in grado di nuocere. Nel corso della vita, spaventano frequentemente i buoni, che non intendono nuocere, ma fare del bene; spaventano le persone timide e le deboli di corpo, non inclini per natura alle violenze e alle iniquità. Ma i coraggiosi e i vigorosi e quelli che hanno poca immaginazione, oppure quelli che hanno bisogno di ben altro freno che della sola legge non li spaventano né li trattengono dal fare il male come possiamo constatare tutti i giorni e come ci dice con evidenza la storia di tutti i tempi.

Le buone leggi, l’educazione, la cultura fanno crescere nella società la giustizia e la bontà. Infatti, gli animi civilizzati e ragionevoli, quasi sempre ripudiano istintivamente la violenza e qualsiasi altro danno causato agli altri. Inoltre, raramente corrono i rischi derivanti dal trasgredire la legge.

Invece non producono affatto questo buon effetto le minacce immaginarie e le convinzioni angosciate di aspre e spaventose punizioni. Anzi, come accade ai più, la crudeltà delle pene messe in atto dagli stati non fa che accrescere in alcuni la viltà d’animo e in altri la ferocia, che sono le principali nemiche e cause di disgrazia per l’umana convivenza. Tu hai anche promesso, in primo luogo, una ricompensa ai buoni. Ma quale ricompensa? Una condizione che ci appare piena di noia e ancora meno sopportabile di questa vita. È chiara a ciascuno l’asprezza delle pene da te prospettate, ma la dolcezza dei premi da te promessi è oscura e misteriosa, tale da non poter essere compresa da mente umana. Di conseguenza siffatti premi non possono avere alcuna efficacia per indurci alla rettitudine e alla virtù.

E in verità, se ben pochi delinquenti si astengono dal compiere azioni malvagie per paura del tuo spaventoso Tartaro (Inferno), sono altrettanto certo che gli uomini buoni, in nessun loro gesto, siano indotti a ben operare per il desiderio del tuo Eliso (Paradiso). Quest’ultimo non ha un aspetto desiderabile per la nostra immaginazione. Sarebbe inoltre di molto lieve conforto persino l’aspettativa certa di questo bene, di cui tu hai lasciato solo la speranza ai virtuosi e ai giusti. Se quel tuo Minosse e quei tuoi Eaco e Radamanto (Platone cita come giudici dell’Ade Minosse, Radamante, Eaco e Trittolemo), giudici rigidissimi e inesorabili, non sono disposti a perdonare alcuna ombra o minimo residuo di colpa? Qual è l’uomo che possa sentirsi così esente da colpe e puro come tu richiedi? Sicché il conseguimento di quella fantomatica felicità diventa quasi impossibile. E non basterà la coscienza della più retta e travagliata vita a proteggere gli uomini dall’incertezza della loro condizione futura e dalla paura dei castighi.

Così, per colpa delle tue dottrine il timore, superata di gran lunga la speranza, è reso dominatore dell’uomo. E il risultato di tali dottrine alla fin fine è questo: il genere umano, esempio straordinario d’infelicità in questa vita, non si aspetta che la morte metta fine alle sue miserie ma che dopo di essa sarà molto più infelice. E con questo tu hai superato in crudeltà non solo la natura e il fato (destino) ma il più crudele dei tiranni e il più spietato dei carnefici mai esistiti al mondo. A quale barbarie si può paragonare quel tuo dogma secondo cui all’uomo non sarebbe lecito mettere fine alle proprie sofferenze, ai propri dolori, alle proprie angosce, vincendo l’orrore della morte e privandosi volontariamente dello spirito vitale?

Certo, non troviamo negli altri esseri viventi il desiderio di mettere fine alla vita. Ma questo accade perché la loro infelicità è molto minore di quella dell’uomo. E che non avrebbero neanche il coraggio per togliersi la vita spontaneamente. Ma se queste disposizioni d’animo facessero parte della natura degli animali, essi non avrebbero alcun ostacolo al poter morire. Nessun divieto, nessun dubbio toglierebbe loro la facoltà (possibilità) di sottrarsi ai mali che li tormentano. Ecco quindi che tu ci rendi anche per quest’aspetto inferiori agli animali. Infatti, quella libertà che gli animali potrebbero usare se volessero e che la natura stessa, tanto avara verso di noi, non ci ha negato, viene meno nell’uomo per causa tua. Di modo che l’unico genere fra gli esseri viventi che sia capace di desiderare la morte, solo quello non ha la potestà di morire.

La natura, il destino e la fortuna ci flagellano di continuo crudelmente, con nostro strazio e dolore inestimabili. Tu accorri e ci leghi strettamente le braccia e ci incateni i piedi, impedendoci di difenderci e di sottrarci ai loro colpi. In verità, quando considero l’enorme infelicità umana, penso che di essa dobbiamo incolpare le tue dottrine più di qualsiasi altra cosa. E che gli uomini debbano molto più lamentarsi di te che della natura. La quale, sebbene a dire il vero ci abbia riservato una vita infelicissima, ci ha d’altro lato lasciato la possibilità di mettere fine a essa, qualora non ci piacesse.

In primo luogo perché non si può sostenere che sia poi così grande quella miseria (sofferenza) che, solo che io lo voglia, può avere una durata brevissima. Inoltre, anche se un individuo in effetti non decidesse veramente di lasciare la vita, il solo pensiero di potersi sottrarre alle proprie sofferenze a proprio piacimento sarebbe di tale conforto e alleggerimento di qualunque disgrazia da rendere facile sopportarle. Di modo che il peso intollerabile della nostra infelicità non deriva che da questo dubbio (indotto da Platone e dalla religione) di poter sventuratamente incorrere in una miseria maggiore togliendosi volontariamente la vita.

E non solo maggiore (riferito a una miseria) ma incomparabilmente più atroce e lunga, tanto che, benché il presente sia certo e quelle pene siano incerte, il timore di esse prevale incomparabilmente e di gran lunga sul sentimento di qualsivoglia sofferenza (male) di questa vita. 

Questo dubbio, o Platone, è stato per te facile suscitarlo, mentre sarà estinta la specie umana prima che si sia dissolto. Perciò nessuna cosa passata o futura appare più sventurata e atroce (funesta) per la specie umana del tuo ingegno. Queste cose io direi, se credessi che Platone fosse stato l’autore o l’inventore di quelle dottrine. Anche se so benissimo che in realtà non lo fu. In ogni modo, su questo argomento si è detto abbastanza, e vorrei che lo accantonassimo. 

Plotino. Porfirio, veramente come tu sai io amo Platone. Ma non voglio conversare rifacendomi alla sua autorità. Soprattutto poi con te e su una tale questione! Voglio parlare con te secondo ragione. E se ho citato di sfuggita quel parere di Platone l’ho fatto come premessa per altre considerazioni. E riprendendo il ragionamento che avevo in animo, affermo che non solo Platone o qualche altro filosofo, ma la natura stessa sembra insegnarci che toglierci dal mondo di nostra sola volontà non sia una cosa lecita. Non occorre che io mi dilunghi su questo punto, perché se ci pensi non puoi non riconoscere che l’uccidersi con le proprie mani senza necessità è contro natura. Anzi, è l’atto più contro natura che si possa compiere. Perché tutto l’ordine delle cose sarebbe sovvertito se esse si distruggessero da sole. E sembra che susciti avversione che un individuo si avvalga della vita per spegnere la vita stessa, che l’essere sia messo al servizio del non essere. Senza contare che, se qualcosa ci è intimata e comandata dalla natura, non solo agli uomini ma a tutte le creature è certamente di dedicarsi alla propria conservazione e di provvedere a essa in tutti i modi possibili. Il che è appunto il contrario dell’uccidersi.

E senza bisogno di altre argomentazioni, non percepiamo forse in noi una disposizione naturale che ci induce a odiare la morte, a temerla, ad averne orrore, nostro malgrado (contro la nostra stessa volontà)? Di conseguenza, poiché l’uccidersi è contro natura, e tanto contrario, come possiamo constatare, non saprei dire se esso sia lecito. 

Porfirio. Ho già considerate queste tue riflessioni, che come hai detto è impossibile che l’animo umano non percepisca, solo che si fermi a riflettervi. Mi sembra che alle tue argomentazioni si possa replicare con molte altre e in più modi. Ma cercherò di essere breve. Tu dubiti se sia lecito morire senza necessità. Io ti chiedo se sia lecito essere infelici. La natura vieta l’uccidersi. Troverei singolare che non volendo o non potendo rendermi felice o almeno libero dalla sofferenza avesse il potere di obbligarmi a vivere.

Certamente se la natura ha generato in noi amore per la nostra conservazione e odio per la morte, allo stesso modo ha generato in noi odio per l’infelicità e amore per il nostro bene. Anzi, queste ultime inclinazioni sono ancor maggiori delle prime. Infatti la felicità è lo scopo di ogni nostra azione e di ogni nostro amore e odio. Non si rifugge la morte e non si ama la vita in se stessa, ma per riguardo e amore del nostro meglio e per odio del nostro dolore e della nostra sofferenza (danno).

Come dunque può essere contrario alla natura che io mi sottragga all’infelicità nel solo modo che gli uomini hanno per sfuggirle? Cioè quello di togliermi dal mondo. Perché mentre sono in vita non la posso evitare. Come può essere che la natura mi vieti di aggrapparmi alla morte, che senz’altro è il mio meglio, e (che mi vieti) di rifiutare la vita che palesemente è per me dannosa e dolorosa, poiché non riesce ad altro che a farmi soffrire e mi volge inevitabilmente e concretamente a questo?

Plotino. In ogni caso queste considerazioni non mi convincono che l’uccidersi da sé non sia contro natura. Questo perché la nostra percezione manifesta troppa contrarietà e ripugnanza per la morte. E poi possiamo vedere che gli animali, che se non sono costretti o condizionati dagli uomini si comportano sempre secondo natura, non solo non compiono mai questo atto (dell’uccidersi) ma per quanto siano sofferenti e infelici si mostrano ad esso completamente estranei. Infine, l’uccidersi lo si trova solo tra chi vive in solitudine, non invece tra quelle popolazioni che hanno un modo di vivere naturale. Tra esse non si troverebbe nessuno che non lo avversi aspramente (il suicidio) ammesso che ne abbia una qualche conoscenza o capacità di concepirlo. (Troviamo il suicidio) solo nelle nostre società degenerate e corrotte, che non vivono secondo natura.

Porfirio. Ebbene voglio concederti che quest’azione sia contraria alla natura, come tu dici. Ma che valore ha questo, se noi non siamo affatto creature naturali? Mi riferisco agli uomini civilizzati. Mettiamoci a confronto, non dico con gli esseri viventi di qualsiasi specie ma con quei popoli che vivono in India o in Etiopia. Di questi si dice che conservino modi di vita primitivi e selvaggi, tanto che a fatica si potrà dire che appartengano alla nostra stessa specie. Ma sono fermamente convinto che questa nostra evoluzione, questo cambiamento dello stile di vita e soprattutto dell’animo siano accompagnati da un enorme accrescimento dell’infelicità. Certamente quelle popolazioni primitive non sentono mai il desiderio di porre fine alla vita né immaginano che la morte si possa desiderare. Mentre invece i cosiddetti uomini civilizzati la desiderano moltissime volte e talvolta se la procurano.

Ebbene, se è lecito all’uomo civilizzato vivere contro natura e contro natura essere così infelice, perché non gli dovrebbe essere lecito morire contro natura? Anche perché da questa particolare infelicità che deriva dall’alterazione della nostra condizione non possiamo liberarci in altro modo che con la morte.

Infatti ritornare a quello stato primitivo e alla vita prefigurata per noi dalla natura non si potrebbe se non con enorme difficoltà e forse per nulla quanto agli aspetti esteriori, e certamente per quanto riguarda l’interiorità del nostro animo, che è l’aspetto più rilevante, non è assolutamente possibile.

C’è forse qualcosa di meno naturale della medicina? Tanto di quella che si esercita con la mano quanto di quella che opera per mezzo di farmaci. L’una e l’altra in gran parte lontanissime dalla natura, nelle operazioni che compiono, nelle materie, negli strumenti e nei modi che usano. Gli animali e i selvaggi non le conoscono. Tuttavia, anche le malattie alle quali esse intendono rimediare, sono innaturali e non esistono se non a causa della civiltà, cioè della degenerazione della nostra condizione. Perciò queste arti, benché non siano naturali, sono e sono ritenute opportune e persino necessarie.

Così questo atto dell’uccidersi , che ci libera dall’infelicità arrecataci dalla corruzione, per il fatto di essere contrario alla natura non deve per questo essere biasimato, poiché per mali non naturali è necessario un rimedio non naturale. 

E sarebbe veramente crudele e ingiusto che la ragione, che per renderci più infelici di quel che siamo per natura è solita contrastare la natura nelle altre cose, in questa si alleasse con lei per toglierci l’unica via di scampo che ci rimane, quella sola via che la ragione stessa ci mostra, e per costringerci a perseverare nell’infelicità. 

La verità è questa, Plotino. Quella natura primitiva degli uomini antichi e delle popolazioni primitive e incolte non è più la nostra natura. Il nostro stile di vita e la ragione hanno creato in noi un’altra natura, che ha definitivamente sostituito quella originaria. Inizialmente non era naturale per l’uomo procurarsi la morte volontariamente e neppure desiderarla. Oggi invece sono due inclinazioni naturali, conformi alla nostra nuova natura. Essa ancora tende e si muove necessariamente, come l’antica, verso quel che appare come il meglio per noi e fa sì che molte volte desideriamo e cerchiamo la morte, cioè quello che è il maggior bene per l’uomo. E non c’è da stupirsi di questo, perché questa seconda natura è governata e diretta principalmente dalla ragione.

Quest’ultima ci mostra con certezza che la morte non è veramente un male, come sembra alla percezione primitiva, ma che anzi è il solo rimedio possibile per i nostri mali, la migliore e più desiderabile per gli uomini. Dunque io chiedo: gli uomini civilizzati agiscono in base alla loro natura primitiva? Quando mai? Sono mossi non dalla natura primordiale ma dalla nostra attuale natura, in altri termini dalla ragione. Perché allora il criterio di giudizio di questo solo atto del togliersi la vita dovrebbe essere secondo la natura primordiale e non secondo la nostra nuova natura, ovvero la ragione? Perché la natura primitiva, che non regola più la nostra vita, dovrebbe regolare la morte? Perché la ragione non dovrebbe governare la morte, dato che governa la vita? 

E infatti vediamo che tanto la ragione quanto l’infelicità del nostro stato presente, in particolare nelle persone sfortunate e sofferenti, non solo fanno cessare del tutto la repulsione congenita della morte di cui parlavi, ma la mutano in desiderio e amore per essa. E una volta nati questo desiderio e questo amore, che secondo la nostra (prima) natura non sarebbe potuto nascere, ed essendo la nostra infelicità generata dalla nostra degenerazione (alterazione) e non voluta dalla natura, sarebbe una conclusione avversa e contraddittoria che ancora vigesse il divieto naturale di uccidersi. Questo mi pare che basti, quanto al sapere se uccidere se stessi sia lecito. Resta semmai da vedere se sia utile.

Plotino. Di questo non occorre che tu mi parli, Porfirio mio. Infatti se quest’azione è lecita (poiché se non fosse giusta e retta non potrebbe per me essere utile), io non ho dubbi che sia utilissima. Infatti la questione si riduce a questo: quale delle due cose sia migliore, il non soffrire o il soffrire. So bene che il piacere unito al soffrire sarebbe verosimilmente preferito da quasi tutti gli uomini, piuttosto che il non patire ma anche il non godere. Tanto è grande il desiderio, per così dire la sete che il nostro animo ha del piacere. Ma la decisione non riguarda questi due termini. Infatti il piacere, propriamente e correttamente parlando, è tanto impossibili quanto il soffrire è inevitabile. E parlo di un soffrire così continuo come continuo è il desiderio e il bisogno che abbiamo del piacere e della felicità, che non sono mai appagati. 

Questo senza considerare i patimenti singoli e occasionali che capitano a ogni uomo e che sono altrettanto certi. Voglio dire che debbano capitare a ciascuno (in misura maggiore o minore, di un tipo o di un altro), persino nella più avventurosa delle vite del mondo. E in verità, anche un solo e breve patimento che l’individuo sia certo che, continuando a vivere, gli accadrà, sarebbe sufficiente a rendere, secondo ragione, la morte preferibile alla vita. Perché esso non avrebbe alcuna compensazione, non potendo capitare nella nostra vita un bene o un piacere vero.

Porfirio. A me sembra che la noia (il tedio, il senso di insoddisfazione e di vanità della vita) stessa, e il ritrovarsi privi di una condizione e di una sorte migliore, siano cause sufficienti a generare il desiderio di mettere fine alla vita, anche per chi si trovi in uno stato e in una condizione non solo non cattiva ma prospera. E più volte mi sono meravigliato che in nessun testo scritto si faccia menzione di sovrani che abbiano voluto morire solamente per tedio e per sazietà del loro stato, come invece oggi quotidianamente si legge a proposito di persone comuni. Così come volevano coloro che udito Egesia, filosofo pirenaico, tenere le sue lezioni sulla miseria della vita, che dopo il suo insegnamento (uscendo della scuola) andavano a uccidersi. Tanto che Egesia fu soprannominato il persuasore di morire. Si dice poi, come credo che tu sappia, che alla fine il re Tolomeo gli vietò di trattare quell’argomento nelle sue lezioni.

Sebbene alcuni autori riferiscano del re Mitridate, di Cleopatra, di Ottone romano e di un certo numero di altri sovrani che uccisero se stessi, essi tuttavia vi furono indotti dalle condizioni avverse in cui si trovarono e per evitarne di peggiori. Ora a me sembra invece che i sovrani più facilmente delle persone comuni possano maturare odio per la loro condizione e fastidio per tutte le cose e quindi che desiderino morire. Poiché essi si trovano al vertice di quella che può chiamarsi la felicità umana, e possono quindi sperare di acquisire ben pochi o forse nessuno dei beni che si cercano nella vita (poiché li possiedono tutti), non possono prefiggersi un domani migliore dell’oggi. E il presente è sempre misero e sgradevole, per quanto possa essere fortunato, mentre solo il futuro può generare piacere. 

In ogni caso, alla fine, possiamo constatare che (se si eccettua il timore delle pene dell’aldilà) quello che trattiene gli uomini dall’abbandonare la vita volontariamente e che li induce ad amarla e a preferirla alla morte non è altro che un evidentissimo errore, per così dire, di calcolo e di misura. Un errore cioè che si commette nel calcolare, nel misurare e nel confrontare fra loro i vantaggi e gli svantaggi (danni). Quest’errore si ripete altrettante volte quanti sono i momenti nei quali ciascuno sceglie la vita, ovvero acconsente a vivere e se ne accontenta, che ne sia consapevole o meno.

Plotino. È veramente così, Porfirio mio. Tuttavia lascia che io ti consigli, e sopporta anche che ti preghi, a proposito di questa tua intenzione, di ascoltare piuttosto la natura che la ragione. Intendo dire quella natura primitiva, quella madre nostra e dell’universo che sebbene non mostri di amarci e ci abbia fatto infelici, tuttavia è stata assai meno nemica e malvagia di quanto non siamo stati noi col nostro intelletto, con la nostra continua e smisurata curiosità, con le nostre speculazioni, con i nostri discorsi, sogni, opinioni e misere dottrine. In particolare si è sforzata di medicare la nostra infelicità nascondendocela o facendola apparire diversa. E per quanto l’alterazione della nostra natura sia grande e sia diminuita in noi la potenza della natura, tuttavia questa non è annullata e noi non siamo cambiati al punto che non resti in noi gran parte dell’uomo antico. Non potrà essere altrimenti, nonostante la nostra grande stoltezza.

Ecco, questo che tu chiami errore di calcolo è effettivamente un errore, non meno grande che tangibile. Eppure gli uomini lo commettono continuamente, e non solo gli stupidi e gli idioti, ma anche persone intelligenti, colte e sagge. E lo commetteranno eternamente, a meno che la natura, che ha creato il genere umano, non decida essa stessa di sopprimerlo, non la ragione o la volontà degli uomini.

Credimi: non c’è fastidio della vita, disperazione, senso della nullità delle cose, della vanità degli affetti, della solitudine dell’uomo, né odio del mondo e di se stessi che possa durare a lungo, anche se questi sentimenti sono pienamente fondati mentre quelli contrari no. Infatti, passato un po’ di tempo, cambiata la condizione del corpo, poco a poco, e talvolta rapidamente, per motivi impercettibili, rinasce il gusto della vita, nasce ora questa ora quella speranza nuova. Così, le cose umane riacquistano la loro parvenza di essere degne di qualche attenzione. Non per l’intelletto, ma per l’animo. Basta questo per far sì che, benché sia consapevole della verità e malgrado la ragione, l’individuo continui a vivere la propria vita come tutti gli altri, perché è il sentimento e non la ragione che ci governa. 

Ammettiamo pure che sia ragionevole l’uccidersi, che sia contro natura disporre l’animo a vivere, tuttavia certamente è un atto crudele e disumano. E non è da preferire né da scegliere di essere un mostro secondo ragione, piuttosto che un uomo secondo natura. Inoltre, perché non dovremmo avere nessuna considerazione per gli amici, per i consanguinei, per i figli, per i fratelli, per i genitori, per la moglie, per le persone di famiglia con cui siamo soliti vivere da tempo? Morendo le lasceremmo per sempre. Non sarebbe forse questa separazione un dolore per il nostro cuore?

Inoltre, non dovremmo considerare quello che essi proverebbero, sia per la perdita di una persona cara cui sono affezionati sia per il modo con cui l’avrebbero perduta? So bene che l’animo del sapiente non deve essere troppo tenero, né lasciarsi vincere dalla pietà e dal dolore al punto da esserne turbato, né che deve abbattersi, cedere ed essere vile o abbandonarsi alle lacrime o a gesti non degni di chi conosce con chiarezza la condizione umana. Tuttavia, questa fermezza d’animo va usata nelle tristi circostanze riservateci dal destino e inevitabili. Non va sprecata privandoci di nostra volontà e per sempre della vista, del colloquio e della presenza dei nostri cari.

Non provare dolore per la separazione e per la perdita dei parenti, degli amici, dei compagni, non provare per questo alcun dolore, non è proprio di un uomo sapiente ma selvaggio. Non curarsi di provocare dolore, con il suicidio, negli amici e nei famigliari è proprio di persona che si preoccupa solo di sé e non degli altri. In realtà, chi si uccide non si preoccupa degli altri ma segue solo il proprio interesse. Si butta alle spalle il suo prossimo e tutto il genere umano, tanto che in questo gesto del privarsi della vita emerge il più sincero, il più squallido o certo il meno bello e meno nobile amore per se stessi che ci sia al mondo.

Infine, Porfirio mio, i fastidi e i mali della vita, benché molti e incessanti, quando non sono dovuti a casi sfortunati, a disgrazie straordinarie o a intollerabili dolori fisici, come capita a te oggi, non sono difficili da sopportare, specialmente per un uomo saggio e forte quale tu sei.

La vita è cosa di tale modesto rilievo che l’uomo non dovrebbe affannarsi né a trattenerla né a lasciarla. Perciò, per poco che ne abbia motivo, l’uomo dovrebbe propendere più alla prima soluzione che alla seconda. Se poi un amico lo prega di far questo, perché non dovrebbe compiacerlo?

Ora, io ti prego con tanto affetto, Porfirio mio, per il ricordo degli anni della nostra amicizia, durata fino a oggi, abbandona il tuo proposito. Non voler essere causa di grande dolore per gli amici che ti sono più cari, che ti amano con tutta l’anima e per me, che non ho persona più cara né compagnia più dolce.

Aiutaci piuttosto a sopportare la vita, piuttosto che abbandonarci, senza curarti di noi. Viviamo, Porfirio mio, e diamoci conforto reciproco. Non rifiutiamo di portare quella parte dei mali della nostra specie che il destino ha stabilito per noi. Cerchiamo piuttosto di tenerci compagnia, facciamoci a vicenda coraggio, aiutiamoci l’un l’altro per compiere nel modo migliore questa fatica della vita. La quale senza dubbio sarà breve. E quando giungerà la morte, allora non ce ne lamenteremo, e anche in quell’estremo frangente gli amici e i compagni ci conforteranno e ci rallegrerà il pensiero che, dopo la nostra morte, essi molte volte ci ricorderanno e ci ameranno ancora.

Analisi del testo

Plotino cerca di dissuadere Porfirio dal togliersi la vita ma si rende progressivamente conto della difficoltà di trovare argomenti razionali per convincere l’amico a desistere dal suo proposito.

Nella prima parte del dialogo Porfirio, in polemica con il filosofo Platone, contesta le argomentazioni di tipo religioso contro il suicidio: il timore dell’aldilà non è utile né come deterrente per i malvagi che restano, in ogni caso, malvagi, né come premio per spingere i buoni al bene. Il timore dell’aldilà è anzi un crudele e vile inganno. Infatti gli uomini, per il timore delle pene che potrebbero subire dopo la morte, decidono di non commettere quel gesto che li libererebbe dai mali che li affliggono.

Inoltre, sostiene Porfirio, replicando alle tesi di Plotino, il suicidio non è neppure contro natura. È vero, infatti, che ogni essere vivente tende alla propria conservazione, ma è altrettanto vero che ricerca soprattutto la felicità. Non tanto teme, quindi, la morte in sé ma il dolore e il male.Poiché la morte è l’unico modo per sfuggire all’infelicità e alla sofferenza, sarebbe profondamente ingiusto che la ragione, che ci mostra questa come unica via di fuga, ci impedisse poi di percorrerla. 

Inoltre, se è lecito all’uomo incivilito vivere contro natura, come continuamente fa, perché non dovrebbe essere lecito morire contro natura? La nostra natura, infatti, non è più quella primitiva, degli uomini antichi ma è dominata dalla ragione, che individua nella morte il solo rimedio ai nostri mali. La natura originaria degli uomini aborriva il suicidio, non quella degli uomini civilizzati, che spesso la desiderano.

Di fronte alle ineccepibili argomentazioni di Porfirio, che ha confutato punto per punto i suoi tentativi di convincerlo, Plotino riconosce le ragioni dell’amico. 

Egli rivolgere allora all’amico un accorato, affettuoso appello. Forse è ragionevole l’uccidersi, sostiene Plotino, ma è inumano e crudele, perché la morte ci separa da chi amiamo e da chi ci ama, e questo è ulteriore fonte di dolore. La fermezza d’animo deve servirci ad affrontare con coraggio le situazioni difficili e dolorose, non per ignorare il dolore che produrremmo, uccidendoci, negli amici, nei parenti e in tutti coloro che ci sono vicini. Chi si uccide fa una scelta egoista, perché non pensa che a se stesso. I mali della vita, se non vi sono gravi disgrazie, si possono sopportare e la vita è una cosa tanto piccola che non vale la pena di preoccuparsene troppo, né per conservarla né per lasciarla. Piuttosto che abbandonare gli amici, è meglio aiutarli a sopportare la vita, accettando quella parte di male che il destino ci assegna. Dobbiamo vivere e confortarci a vicenda, aiutandoci scambievolmente per “compiere (…) questa fatica della vita”. Quando verrà la morte non ce ne lamenteremo, gli amici ci conforteranno e dopo che saremo morti ci ricorderanno e ameranno ancora.

Esercizi di analisi del testo

  1. Nella parte iniziale del dialogo Porfirio spiega a Plotino le ragioni che lo hanno indotto al proposito di suicidarsi. Quali sono?
  2. Plotino, citando Platone, ricorda all’amico che il filosofo sosteneva come il suicidio fosse contrario alla religione. Spiega quali sono le argomentazioni che Porfirio adduce per contrastare tale tesi.
  3. Quali argomentazioni adduce Porfirio per contestare la tesi che il suicidio sia “contro natura”?
  4. Plotino, a un certo punto del dialogo, si rivolge all’amico in nome del sentimento e non della ragione. Quali sono le riflessioni che ne derivano?

Testo originale del Dialogo di Plotino e di Porfirio

Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi la vita, Plotino se ne avvide: e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non procedere sì fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione malinconica; mi strinse che io mutassi paese. Porfirio nella vita di Plotino. 

Plotino. Porfirio, tu sai ch’io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dei maravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiosità; perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore. Già sono più giorni che io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura, e lasci andare certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza aggiramenti, io credo che tu abbi in capo una mala intenzione.

Porfirio. Come, che vuoi tu dire?

Plotino. Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto è stimato cattivo augurio a nominarlo. Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero; non far questa ingiuria a tanto amore che noi ci portiamo insieme da tanto tempo. So bene che io ti fo dispiacere a muoverti questo discorso; e intendo che ti sarebbe stato caro di tenerti il tuo proposito celato: ma in cosa di tanto momento io non poteva tacere; e tu non dovresti avere a male di conferirla con persona che ti vuol tanto bene quanto a se stessa. Discorriamo insieme riposatamente, e andiamo pensando le ragioni: tu sfogherai l’animo tuo meco, ti dorrai, piangerai; che io merito da te questo: e in ultimo io non sono già per impedirti che tu non facci quello che noi troveremo che sia ragionevole, e di tuo utile.

Porfirio. Io non ti ho mai disdetto cosa che tu mi domandassi, Plotino mio. Ed ora confesso a te quello che avrei voluto tener segreto, e che non confesserei ad altri per cosa alcuna del mondo; dico che quel che tu immagini della mia intenzione, è la verità. Se ti piace che noi ci ponghiamo a ragionare sopra questa materia; benché l’animo mio ci ripugna molto, perché queste tali deliberazioni pare che si compiacciano di un silenzio altissimo, e che la mente in così fatti pensieri ami di essere solitaria e ristretta in se medesima più che mai; pure io sono disposto di fare anche di ciò a tuo modo. Anzi incomincerò io stesso; e ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della vita, da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata. Di maniera che non solo l’intelletto mio, ma tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo di dire strano, ma accomodato al caso) pieni di questa vanità. 

E qui primieramente non mi potrai dire che questa mia disposizione non sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella in buona parte provenga da qualche mal essere corporale. Ma ella nondimeno è ragionevolissima: anzi tutte le altre disposizioni degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera, si vive, e stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza; sono, qual più qual meno, rimote dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa.

E nessuna cosa è più ragionevole che la noia. I piaceri sono tutti vani. Il dolore stesso, parlo di quel dell’animo, per lo più è vano: perché se tu guardi alla causa ed alla materia, a considerarla bene, ella è di poca realtà o di nessuna. Il simile dico del timore; il simile della speranza. Solo la noia, la qual nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non è fondata in sul falso. E si può dire che, essendo tutto l’altro vano, alla noia riducasi, e in lei consista, quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di reale.

Plotino. Sia così. Non voglio ora contraddirti sopra questa parte. Ma noi dobbiamo adesso considerare il fatto che tu vai disegnando: dico, considerarlo più strettamente, e in se stesso. Io non ti starò a dire che sia sentenza di Platone, come tu sai, che all’uomo non sia lecito, in guisa di servo fuggitivo, sottrarsi di propria autorità da quella quasi carcere nella quale egli si ritrova per volontà degli Dei; cioè privarsi della vita spontaneamente.

Porfirio. Ti prego, Plotino mio; lasciamo da parte adesso Platone, e le sue dottrine, e le sue fantasie. Altra cosa è lodare, commentare, difendere certe opinioni nelle scuole e nei libri; ed altra è seguitarle nell’uso pratico. Alla scuola e nei libri, siami stato lecito approvare i sentimenti di Platone e seguirli; poiché tale è l’usanza oggi: nella vita, non che gli approvi, io piuttosto gli abbomino. So ch’egli si dice che Platone spargesse negli scritti suoi quelle dottrine della vita avvenire, acciocché gli uomini, entrati in dubbio e in sospetto circa lo stato loro dopo la morte; per quella incertezza, e per timore di pene e di calamità futura, si ritenessero nella vita dal fare ingiustizia e dalle altre male opere. Che se io stimassi che Platone fosse stato autore di questi dubbi, e di queste credenze; e che elle fossero sue invenzioni; io direi: tu vedi, Platone, quanto o la natura o il fato o la necessità, o qual si sia potenza autrice e signora dell’universo, è stata ed è perpetuamente inimica alla nostra specie. Alla quale molte, anzi innumerabili ragioni potranno contendere quella maggioranza che noi, per altri titoli, ci arroghiamo di avere tra gli animali; ma nessuna ragione si troverà che le tolga quel principato che l’antichissimo Omero le attribuiva; dico il principato della infelicità. 

Tuttavia la natura ci ha riservato per medicina di tutti i mali la morte, che usando un poco il cervello, sarebbe ben poco da temere, forse anche da desiderare. Sarebbe una dolcissima consolazione per la nostra vita, piena di tanti dolori, l’attesa ed il pensiero della nostra fine. Con questo dubbio terribile, suscitato da te nelle menti degli uomini, hai tolto da questo pensiero ogni dolcezza, e l’hai reso il più amaro di tutti gli altri.

Per questo gli infelicissimi mortali temono più il porto che la tempesta, e rifuggono da quell’unico rimedio per le angosce e gli spasimi della vita. Tu sei stato per gli uomini più crudele che il fato, la necessità o la natura. E non essendo possibile sciogliere questo dubbio in alcun modo né le menti nostre esserne liberate, li hai indotti a credere che la morte sarà piena di sofferenze, peggio della vita. Così, per colpa tua, mentre gli animali muoiono senza alcun timore, la quiete è per sempre esclusa dall’ultima ora dell’uomo. Questo mancava, o Platone, a tanta infelicità della specie umana. 

A parte che lo scopo di trattenere gli uomini dalle violenze e dalle ingiustizie, non si è realizzato. Infatti, quei dubbi e quelle credenze spaventano tutti gli uomini in punto di morte, quando ormai non sono più in grado di nuocere. Nel corso della vita, spaventano frequentemente i buoni, che non intendono nuocere, ma fare del bene; spaventano le persone timide e le deboli di corpo, non inclini per natura alle violenze e alle iniquità. Ma i coraggiosi e i vigorosi e quelli che hanno poca immaginazione, oppure quelli che hanno bisogno di ben altro freno che della sola legge non li spaventano né li trattengono dal fare il male come possiamo constatare tutti i giorni e come ci dice con evidenza la storia di tutti i tempi. Le buone leggi, l’educazione, la cultura fanno crescere nella società la giustizia e la bontà. Infatti, gli animi civilizzati e ragionevoli, quasi sempre rifuggono istintivamente la violenza e qualsiasi altro danno causato agli altri. Inoltre, raramente corrono i rischi derivanti dal trasgredire la legge.

Non fanno già questo buono effetto le immaginazioni minacciose, e le opinioni triste di cose fiere e spaventevoli: anzi come suol fare la moltitudine e la crudeltà dei supplizi che si usino dagli stati, così ancora quelle accrescono, in un lato la viltà dell’animo, in un altro la ferocità; principali inimiche e pesti del consorzio umano. Ma tu hai posto ancora innanzi e promesso guiderdone ai buoni. Qual guiderdone? Uno stato che ci apparisce pieno di noia, ed ancor meno tollerabile che questa vita. A ciascheduno è palese l’acerbità di que’ tuoi supplicii; ma la dolcezza de’ tuoi premii è nascosa, ed arcana, e da non potersi comprendere da mente d’uomo. Onde nessuna efficacia possono aver così fatti premii di allettarci alla rettitudine e alla virtù.

E in vero, se molto pochi ribaldi, per timore di quel tuo spaventoso Tartaro si astengono da alcuna mala azione; mi ardisco io di affermare che mai nessun buono, in un suo menomo atto, si mosse a bene operare per desiderio di quel tuo Eliso. Che non può esso alla immaginazione nostra aver sembianza di cosa desiderabile. Ed oltre che di molto lieve conforto sarebbe eziandio la espettazione certa di questo bene, la quale speranza hai tu lasciato che ne possano avere anco i virtuosi e i giusti; se quel tuo Minosse e quello Eaco e Radamanto, giudici rigidissimi e inesorabili, non hanno a perdonare a qualsivoglia ombra o vestigio di colpa? E quale uomo è che si possa sentire o credere così netto e puro come lo richiedi tu? Sicché il conseguimento di quella qual che si sia felicità viene a esser quasi impossibile: e non basterà la coscienza della più retta e della più travagliosa vita ad assicurare l’uomo in sull’ultimo, dalla incertezza del suo stato futuro, e dallo spavento dei gastighi.

Così per le tue dottrine il timore, superata con infinito intervallo la speranza, è fatto signore dell’uomo: e il frutto di esse dottrine ultimamente è questo; che il genere umano, esempio mirabile d’infelicità in questa vita, si aspetta, non che la morte sia fine alle sue miserie, ma di avere a essere dopo quella, assai più infelice. Con che tu hai vinto di crudeltà, non pur la natura e il fato, ma ogni tiranno più fiero, e ogni più spietato carnefice, che fosse al mondo. Ma con qual barbarie si può paragonare quel tuo decreto, che all’uomo non sia lecito di por fine a’ suoi patimenti, ai dolori, alle angosce, vincendo l’orrore della morte, e volontariamente privandosi dello spirito? Certo non ha luogo negli altri animali il desiderio di terminar la vita; perché le infelicità loro hanno più stretti confini che le infelicità dell’uomo: né avrebbe anco luogo il coraggio di estinguerla spontaneamente. Ma se pur tali disposizioni cadessero nella natura dei bruti, nessuno impedimento avrebbero essi al poter morire; nessun divieto, nessun dubbio torrebbe loro la facoltà di sottrarsi dai loro mali. Ecco che tu ci rendi anco in questa parte, inferiori alle bestie: e quella libertà che avrebbero i bruti se loro accadesse di usarla; quella che la natura stessa, tanto verso noi avara, non ci ha negata; vien manco per tua cagione nell’uomo. In guisa che quel solo genere di viventi che si trova esser capace del desiderio della morte, quello solo non abbia in sua mano il morire.

La natura, il fato e la fortuna ci flagellano di continuo sanguinosamente, con istrazio nostro e dolore inestimabile: tu accorri, e ci annodi strettamente le braccia, e incateni i piedi; sicché non ci sia possibile né schermirci né ritrarci indietro dai loro colpi. In vero, quando io considero la grandezza della infelicità umana, io penso che di quella si debbano più che veruna altra cosa, incolpare le tue dottrine; e che si convenga agli uomini, assai più dolersi di te che della natura. La quale se bene, a dir vero, non ci destinò altra vita che infelicissima; da altro lato però ci diede il poter finirla ogni volta che ci piacesse.

E primieramente non si può mai dire che sia molto grande quella miseria la quale, solo che io voglia, può di durazione esser brevissima: poi, quando ben la persona in effetto non si risolvesse a lasciar la vita, il pensiero solo di potere ad ogni sua voglia sottrarsi dalla miseria, saria tal conforto e tale alleggerimento di qualunque calamità, che per virtù di esso, tutte riuscirebbero facili a sopportare. Di modo che la gravezza intollerabile della infelicità nostra, non da altro principalmente si dee riconoscere, che da questo dubbio di poter per avventura, troncando volontariamente la propria vita, incorrere in miseria maggiore che la presente. Né solo maggiore, ma di tanto ineffabile atrocità e lunghezza, che posto che il presente sia certo, e quelle pene incerte, nondimeno ragionevolmente debba il timore di quelle, senza proporzione o comparazione alcuna, prevalere al sentimento di ogni qual si voglia male di questa vita. Il qual dubbio, o Platone, ben fu a te agevole a suscitare; ma prima sarà venuta meno la stirpe degli uomini, che egli sia risoluto. Però nessuna cosa nacque, nessuna è per nascere in alcun tempo, così calamitosa e funesta alla specie umana, come l’ingegno tuo. Queste cose io direi, se credessi che Platone fosse stato autore o inventore di quelle dottrine; che io so benissimo che non fu. Ma in ogni modo, sopra questa materia s’è detto abbastanza, e io vorrei che noi la ponessimo da canto.

Plotino. Porfirio, veramente io amo Platone, come tu sai. Ma non è già per questo, che io voglia discorrere per autorità; massimamente poi teco e in una questione tale: ma io voglio discorrere per ragione. E se ho toccato così alla sfuggita quella tal sentenza platonica, io l’ho fatto più per usare come una sorta di proemio, che per altro. E ripigliando il ragionamento ch’io aveva in animo, dico che non Platone o qualche altro filosofo solamente, ma la natura stessa par che c’insegni che il levarci dal mondo di mera volontà nostra, non sia cosa lecita. Non accade che io mi distenda circa questo articolo: perché se tu penserai un poco, non può essere che tu non conosca da te medesimo che l’uccidersi di propria mano senza necessità, è contro natura. Anzi, per dir meglio, è l’atto più contrario a natura, che si possa commettere. Perché tutto l’ordine delle cose saria sovvertito, se quelle si distruggessero da se stesse. E par che abbia repugnanza che uno si vaglia della vita a spegnere essa vita, che l’essere ci serva al non essere. Oltre che se pur cosa alcuna ci è ingiunta e comandata dalla natura, certo ci comanda ella strettissimamente e sopra tutto, e non solo agli uomini, ma parimente a qualsivoglia creatura dell’universo di attendere alla conservazione propria, e di procurarla in tutti i modi; ch’è il contrario appunto dell’uccidersi. E senza altri argomenti, non sentiamo noi che la inclinazione nostra da per se stessa ci tira, e ci fa odiare la morte, e temerla, ed averne orrore, anche a dispetto nostro? Or dunque, poiché questo atto dell’uccidersi, è contrario a natura; e tanto contrario quanto noi veggiamo; io non mi saprei risolvere che fosse lecito.

Porfirio. Io ho considerata già tutta questa parte: che, come tu hai detto, è impossibile che l’animo non la scorga, per ogni poco che uno si fermi a pensare sopra questo proposito. Mi pare che alle tue ragioni si possa rispondere con molte altre, e in più modi: ma studierò d’esser breve. Tu dubiti se ci sia lecito di morire senza necessità: io ti domando se ci è lecito di essere infelici. La natura vieta l’uccidersi. Strano mi riuscirebbe che non avendo ella o volontà o potere di farmi né felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere.

Certo se la natura ci ha ingenerato amore della conservazione propria, e odio della morte; essa non ci ha dato meno odio della infelicità, e amore del nostro meglio; anzi tanto maggiori e tanto più principali queste ultime inclinazioni che quelle, quanto che la felicità è il fine di ogni nostro atto, e di ogni nostro amore e odio; e che non si fugge la morte, né la vita si ama, per se medesima, ma per rispetto e amore del nostro meglio, e odio del male e del danno nostro. Come dunque può esser contrario alla natura, che io fugga la infelicità in quel solo modo che hanno gli uomini di fuggirla? che è quello di tormi dal mondo: perché mentre son vivo, io non la posso schifare. E come sarà vero che la natura mi vieti di appigliarmi alla morte, che senza alcun dubbio è il mio meglio; e di ripudiar la vita, che manifestamente mi viene a esser dannosa e mala; poiché non mi può valere ad altro che a patire, e a questo per necessità mi vale e mi conduce in fatto?

Plotino A ogni modo queste cose non mi persuadono che l’uccidersi da se stesso non sia contro natura: perché il senso nostro porta troppo manifesta contrarietà e abborrimento alla morte: e noi veggiamo che le bestie; le quali (quando non sieno forzate dagli uomini o sviate) operano in ogni cosa naturalmente; non solo non vengono mai a questo atto, ma eziandio per quanto che sieno tribolate e misere, se ne dimostrano alienissime. E in fine non si trova, se non fra gli uomini soli qualcuno che lo commette: e non mica fra quelle genti che hanno un modo di vivere naturale; che di queste non si troverà niuno che non lo abbomini, se pur ne avrà notizia o immaginazione alcuna; ma solo fra queste nostre alterate e corrotte, che non vivono secondo natura.

Porfirio Orsù, io ti voglio concedere anco, che questa azione sia contraria a natura, come tu vuoi. Ma che val questo; se noi non siamo creature naturali, per dir così? intendo degli uomini inciviliti. Paragonaci, non dico ai viventi di ogni altra specie che tu vogli, ma a quelle nazioni là delle parti dell’India e della Etiopia, le quali, come si dice, ancora serbano quei costumi primitivi e silvestri, e a fatica ti parrà che si possa dire, che questi uomini e quelli sieno creature di una specie medesima. E questa nostra, come a dire, trasformazione; e questa mutazion di vita, e massimamente d’animo; io quanto a me, ho avuto sempre per fermo che non sia stata senza infinito accrescimento d’infelicità. Certo che quelle genti salvatiche non sentono mai desiderio di finir la vita; né anco va loro per la fantasia che la morte si possa desiderare: dove che gli uomini costumati a questo modo nostro e, come diciamo, civili, la desiderano spessissime volte, e alcune se la procacciano. Ora, se è lecito all’uomo incivilito, e vivere contro natura, e contro natura essere così misero; perché non gli sarà lecito morire contro natura? essendo che da questa infelicità nuova, che risulta a noi dall’alterazione dello stato, non ci possiamo anco liberare altrimenti, che colla morte. Che quanto a ritornarci in quello stato primo, e alla vita disegnataci dalla natura; questo non si potrebbe appena, e in nessun modo forse, circa l’estrinseco; e per rispetto all’intrinseco, che è quello che più rileva, senza alcun dubbio sarebbe impossibile affatto. Qual cosa è manco naturale della medicina? così di quella che si esercita con la mano, come di quella che opera per via di farmachi. Che l’una e l’altra, la più parte, sì nelle operazioni che fanno, e sì nelle materie, negli strumenti e nei modi che usano, sono lontanissime dalla natura: e i bruti e gli uomini selvaggi non le conoscono. Nondimeno, perocché ancora i morbi ai quali esse intendono di rimediare, sono fuor di natura, e non hanno luogo se non per cagione della civiltà, cioè della corruttela del nostro stato; perciò queste tali arti, benché non sieno naturali, sono e si stimano opportune, e anco necessarie.

Così questo atto dell’uccidersi, il quale ci libera dalla infelicità recataci dalla corruzione, perché sia contrario alla natura, non seguita che sia biasimevole: bisognando a mali non naturali, rimedio non naturale. E saria pur duro ed iniquo che la ragione, la quale per far noi più miseri che naturalmente non siamo, suol contrariar la natura nelle altre cose; in questa si confederasse con lei, per torci quello estremo scampo che ci rimane; quel solo che essa ragione insegna; e costringerci a perseverare nella miseria. La verità è questa, Plotino. Quella natura primitiva degli uomini antichi, e delle genti selvagge e incolte, non è più la natura nostra: ma l’assuefazione e la ragione hanno fatto in noi un’altra natura; la quale noi abbiamo, ed avremo sempre, in luogo di quella prima. Non era naturale all’uomo da principio il procacciarsi la morte volontariamente: ma né anco era naturale il desiderarla. Oggi e questa cosa e quella sono naturali; cioè conformi alla nostra natura nuova: la quale, tendendo essa ancora e movendosi necessariamente, come l’antica, verso ciò che apparisce essere il nostro meglio; fa che noi molte volte desideriamo e cerchiamo quello che veramente è il maggior bene dell’uomo, cioè la morte. E non è maraviglia: perciocché questa seconda natura è governata e diretta nella maggior parte dalla ragione. La quale afferma per certissimo, che la morte, non che sia veramente un male, come detta la impressione primitiva; anzi è il solo rimedio valevole ai nostri mali, la cosa più desiderabile agli uomini, e la migliore. Adunque domando io: misurano gli uomini inciviliti le altre azioni loro dalla natura primitiva? Quando, e quale azione mai? Non dalla natura primitiva, ma da quest’altra nostra, o pur vogliamo dire dalla ragione. Perché questo solo atto del torsi di vita, si dovrà misurare non dalla natura nuova o dalla ragione, ma dalla natura primitiva? Perché dovrà la natura primitiva, la quale non dà più legge alla vita nostra, dar legge alla morte? Perché non dee la ragione governar la morte, poiché regge la vita? E noi veggiamo che in fatto, sì la ragione, e sì le infelicità del nostro stato presente, non solo estinguono, massime negli sfortunati e afflitti, quello abborrimento ingenito della morte che tu dicevi; ma lo cangiano in desiderio e amore, come io ho detto innanzi. Nato il qual desiderio e amore, che secondo natura, non sarebbe potuto nascere; e stando la infelicità generata dall’alterazione nostra, e non voluta dalla natura; saria manifesta repugnanza e contraddizione, che ancora avesse luogo il divieto naturale di uccidersi. Questo pare a me che basti, quanto a sapere se l’uccider se stesso sia lecito. Resta se sia utile.

Plotino Di cotesto non accade che tu mi parli, Porfirio mio: che quando cotesta azione sia lecita (perché una che non sia giusta né retta non concedo che possa esser di utilità), io non ho dubbio nessuno che non sia utilissima. Perché la quistione in somma si riduce a questo: quale delle due cose sia migliore; il non patire, o il patire. So ben io che il godere congiunto al patire, verisimilmente sarebbe eletto da quasi tutti gli uomini, piuttosto che il non patire e anco non godere: tanto è il desiderio, e per così dir, la sete, che l’animo ha del godimento. Ma la deliberazione non cade fra questi termini: perché il godimento e il piacere, a parlar proprio e diritto, è tanto impossibile, quanto il patimento è inevitabile. E dico un patimento così continuo, come è continuo il desiderio e il bisogno che abbiamo del godimento e della felicità, il quale non è adempiuto mai: lasciando ancora da un lato i patimenti particolari ed accidentali che intervengono a ciascun uomo, e che sono parimente certi; intendo dire, è certo che ne debbono intervenire (più o meno, e d’una qualità o d’altra), eziandio nella più avventurosa vita del mondo. E per verità, un patimento solo e breve, che la persona fosse certa che, continuando essa a vivere, le dovesse accadere; saria sufficiente a fare che, secondo ragione, la morte fosse da anteporre alla vita: perché questo tal patimento non avrebbe compensazione alcuna; non potendo occorrere nella vita nostra un bene o un diletto vero.

Porfirio A me pare che la noia stessa, e il ritrovarsi privo di ogni speranza di stato e di fortuna migliore, sieno cause bastanti a ingenerar desiderio di finir la vita, anco a chi si trovi in istato e in fortuna, non solamente non cattiva, ma prospera. E più volte mi sono maravigliato che in nessun luogo si vegga fatta menzione di principi che sieno voluti morire per tedio solamente, e per sazietà dello stato proprio, come di genti private e si legge, e odesi tuttogiorno. Quali erano coloro che udito Egesia, filosofo cirenaico, recitare quelle sue lezioni della miseria della vita; uscendo della scuola, andavano e si uccidevano: onde esso Egesia fu detto per soprannome il persuasor di morire; e si dice, come credo che tu sappi, che all’ultimo il re Tolomeo gli vietò che non disputasse più oltre in quella materia. Che se bene si trova di alcuni, come del re Mitridate, di Cleopatra, di Ottone romano, e forse di alquanti altri principi, che si uccisero da se stessi; questi tali si mossero per trovarsi allora in avversità e in miseria, e per isfuggirne di più gravi. Ora a me sarebbe paruto credibile che i principi più facilmente che gli altri, concepissero odio del loro stato, e fastidio di tutte le cose; e desiderassero di morire. Perché, essendo eglino in sulla cima di quella che chiamasi felicità umana, avendo pochi altri a sperare, o nessuno forse, di quelli che si dimandano beni della vita (poiché li posseggono tutti); non si possono prometter migliore il domani che il giorno d’oggi. E sempre il presente, per fortunato che sia, è tristo e inamabile: solo il futuro può piacere. Ma come che sia di ciò; in fine, noi possiamo conoscere che (eccetto il timor delle cose di un altro mondo) quello che ritiene gli uomini che non abbandonino la vita spontaneamente; e quel che gl’induce ad amarla, e a preferirla alla morte; non è altro che un semplice e un manifestissimo errore, per dir così, di computo e di misura: cioè un errore che si fa nel computare, nel misurare, e nel paragonar tra loro, gli utili o i danni. Il quale errore ha luogo, si potrebbe dire, altrettante volte, quanti sono i momenti nei quali ciascheduno abbraccia la vita, ovvero acconsente a vivere e se ne contenta; o sia col giudizio e colla volontà, o sia col fatto solo.

Plotino. Così è veramente, Porfirio mio. Ma con tutto questo, lascia ch’io ti consigli, ed anche sopporta che ti preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo disegno, piuttosto alla natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e dell’universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi coll’ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia grande l’alterazione nostra, e diminuita in noi la potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla, né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere altrimenti. 

Ecco, questo che tu nomini error di computo; veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che possa durare assai: benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo; mutata leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco; e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime e appena possibili a notare; rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo. E ciò basta all’effetto di fare che la persona, quantunque ben conoscente e persuasa della verità, nondimeno a mal grado della ragione, e perseveri nella vita, e proceda in essa come fanno gli altri: perché quel tal senso (si può dire), e non l’intelletto, è quello che ci governa. 

Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragione l’accomodar l’animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso? Io so bene che non dee l’animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d’animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari.

Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo. 

In ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti e continui, pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e calamità straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non sono malagevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente; per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa, non dovria ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perché non avrebbe a compiacergliene? Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che cosi, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. 

Un moderno Dialogo sul tema del suicidio: Sunset Limited, di Cormac McCarthy, da cui il film del regista Tommy Lee Jones

https://www.youtube.com/watch?v=1ORuyJtvpaE Sunset Limited

https://www.sentieriselvaggi.it/cattive-letture-sunset-limited-il-romanzo-in-forma-drammatica-di-c-mccarthy/

http://www.mangialibri.com/libri/sunset-limited

https://www.mymovies.it/film/2011/thesunsetlimited/

https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-straniera/narrativa-di-lingua-inglese/sunset-limited-cormac-mccarthy-9788806233501/.

 

 

 

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