Le epidemie nella letteratura

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Le epidemie nella letteratura

 >>> Le epidemie nella storia. Dalla peste al coronavirus

Riferimenti alle epidemie si ritrovano nella letteratura, nell’arte e nella storia di ogni civiltà. Le epidemie creano angoscia e terrore perché seminano morti a migliaia nello stesso momento. La malattia e la morte individuale sono una tragedia del singolo e della sua famiglia, mentre la morte in massa aggiunge il senso della catastrofe, del flagello, della fine collettiva.

Molte sono le opere letterarie in cui si descrivono pestilenze. Tra le molte si possono ricordare:

Omero, Iliade (Libro Primo)

Nel Libro Primo dell’Iliade Omero narra che durante il decimo anno della guerra di Troia Crise, sacerdote di Apollo, si reca da Agamennone per farsi riconsegnare la figlia Criseide, che il re acheo teneva con sé come schiava. Il sovrano greco lo maltratta e respinge la sua richiesta, ordinandogli di andarsene e di non farsi mai più vedere. Disperato, Crise scongiura Apollo di punire gli Achei per il grave affronto. Apollo, infuriato discende dall’Olimpo e comincia a colpire animali e uomini del campo greco con l’infallibile mira del suo arco d’argento con cui scaglia dardi avvelenati, gettando una pestilenza su tutto l’accampamento. Dopo dieci giorni, Achille indice un’assemblea di tutti gli Achei ed esorta l’indovino Calcante a rivelare quali siano le cause della pestilenza. L’indovino spiega che il motivo della pestilenza va ricercato nell’ira di Apollo, dovuta al maltrattamento subito dal suo sacerdote da parte di Agamennone. Questi inveisce contro Calcante, accusandolo di vaticinare solo cose funeste e ne nasce un litigio con Achille. Dopo molti insulti e parole ingiuriose, Agamennone acconsente a liberare Criseide, ma decide in cambio di prendere per sé Briseide, la schiava di Achille. L’eroe, offeso nel suo orgoglio, a stento è trattenuto dal farsi giustizia da parte di Atena e annuncia che non combatterà più a fianco di Agamennone. Questi dà ordine di liberare Criseide e di condurre Briseide nella sua tenda […]

 

Sofocle, Edipo re

La tragedia di Sofocle Edipo re viene messa in scena per la prima volta tra il 430 e il 420 a.C. ad Atene e fa parte con altre due tragedie, l’Edipo a Colono e l’Antigone, del ciclo tebano.

L’opera narra di come Edipo, re di Tebe, nel breve volgere di un solo giorno venga a conoscere l’orrenda verità sul suo passato: inconsapevole ha infatti ucciso il proprio padre per poi generare figli con la propria madre. Sconvolto da queste rivelazioni, Edipo si acceca e va in esilio. La tragedia si apre con i cittadini di Tebe che chiedono aiuto al re Edipo per fermare una pestilenza che li sta decimando. Creonte, fratello di Giocasta, inviato a Delfi per interrogare l’oracolo, riferisce che la causa della pestilenza è dovuta al fatto che l’assassinio del precedente re Laio è rimasto impunito e che l’assassino vive tra le mura della città. Interrogato da Edipo, il vecchio indovino cieco Tiresia svela che proprio lui è l’assassino. Dapprima incredulo, Edipo scoprirà però con certezza che invece davvero quella è la verità.

 

Tucidide, La guerra del Peloponneso (La Peste di Atene)

La guerra del Peloponneso (seconda metà del sec. V a.C.) è una pietra miliare della storiografia antica. Nella visione razionalistica e laica di Tucidide, la storia viene ricondotta a motivazioni sociali, economiche e psicologiche, proprie della natura umana, mentre non trovano spazio la fatalità, gli dei o le considerazioni morali. La sete di potere è il principale movente di popoli, Stati e individui e la guerra è considerata un fattore fondamentale della storia. Al centro dell’opera vi è la guerra tra Atene e Sparta.

All’interno del racconto che si propone di narrare la guerra del Peloponneso, Tucidide dedica una sezione importante del II libro delle sue Storie all’irrompere della peste in Attica, nell’estate del secondo anno di guerra (430 a.C.). Il diffondersi dell’epidemia è favorito dal fatto che tutta la popolazione dalle campagne si trova ammassata in città o lungo le mura. Gli effetti sono subito molto gravi, anche perché nessuno sembra in grado di frenare la malattia: «in nessun luogo si aveva memoria di una pestilenza così grave e di una tale moria di persone. Infatti non erano in grado di fronteggiarlo né i medici, che all’inizio prestavano le loro cure senza conoscerne la natura, e anzi erano i primi a morire in quanto più degli altri si accostavano agli infermi, né nessun’altra arte di origine umana; ugualmente le suppliche nei santuari, il ricorso a oracoli e altre cose del genere, tutto si rivelò inutile; e alla fine, sopraffatti dalla sventura, rinunciarono a qualsiasi tentativo». (47, 3-4).

La novità e la gravità della malattia fanno sorgere il sospetto di un complotto ordito dagli Spartani: «Su Atene si abbatté all’improvviso; dapprima colpì le persone al Pireo, tanto che qui si disse che i Peloponnesiaci avevano avvelenato i pozzi…». (48, 2)

Tucidide descrive la sintomatologia del morbo e soprattutto le conseguenze dell’epidemia sulla società ateniese. L’inutilità dei rimedi provoca un generale scoraggiamento fino a sfociare nella disperazione. Il disordine e l’anarchia si insinuano nella vita quotidiana: gli individui cercano di appagare i propri istinti senza più alcuna inibizione. Si persegue il piacere egoistico a scapito di qualsiasi finalità comune. Molti muoiono in solitudine, abbandonati dai parenti timorosi del contagio. Le regole della vita civile sono sovvertite: le norme sulle sepolture vengono stravolte e capita perfino che i cadaveri non vengano neppure sepolti o siano ammucchiati nei santuari: «Poiché non c’erano case disponibili ed essi vivevano in tuguri che la stagione rendeva soffocanti, la strage avveniva in piena confusione: i corpi dei morti erano ammucchiati gli uni sugli altri, e si vedevano uomini mezzo morti rotolarsi per le strade e intorno a tutte le fontane spinti dal desiderio di bere. I santuari in cui avevano preso dimora erano colmi di cadaveri […] Tutte le usanze funerarie precedentemente in vigore furono sconvolte e ciascuno provvedeva alla sepoltura come poteva».(52, 2-4)

 

Lucrezio, De rerum natura sulla Peste di Atene

La ripresa forse più famosa del testo di Tucidide è quella del De rerum natura di Lucrezio (VI 1138-1286), poeta latino. La descrizione della peste di Atene chiude il poema di Lucrezio, in un quadro drammatico e dalle tinte fosche. I versi del De rerum natura traducono spesso da vicino le pagine tucididee, ma lo sguardo del poeta-filosofo si sofferma a descrivere sintomi e andamento del male per dimostrarne le cause solo naturali, per nulla attribuibili a un castigo divino.

Virgilio, Georgiche (brano sulla peste del Nòrico)

Sempre a Roma, Virgilio descrive la peste nel Norico (Georgiche III 470-556), nella regione orientale delle Alpi. Qui le vittime sono gli animali, sia domestici che selvatici, di terra o di mare: nondimeno gli effetti sono terribili e tali da far regredire l’umanità a uno stadio primitivo. Senza buoi non si riesce più ad arare i campi, la contaminazione degli animali sacri rende impossibile celebrare i sacrifici religiosi, fenomeni eccezionali si susseguono, come i pesci espulsi sulla terra o i lupi che cessano di minacciare le pecore.

 

Giovanni Boccaccio, Decameron

La peste del 1300 non è il tema della narrazione ma la cornice del Decameron di Giovanni Boccaccio. Nel 1348 a Firenze c’è la peste e si muore. Dieci giovani si isolano in una villa di campagna e ogni giorno ciascuno di essi racconta una storia, mentre la peste dilania la città. Cento storie per dieci giorni, dieci storie al giorno: tanto basta perché si attenuino la paura e la malattia.

Nell’introduzione del Decameron la descrizione della peste non è fine a se stessa, ma rende più marcata la piacevolezza del modello di vita della “brigata” dei giovani. La peste distrugge norme e valori su cui si fonda la convivenza civile. Le autorità si rivelano impotenti e non trovano il modo di affrontare efficacemente la pestilenza, adottando adeguate misure di prevenzione. I medici si rivelano del tutto incapaci di curarla e spesso a loro si affiancano individui che nulla sanno di medicina. La peste si diffonde con grande virulenza. Mutano gli stili di vita: alcuni si isolano e cercano di evitare ogni rapporto con chi possa essere portatore della malattia. Altri pensano bene di approfittare della situazione e di godere più che possono, poiché il tempo a loro disposizione potrebbe essere molto breve. Così, frequentano le taverne giorno e notte ubriacandosi ed entrano nelle case per appropriarsi di beni altrui. Persino i parenti, i genitori e i figli, si evitano, poiché la paura della morte vince anche i legami di sangue. Alcuni servi, attirati dalla possibilità di lauti e spropositati compensi, si rendono disponibili ad assistere i malati, ma spesso ne pagano le conseguenze, perché loro stessi contraggono la malattia e muoiono. La peste e la sua rappresentazione, per contrasto, danno risalto alla dilettevole convivenza dei personaggi-narratori e rendono accettabile la narrazione di storie talvolta scandalose e trasgressive rispetto alla morale comune del tempo.

 

Edgar Allan Poe, La maschera della morte rossa

La maschera della morte rossa, racconto horror di E.A. Poe. Una terribile epidemia devasta il paese. Un principe cerca di sottrarsi alla “morte rossa” isolandosi in una delle sue abbazie assieme a un migliaio di amici, scelti tra le dame e i cavalieri di corte. Tra quelle solide mura essi si sentono al sicuro, protetti dalla pestilenza, e trascorrono il tempo tra feste e danze. Ma durante una sfarzosa festa in maschera…

 

Daniel Defoe, Diario dell’anno della peste

Daniel Defoe (autore del Robinson Crusoe) scrisse Diario dell’anno della peste nel 1722 facendo riferimento all’epidemia che colpì Londra nel 1665. L’opera assume i tratti di un’autobiografia, ma la persona che tiene il diario non è Defoe, bensì un personaggio inventato, il sellaio H.F. L’apparenza è quella di una cronaca fedele dell’anno del contagio, ma è stata scritta a più di 50 anni di distanza. Eppure contiene statistiche, interviste, stralci di articoli: sembra un grande reportage dal vivo, e invece è un’opera di finzione.

 

Alessandro Manzoni, I promessi sposi (capp. XXXI-XXXII)

Tra il 1630 e il 1631 si scatenò nel Nord Italia una terribile epidemia di peste che decimò la popolazione, infuriando con particolare virulenza nella città di Milano. Manzoni la descrive in particolare nei capp. XXXI–XXXII dei Promessi sposi, una digressione storica che ricostruisce la diffusione del morbo e le sue drammatiche conseguenze.

L’epidemia si propagò facilmente anche perché si verificò dopo due anni di terribile carestia e in seguito alle devastazioni causate dalla guerra per la successione di Mantova, che vedeva la Spagna opposta alla Francia. Manzoni sottolinea come le autorità sanitarie e politiche di Milano mostrassero un’incredibile negligenza nell’applicare le minime misure di prevenzione per evitare che il contagio si propagasse nella città. D’altronde molti, compresa la popolazione e non pochi medici, inizialmente negarono che si trattasse della peste, persino quando essa si manifestò con tutta evidenza, attribuendo i decessi a febbri malariche o altre malattie dai nomi meno spaventosi. Quando la peste si diffuse e furono colpite anche le famiglie aristocratiche milanesi la popolazione si convinse della realtà dell’epidemia. Dal mese di marzo del 1630 la peste iniziò sempre più a mietere vittime a Milano, rendendo ormai drammaticamente evidente quel che si era dapprima voluto negare. In maggio i casi di contagio crebbero notevolmente e gli appestati non trovavano più posto nel lazzaretto. Alla fine del mese i casi erano più di quaranta al giorno, così le autorità decisero di creare un secondo lazzaretto. La paura per il contagio che mieteva vittime sempre più numerose in città fece nascere tra la popolazione nuovi pregiudizi, come l’assurda credenza che alcuni individui (gli untori) spargessero appositamente unguenti venefici per propagare la peste. Furono condotte numerose inchieste sugli untori, la maggior parte delle quali finirono nel nulla. Non accadde così nel caso di Giangiacomo Mora e Guglielmo Piazza, che furono accusati di essere untori e condannati a morte, dopo che le loro “confessioni” erano state estorte con la tortura. Manzoni ricostruirà la vicenda giudiziaria nella Storia della colonna infame, un saggio storico pubblicato in appendice al romanzo. L’11 giugno 1630 si svolse una  processione che vide una grande partecipazione popolare e attraversò tutti i quartieri della città, esponendo la reliquia di S. Carlo. Fin dal giorno seguente, tuttavia, i decessi crebbero enormemente, proprio a causa dell’enorme affollamento nelle strade, che favorì la diffusione del morbo. L’arrivo dell’estate non fece che accrescere la virulenza della peste e la situazione nei mesi di luglio e agosto 1630 divenne pressoché insostenibile. Milano si trasformò in una città spettrale e spopolata, in cui i cadaveri giacevano spesso nelle strade abbandonati a se stessi o venivano raccolti dai monatti. I cadaveri avevano ormai colmato l’unica immensa fossa comune scavata nel lazzaretto, cosicché fu necessario reclutare appositamente dei contadini per scavarne altre. La pestilenza giunse al suo apice tra agosto e settembre del 1630, poi progressivamente diminuì, fino ad esaurirsi all’inizio del 1631. La peste causò a Milano e nei territori circostanti parecchie migliaia di vittime, anche se è difficile fare stime precise sul numero di morti. L’epidemia causò inoltre una grave crisi economica, superata solo dopo vari anni.

Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame

Manzoni racconta nella Storia della colonna infame, pubblicata in appendice all’edizione del 1840 dei Promessi sposi, le vicende legate ad una colonna eretta a Milano al tempo della peste. Già ne aveva ampiamente trattato nel 1777 Pietro Verri nelle sue Osservazioni sulla tortura. Nel 1630 furono arrestati, a lungo torturati, processati e atrocemente giustiziati due presunti “untori”, Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, accusati di aver usato unguenti per spargere la peste. La casa del Mora fu demolita e al suo posto fu eretta una colonna, detta infame, e una lapide che recava la descrizione dei fatti accaduti, a memoria della “giustizia” compiuta. Sia Verri che Manzoni sono inorriditi dal male consumato prima e dopo la sentenza capitale, ma l’uno guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, mentre l’altro appunta la sua attenzione sulle responsabilità individuali dei giudici. Nel 1778 la Colonna infame fu abbattuta, essendo ormai divenuta una testimonianza d’infamia non a carico del condannato, ma per i giudici.

 

Jack London, La peste scarlatta

La peste scarlatta di Jack London fu scritto nel 1912. Nell’anno 2013, in un mondo dominato dal Consiglio dei Magnati dell’Industria, scoppia un’epidemia che in breve tempo cancella l’intera razza umana. Sessant’anni dopo, nello scenario post-apocalittico di una California ripiombata nell’età della pietra, un vecchio, uno dei pochissimi superstiti, di fronte a un pugno di ragazzi selvaggi – i nipoti degli altri scampati – riuniti intorno a un fuoco dopo la caccia quotidiana, racconta come la civiltà sia andata in fumo e ritornata all’età della pietra, allorché l’umanità, con il pretesto del morbo inarrestabile, è giunta con perversa frenesia a stadi inimmaginabili di crudeltà e barbarie. L’umanità non è stata travolta dalla malattia, ma la malattia – figlia di un’epoca iper-industrializzata e disumana – è stata la scusa grazie alla quale gli uomini, con lo scopo di sopravvivere, si sono sopraffatti l’un l’altro. La peste scarlatta è uno dei grandi testi visionari di Jack London.

https://www.adelphi.it/libro/9788845924118

 

Thomas Mann, La montagna incantata

La montagna incantata (titolo originale Der Zauberberg), o più letteralmente La montagna magica, è un romanzo di Thomas Mann, pubblicato nel 1924.

Hans Castorp recatosi a trovare un cugino in sanatorio dove si cura la tubercolosi, finisce col restarvi, ammalatosi a sua volta, per sette anni. A contatto con il microcosmo del sanatorio, vero e proprio panorama di tutte le correnti di pensiero, il suo carattere subisce un’evoluzione: passa attraverso la malattia, l’amore (la signora Chauchat), il razionalismo e la gioia di vivere (Settembrini), il pessimismo irrazionale (Naphta), senza che nessuna di queste posizioni lo converta. Ma in mezzo a tante forze contrastanti Castorp trova il suo equilibrio. Scoppia la guerra nel 1914 e Hans viene strappato da questa magica e raffinata atmosfera per essere gettato sui campi di battaglia dove la sua sorte resta incerta, ma immersa in un clima di morte.

https://www.corbaccio.it/libri/la-montagna-incantata-9788863801682

https://www.letteratour.it/tesine/A06mannT01.asp

http://www.mangialibri.com/libri/la-montagna-incantata

 

Albert Camus, La peste

Il romanzo La peste (1947) di Albert Camus è ambientato a Orano, in Algeria, negli anni ‘40. Bernard Rieux, medico francese, trova un topo morto sulla soglia di casa, ma non ha tempo per preoccuparsene perché deve accompagnare alla stazione la moglie, molto malata, che ha bisogno di sottoporsi a un ciclo di cure che non può avere in città. Passano i giorni e i topi continuano a morire. La stampa parla di seimila ratti morti al giorno. Gli abitanti di Orano sono sconcertati, finché all’improvviso la situazione sembra tornare alla normalità: la moria di topi finisce. Quando però il portinaio Michel si ammala gravemente e in pochi giorni muore muore, Rieux capisce che tutti stanno correndo un gravissimo pericolo. Sempre più persone di Orano cominciano a presentare gli stessi sintomi: Rieux e l’anziano collega Castel capiscono che si tratta di peste. Inizialmente nessuno vuole credere ai due medici ma alla fine la situazione diventa evidente anche alle autorità che volevano negarla. La città di Orano viene messa in quarantena…

La peste si presenta come una riflessione allegorica sul male e sul recente trauma della guerra, che ancora pesano sulle coscienze europee: come il male, la peste non viene mai debellata del tutto, ma resta latente in attesa dell’ambiente propizio per una nuova esplosione. Il romanzo racconta di come nell’emergenza, nella sospensione della normalità, vengano fuori i lati peggiori, ma anche quelli migliori, delle persone.

 

Josè Saramago, Cecità

Cecità è un romanzo del premio Nobel portoghese Josè Saramago, pubblicato nel 1995. Un automobilista fermo al semaforo all’improvviso diventa cieco, di una cecità particolare, perché l’uomo vede tutto bianco. Un ladro di automobili approfitta del suo malessere per derubarlo della sua vettura, offrendosi di riaccompagnarlo a casa. L’automobilista racconta alla moglie quanto gli è accaduto e i due si recano da un oculista, dove trovano un vecchio con una benda nera su un occhio, un ragazzino che sembrava strabico, accompagnato da una donna, e una ragazza dagli occhiali scuri. Tutti hanno lo stesso tipo di cecità: un bianco lattiginoso che impedisce loro di vedere. Anche il medico, che non sa darsi spiegazioni scientifiche viene contagiato di lì a poche ore. In breve tempo tutta la città viene infettata e i malati, il cui numero aumenta esponenzialmente, vengono messi in quarantena in un manicomio. In mezzo a loro una donna, la moglie del medico, è immune dalla malattia, ma finge di essere cieca, pur di rimanere vicina al marito. Si tratta certamente di una figura positiva, che si sacrifica per la salvezza degli altri, ma non riesce ad esimersi dalla violenza, in una realtà dove predomina la legge del più forte. L’epidemia svela la parte più terribilmente autentica della natura umana: nel manicomio prima e nella città poi si instaura una dittatura di pochi esercitata con la violenza perpetrata sui molti. Spariscono i legami di sangue e l’amore, mentre prevale su tutto l’istinto primordiale di sopravvivenza. Uccidere, affamare, minacciare, aggredire, stuprare diventano crimini che non spaventano, perché, dice uno dei protagonisti, “è di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria”. Questa malattia senza luogo, senza tempo, senza visi e nomi ha le sue radici nell’uomo, nella sua mancanza di solidarietà, nell’incapacità di fare il bene, nel desiderio del male che ci rende tutti ciechi.

https://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/cecita-1/

http://www.sulromanzo.it/blog/cecita-di-jose-saramago-l-assurdo-come-mezzo-per-raccontare-la-realta

https://www.recensionelibro.it/cecita-jose-saramago

 

Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore

La malattia al centro di questo capolavoro dello scrittore siciliano è la tubercolosi: la vicenda è ambientata in un sanatorio, dove la reclusione, il divieto e lo stato d’eccezione sono la nuova normalità. Nel 1946, in un sanatorio della Conca d’oro – castello d’Atlante e campo di sterminio – alcuni singolari personaggi, reduci dalla guerra, e presumibilmente inguaribili, duellano debolmente con se stessi e con gli altri, in attesa della morte. Lunghi duelli di gesti e di parole; di parole soprattutto: febbricitanti, tenere, barocche – a gara con il barocco di una terra che ama l’iperbole e l’eccesso. Tema dominante, la morte: e si dirama sottilmente, si mimetizza, si nasconde, svaria, musicalmente riappare. E questo sotto i drappeggi di una scrittura in bilico fra strazio e falsetto, e in uno spazio che è sempre al di qua o al di là della storia – e potrebbe anche simulare un palcoscenico o la nebbia di un sogno…

https://sellerio.it/it/catalogo/Diceria-Untore/Bufalino/1308

https://it.wikipedia.org/wiki/Diceria_dell%27untore

 

Philip Roth, Nemesi

Estate 1944. Nel «caldo annichilente della Newark equatoriale» imperversa una spaventosa epidemia di poliomielite, che minaccia di menomazione e perfino di morte i figli della cittadina del New Jersey. Bucky Cantor, l’animatore ventitreenne di un campo giochi della città, combatte la sua guerra privata contro la malattia nel tentativo di opporsi alla catastrofe. Ultimo romanzo dello scrittore americano, il contagio qui è dato dalla poliomielite, e l’autore ne indaga gli effetti – paura, rabbia, dolore, morte – su una piccola comunità.

https://www.librinews.it/schede/nemesi-philip-roth-trama/

https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-straniera/narrativa-di-lingua-inglese/nemesi-philip-roth-9788806200947/

https://www.criticaletteraria.org/2013/04/philip-roth-nemesi.html

 

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