Kafka, Nella colonia penale

colonia penale

Franz Kafka, Nella colonia penale (In der Strafkolonie).

Nella colonia penale (titolo originale In der Strafkolonie) fu scritto alla fine del 1914 e fu pubblicato per la prima volta nel 1919. Un non meglio definito esploratore/visitatore in visita a una colonia penale, probabilmente un ispettore in incognito, è chiamato ad assistere a un’esecuzione. Al fulcro del suo incontro/scontro con un ugualmente indefinito ufficiale, c’è l’erpice, un curioso quanto micidiale ordigno di punizione a metà tra strumento di tortura e di “scrittura”, ideato e progettato dal precedente comandante della colonia penale. Ormai consapevole dell’impossibilità di conservare questa pratica, il nostalgico ufficiale esce di scena sottoponendo se stesso alla macchina.

 

«È uno strano apparecchio,» disse l’ufficiale all’esploratore, e il suo sguardo abbracciò con una certa ammirazione la macchina a lui ben nota. Il viaggiatore sembrava aver ubbidito solo per cortesia all’invito, rivoltogli dal comandante, di assistere all’esecuzione capitale di un soldato condannato per indisciplina e oltraggio ai superiori. In realtà, quell’esecuzione non riscuoteva grande interesse nella stessa colonia penale: così almeno si sarebbe detto, poiché nella valle dove si trovavano – una valletta profonda e sabbiosa, tutta circondata da brulli declivi -, oltre all’ufficiale e al viaggiatore c’era soltanto il condannato, una specie di bruto con una gran bocca, negletto il viso e i capelli, e un soldato che reggeva la grossa catena dentro alla quale andavano a scorrere le catene più piccole, con cui il condannato era stretto alle caviglie, ai polsi e al collo; catene a loro volta unite fra loro da catenelle di collegamento. Del resto, il condannato aveva un’aria di così cagnesca acquiescenza, da far credere che lo si sarebbe potuto tranquillamente lasciar correre su per i declivi di sabbia e richiamarlo poi con un semplice fischio al momento dell’esecuzione.

Il viaggiatore aveva poca curiosità per l’apparecchio: si limitava ad andar su e giù dietro il condannato lasciando trasparire il suo disinteresse, mentre l’ufficiale sbrigava gli ultimi preparativi, talvolta strisciando dietro l’apparecchio piantato solidamente nel terreno, talvolta invece arrampicandosi su una scala a pioli per controllare le parti superiori. Erano incombenze che si sarebbero potute benissimo affidare ad un operaio, ma l’ufficiale vi accudiva col massimo zelo, sia perché fosse un accanito sostenitore di quella macchina, sia invece che, per altre ragioni, di quel lavoro non si potesse incaricare nessun altro. «Ora è tutto pronto!» esclamò alla fine e scese dalla scala. Era spossato da non credere; respirava con tutta la bocca aperta e s’era ficcato sotto il colletto dell’uniforme due minuscoli fazzolettini da donna. «Certo che queste uniformi sono troppo pesanti per il clima dei tropici,» disse il viaggiatore, invece di chiedere, come l’ufficiale s’era atteso, informazioni sulla macchina. «Ah sì,» rispose l’ufficiale, lavandosi le mani imbrattate d’olio e di grasso in una catinella già preparata, «ma l’uniforme significa la patria, e alla patria non rinunciamo… Ma guardi un po’ quest’apparecchio,» continuò, mentre si asciugava le mani con un panno e contemporaneamente indicava la macchina; «fin adesso c’è stato bisogno dell’intervento umano, ma d’ora in poi lavora completamente da solo.» L’altro annuì, seguendo l’ufficiale. Questi aggiunse, per garantirsi da ogni incidente: «Naturalmente a volte si verifica qualche guasto; oggi spero che non ce ne saranno, però è sempre il caso di prevederli.

Sa, l’apparecchio deve funzionare per dodici ore ininterrotte. Comunque, anche se succede un guasto, si tratta sempre di piccole cose, che si eliminano immediatamente.»

«Non vuol sedersi?» gli domandò ancora, e, avvicinatosi a una catasta di sedie di vimini, ne prese una e la porse al viaggiatore, che non poté rifiutare. Si sedette sull’orlo di una fossa nella quale gettò un’occhiata distratta. Non era molto profonda; da un lato di essa la terra scavata era ammucchiata a guisa di argine; sull’altro lato stava la macchina. «Non so,» disse l’ufficiale, «se il comandante le ha già spiegato l’apparecchio.» Il viaggiatore fece con la mano un cenno vago e l’ufficiale non chiese di meglio: era come autorizzarlo a fornire lui tutte le spiegazioni. «Quest’apparecchio,» disse, afferrando un albero di trasmissione e facendo forza su di esso, «è un’invenzione del nostro comandante precedente. Io ho collaborato a tutto il lavoro, dalle primissime prove fino al termine; ma il merito dell’invenzione è interamente suo. Non ha sentito parlare di lui? No? Bene, non esagero certo se le dico che questa colonia penale è tutta opera sua. Noi, che eravamo i suoi amici; eravamo già certi, quando egli morì, che la colonia formasse un tutto completo: a tal punto che il suo successore, per quanti progetti abbia in testa, almeno per molti anni non potrà modificare nulla di quel che già c’è. E la nostra profezia s’è avverata: il nuovo comandante l’ha dovuto ammettere. Peccato che lei non abbia conosciuto il nostro comandante di prima!… Ma,» s’interruppe l’ufficiale, «io sto qui a chiacchierare, ed invece l’apparecchio, eccolo qui davanti a noi. Come vede, si compone di tre parti, ciascuna delle quali, coll’andar del tempo, ha ricevuto una definizione in certo senso popolaresca. La parte inferiore si chiama il letto, quella di sopra il tracciatore, e questa qui in mezzo, sospesa, vien detta l’erpice.» «Erpice?» chiese l’altro. Non aveva ascoltato molto attentamente: il sole, fortissimo, invadeva la valle senz’ombra, e gli rendeva difficile raccogliere i pensieri. Ma tanto più ammirevole gli appariva l’ufficiale che, chiuso nella sua aderente divisa da parata, carica di spalline e di cordelline, si diffondeva in spiegazioni tanto precise; per di più, parlando, girava qua e là con un cacciavite in mano per stringer meglio le viti. Anche il soldato sembrava trovarsi in uno stato d’animo simile a quello del viaggiatore: si era avvolto intorno ai polsi la catena del condannato e, appoggiandosi con la mano al fucile, teneva la testa arrovesciata indietro, incurante di tutto. Il viaggiatore non se ne stupiva, poiché l’ufficiale parlava in francese, lingua che gli altri due certamente non capivano. Tanto più sorprendente era quindi il fatto che il condannato si sforzasse di star dietro alle spiegazioni dell’ufficiale: con una sorta di sonnacchiosa testardaggine continuava a volgere i suoi sguardi nei punti che l’ufficiale via via indicava; e quando quest’ultimo venne interrotto dalla domanda del viaggiatore, anch’egli, come l’ufficiale, lo guardò in volto.

«Sì, erpice,» disse l’ufficiale, «è la parola adatta. Gli aculei sono sistemati come in un erpice e tutto il blocco si muove alla maniera di un erpice, anche se sempre sullo stesso punto e con molta più precisione. Se ne avvedrà lei stesso. Il condannato viene disteso qui sul letto… Scusi: prima le descriverò l’apparecchio, e poi lo farò funzionare direttamente, sicché lei potrà seguirlo meglio. Per di più, una ruota dentata del tracciatore è stata troppo affilata, e col rumore che fa quando gira, ci s’intende a fatica: ma sa, qui purtroppo è difficile procurarsi pezzi di ricambio… Dunque, come le dicevo, questo è il letto È interamente ricoperto da uno strato di ovatta: a quale scopo, le sarà chiaro in seguito. Sullo strato di ovatta si stende il condannato, bocconi e naturalmente nudo, e con queste cinghie se ne assicurano i polsi, le caviglie e il collo. Qui, alla testata del letto, dove, come le dissi, viene a trovarsi il viso dell’uomo, è posto questo piccolo tampone di feltro, facilmente regolabile, così da riempirgli esattamente la bocca, in modo che non possa gridare né mordersi la lingua. L’uomo, beninteso, è costretto a prendere il feltro in bocca, altrimenti la cinghia che lo stringe al collo glielo spezza.» «Questa è ovatta?» domandò il viaggiatore e si sporse in avanti. «Sì, certamente,» rispose l’ufficiale sorridendo, «tocchi pure», e, presagli la mano, la strisciò sopra il letto. «È una preparazione speciale, per questo è difficile riconoscerla; ma dovrò ancora parlarle della sua funzione.» Il viaggiatore, già un po’ avvinto dalla descrizione, guardò l’apparecchio da sotto in su, facendosi riparo con una mano dal sole. Era un grosso congegno. Il letto e il tracciatore erano di uguali dimensioni e assomigliavano a due cassoni neri: il tracciatore, a circa due metri di altezza al disopra del letto, era collegato ad esso da quattro sbarre di ottone che al sole mandavano riflessi accecanti. In mezzo ai cassoni, a un nastro d’acciaio, era sospeso l’erpice.

L’ufficiale, che prima non aveva mostrato di accorgersi dell’indifferenza dell’ospite, ora evidentemente percepiva l’accrescersi del suo interesse, tanto che interruppe la spiegazione per dargli modo di osservare indisturbato. Il condannato, che imitava il viaggiatore, non potendosi riparare gli occhi con la mano, ammiccava in su con gli occhi scoperti.

«Dunque, l’uomo è sdraiato qui,» disse il viaggiatore, e, sprofondatosi indietro nella poltrona, incrociò le gambe.

«Sì,» rispose l’ufficiale, spingendo un po’ il berretto sulla nuca e passandosi la mano sulla faccia accaldata, «e ora stia a sentire! Tanto il letto che il tracciatore hanno una batteria elettrica propria: il letto per i suoi movimenti, il tracciatore per il funzionamento dell’erpice. Appena l’uomo vi viene assicurato, il letto entra in moto, compiendo piccolissimi e rapidissimi spostamenti sia in senso trasversale che dall’alto in basso. Avrà visto apparecchi analoghi negli ospedali, solo che i movimenti del nostro letto sono esattamente calcolati, perché debbono sincronizzarsi al millesimo con quelli dell’erpice. A questo erpice, appunto, è affidata in definitiva l’esecuzione della sentenza.»

«E come suona la sentenza?» domandò il viaggiatore. «Non sa neanche questo?» chiese l’ufficiale meravigliato, mordendosi le labbra. «Voglia scusarmi se le mie spiegazioni possono sembrarle disordinate: mi perdoni, la prego. Prima era sempre il comandante a spiegare, ma il suo successore si è sottratto a quest’onorifico obbligo, e il fatto che non abbia nemmeno illustrato a un così esimio ospite…» (il viaggiatore fece con le mani un gesto come a respingere l’omaggio, ma l’ufficiale ripeté il termine) «…a un così esimio ospite la forma in cui si applica la nostra sentenza, è un’altra di quelle novità che…» e qui stava per sfuggirgli un improperio, ma si trattenne e disse solo: «Non mi avevano avvertito, la colpa non è mia. Del resto, è anche vero che nessuno meglio di me è qualificato a spiegare il genere delle nostre sentenze: porto sempre qui con me» (e si batté sul taschino dell’uniforme) «i disegni autografi del nostro antico comandante.»

«I disegni autografi del comandante?» fece il viaggiatore. «Ma faceva proprio tutto lui? Era soldato, giudice, costruttore, chimico, progettista?»

«Certamente,» rispose l’ufficiale assentendo lievemente col capo e fissando gli occhi assorti nel vuoto. Poi si esaminò le mani e, non giudicandole abbastanza pulite da toccare i disegni, andò di nuovo al mastello e se le lavò. Poi trasse di tasca una piccola busta di pelle e disse: «La nostra sentenza non è severa. Il comandamento che il condannato ha violato gli sarà scritto sul corpo dall’erpice. A questo, per esempio,» l’ufficiale indicò l’uomo, «verrà scritta sul corpo la frase: Onora il tuo superiore

Il viaggiatore gettò all’uomo un fugace sguardo: quando l’ufficiale aveva fatto cenno a lui, egli stava a testa bassa e sembrava tendere tutte le forze del proprio udito per sentire qualcosa; ma i movimenti delle sue labbra tumide e schiacciate dimostravano che non riusciva a intender parola. L’esploratore avrebbe voluto fare una quantità di domande, ma in presenza dell’uomo chiese soltanto: «Lui conosce la sentenza?» «No,» rispose l’ufficiale, e fece per proseguire nella sua spiegazione, ma il viaggiatore lo interruppe: «Come, non conosce la sua sentenza?» «No,» ripeté l’ufficiale; si arrestò un attimo, quasi aspettandosi dal suo interlocutore una maggior giustificazione di quella richiesta, poi continuò: «Non ci sarebbe motivo di comunicargliela, dal momento che la deve apprendere sulle sue carni.» Il viaggiatore non sapeva più che dire, ma si accorse che lo sguardo del condannato era rivolto su di lui: sembrava che gli chiedesse se poteva approvare un simile procedimento. Si chinò di nuovo in avanti, mentre prima se ne stava appoggiato allo schienale, e domandò ancora: «Ma almeno lo sa, no, che è stato condannato?» «No, nemmeno questo,» disse l’ufficiale sorridendo, come se fosse pronto alle più bizzarre sortite da parte dell’ospite. «No,» ripeté il viaggiatore tergendosi la fronte con una mano, «ma dunque quest’uomo neppure adesso sa come sia stata svolta la sua difesa?» «Non ha avuto alcuna possibilità di difendersi,» rispose l’ufficiale guardando di lato e come parlando tra sé, quasi che non volesse, col racconto di cose per lui tanto ovvie, mettere a disagio il viaggiatore. «Eppure deve essergli stata data la possibilità di difendersi,» disse quest’ultimo, e si alzò dalla poltrona.

L’ufficiale, rendendosi conto che rischiava di essere impedito a lungo nella spiegazione della macchina, si avvicinò al viaggiatore, lo prese sottobraccio e indicò il condannato, il quale, vistosi oggetto di tanta curiosità, si mise sull’attenti; e anche il soldato tirò a sé la catena. «Le cose stanno così,» disse l’ufficiale: «in questa colonia io svolgo le funzioni di giudice. Questo nonostante la mia giovane età, perché sono sempre stato a fianco del vecchio comandante in tutto ciò che concerneva le punizioni e m’intendo dell’apparecchio come nessun altro. Il principio in base al quale io decido è: la colpa è sempre fuori dubbio. Può darsi che altri tribunali non seguano questo principio, dato che sono collegiali e hanno altri tribunali sopra di loro; ma tale non è il nostro caso, o perlomeno non lo era col vecchio comandante. Il nuovo, in realtà, ha già mostrato voglia d’immischiarsi nei miei giudizi, ma finora sono sempre riuscito a tenerlo fuori, e ci riuscirò anche in seguito… Lei desiderava spiegazioni su questo caso? È semplice come qualsiasi altro. Un capitano stamane ha presentato denuncia contro quest’uomo perché, essendogli destinato come attendente e dormendo davanti al suo uscio, si è addormentato durante il servizio. Lui infatti ha la consegna di alzarsi ad ogni batter d’ora e di fare il saluto davanti all’uscio del suo ufficiale: una consegna sicuramente non difficile, ma ben necessaria per mantenersi alacre nello svolgimento dei suoi compiti sia di guardia sia di domestico. La notte scorsa il capitano volle verificare se l’attendente faceva il suo dovere: al suono delle due aprì la porta e lo trovò che dormiva, tutto raggomitolato. Allora prese lo scudiscio e lo frustò sul viso; e costui, invece di alzarsi e implorare perdono, afferrò il signore per le gambe, lo scrollò e si mise a gridare: ” Butta via quella frusta, o ti mangio! ” Fin qui i fatti. Un’ora fa il capitano venne da me, io trascrissi la sua deposizione e aggiunsi immediatamente la sentenza; quindi feci incatenare l’uomo. Semplicissimo, come vede. Se avessi cominciato col convocarlo e coll’interrogarlo, ne sarebbe nata soltanto confusione. Lui avrebbe mentito, e anche se io fossi riuscito a confutare le sue menzogne, ne avrebbe inventate delle altre, e così avanti. Invece ora lo tengo in pugno e non lo lascio più andare… Tutto chiaro, adesso? Ma il tempo passa, ormai l’esecuzione dovrebbe aver inizio, e io non ho ancora finito di spiegarle l’apparecchio.» Costrinse il viaggiatore a sedersi sulla seggiola, tornò verso la macchina e cominciò: «Come vede, l’erpice corrisponde alla forma del corpo umano: questa è la parte per il tronco, queste altre per le gambe. Alla testa è destinato solo questo piccolo aculeo. Chiaro?» E si sporse in avanti verso il viaggiatore, pronto a fornirgli le spiegazioni più ampie.

Il viaggiatore guardò l’erpice aggrottando la fronte. Le notizie sulle modalità del giudizio non l’avevano soddisfatto. Rifletté tuttavia che quella era una colonia penale, soggetta quindi a regole particolari e dove il costume militare doveva essere applicato in pieno. Inoltre faceva qualche affidamento sul nuovo comandante: questi sembrava aver intenzione di introdurre, seppur lentamente, una nuova procedura cui la ristretta mentalità di quell’ufficiale appariva refrattaria. Seguendo quel filo di pensieri il viaggiatore domandò se il comandante avrebbe assistito all’esecuzione. «Non è certo,» rispose l’ufficiale, sgradevolmente sorpreso dalla domanda fattagli a bruciapelo, tanto che l’espressione cortese sparì dal suo viso, «e appunto perciò dobbiamo sbrigarci. Sarò anzi costretto, per quanto me ne dispiaccia, ad abbreviare la mia spiegazione: ma domani, quando l’apparecchio sarà stato ripulito (l’unico suo difetto è proprio quello di sporcarsi tanto) potrò entrare in maggiori dettagli. Ora mi limiterò all’essenziale. Quando l’uomo è disteso sul letto e a quest’ultimo viene impresso il movimento tremolante, l’erpice si abbassa sul corpo, disponendosi da se stesso in modo da toccarlo soltanto con la punta: raggiunta tale posizione, il nastro d’acciaio diventa rigido come una sbarra. E a questo punto scatta il congegno. Il profano non si rende conto delle differenze che esistono tra una pena e l’altra, perché apparentemente l’erpice lavora in modo uniforme. Esso vibra mentre trafigge con gli aculei il corpo, il quale pure trema per il movimento impresso al letto. Per consentire a tutti di controllare l’esecuzione della sentenza, l’erpice è stato costruito in vetro; il fissarvi dentro gli aghi ha causato notevoli difficoltà tecniche, ma dopo vari tentativi ci si è riusciti. Davvero, non abbiamo risparmiato fatica. E adesso chiunque può vedere attraverso il vetro come la scritta s’incide nel corpo. Vuol dare un’occhiata agli aghi più da vicino?»

Il viaggiatore si alzò lentamente in piedi, si avvicinò e si chinò sopra l’erpice.«Come vede,» disse l’ufficiale, «ci sono due tipi di aghi diversamente raggruppati. Accanto ad ogni ago lungo ce n’è uno corto: quello lungo ha la funzione di scrivere, mentre quello corto, sprizzando un piccolo getto d’acqua, lava via il sangue e tiene la scritta sempre visibile. L’acqua insanguinata viene incanalata in queste piccole condutture e termina in una conduttura principale, il cui tubo di scarico sbocca nella fossa.» L’ufficiale mostrò col dito l’esatto percorso compiuto dall’acqua insanguinata, e infine, per rendere la cosa evidente al massimo, strinse con le due mani la bocca del tubo. In quel momento il viaggiatore rialzò il capo e, tastando con la mano, fece per rimettersi a sedere nella poltroncina; ma vide che il condannato, obbedendo al pari di lui all’invito dell’ufficiale, s’era avvicinato all’erpice per osservarne la struttura: tirando un po’ avanti con la catena il soldato sonnacchioso, si era piegato anch’egli sopra il vetro. Si vedeva bene come, coi suoi occhi incerti, cercava di scorgere lui pure le cose che i due signori avevano esaminato, ma senza riuscirci, dato che la spiegazione gli era sfuggita; e si piegava di qua e di là, mentre di continuo i suoi occhi percorrevano la superficie del vetro. Il viaggiatore voleva spingerlo via, poiché era senza dubbio un’infrazione quella che l’uomo commetteva; ma l’ufficiale lo trattenne con una mano, afferrò con l’altra dal mucchio lì accanto una manciata di terra e la gettò al soldato. Costui aprì gli occhi di colpo, vide quel che aveva osato fare il condannato; lasciò cadere il fucile e, puntando a terra i talloni, tirò indietro l’uomo con violenza, tanto da farlo ruzzolare al suolo, dove rimase a voltolarsi fra un tintinnar di catene. «Rialzalo!» gridò l’ufficiale, accortosi che il viaggiatore era tutto preso dal condannato: anzi, non s’interessava affatto dell’erpice, ma, chinato su di esso senza guardarlo, si preoccupava solo di ciò che stavano facendo a quell’altro. «Trattalo con un po’ di cura!» gridò ancora l’ufficiale, fece il giro dell’apparecchio, e, preso il condannato sotto le ascelle, con l’aiuto del soldato lo rimise egli stesso in piedi, sorreggendolo perché scivolava di continuo.

«Ora ho capito tutto,» disse il viaggiatore quando l’ufficiale gli tornò accanto. «Le manca la cosa più importante,» ribatté questi e, afferrandolo per il braccio, gli indicò un punto in alto della macchina: «Lì, nel tracciatore, c’è l’ingranaggio che regola il movimento dell’erpice, e quest’ingranaggio viene preparato a seconda del disegno cui la sentenza si riferisce. Io uso ancora i disegni del mio antico comandante: eccoli,» e trasse alcuni fogli dalla busta di cuoio, «però purtroppo non posso lasciarglieli toccare, sono la cosa più cara che ho al mondo. Si segga, glieli mostrerò da qui, un po’ distante, li vedrà benissimo.» E mostrò il primo foglio. Il viaggiatore sarebbe stato lieto di poter dire qualche frase di apprezzamento; ma non riusciva a vedere che una quantità di linee incrociantisi e intrecciantisi, a guisa di labirinto; la carta ne era così fittamente riempita, da lasciar distinguere a fatica qualche spazio bianco. «Legga,» gli disse l’ufficiale. «Non ci riesco,» rispose il viaggiatore. «Eppure è chiaro,» ribatté l’altro. «Molto artistico,» disse il viaggiatore schermendosi, «ma per me è indecifrabile.» «Ah certo,» fece l’ufficiale ridendo, mentre riponeva il foglio nella cartella, «non è un esercizio di calligrafia per scolaretti. Ci vuol tempo per leggerlo, ma alla fine anche lei riuscirebbe di certo a capire. È logico che non possa trattarsi di una scritta semplice, dato che non deve uccidere subito, ma soltanto, in media, entro un lasso di dodici ore; alla sesta ora si calcola che giunga il punto critico. Perciò è necessario che ci siano molti, moltissimi arabeschi intorno alla scritta: quest’ultima, in sé e per sé, forma intorno al corpo solo una piccola striscia, mentre tutto il resto è riservato agli ornamenti. S’è fatto un’idea, ora, del lavoro dell’erpice e di tutta quanta la macchina? … Guardi un po’!» D’un balzo salì una scala, azionò una ruota, gridò verso il basso: «Attento, si scosti!» e tutto si mise a girare. Se non fosse stato per il cigolio della ruota, l’effetto era stupendo. L’ufficiale, come seccato da quella ruota importuna, la minacciò col pugno, poi, quasi a scusarsi, spalancò le braccia verso il viaggiatore e ridiscese in fretta, per osservare dal basso il funzionamento dell’apparecchio. Accertatosi che c’era qualcos’altro fuori di posto, si arrampicò su di nuovo, frugacchiò con entrambe le mani all’interno del tracciatore, poi, volendo fare più presto, non si servì della scala, ma scivolò lungo una stanga, e superando il chiasso gridò a perdifiato nell’orecchio del viaggiatore: «Ha capito, adesso? L’erpice comincia a scrivere; appena ha completato il primo tracciato della sentenza sulla schiena dell’uomo, lo strato d’ovatta scorre avanti e fa ruotare lentamente il corpo sul fianco, lasciando così all’erpice nuovo spazio. Frattanto i punti trafitti si comprimono sull’ovatta, e questa, grazie alla sua speciale preparazione, arresta subito l’uscita del sangue e rende possibile un ulteriore scavo della scritta. Successivamente, questi denti collocati sull’orlo dell’erpice, man mano che il corpo gira, strappano l’ovatta dalle parti ferite e la gettano nella fossa, sicché l’erpice può riprendere a lavorare; e così continua ad incidere sempre più profondamente per dodici ore. Per le prime sei il condannato continua a vivere pressappoco come prima, solo prova forti dolori. Dopo due ore, quando si può ritenere che non abbia più forza per gridare, il tappo di feltro gli vien tolto di bocca. In questa ciotola che sta verso la testata, e che è riscaldata elettricamente, si pone una pappa di riso tiepida: il condannato, se ne ha voglia, può cibarsene, nella misura in cui riesce ad afferrarla con la lingua. Non ce n’è uno che vi rinunci, almeno per quanto ne so io, ed ho molta esperienza. Solo dopo sei ore cominciano a perdere il gusto del cibo; è il momento, di solito, in cui m’inginocchio qui ad osservare il fenomeno. Raramente l’uomo inghiotte l’ultimo boccone: se lo rigira in bocca e poi lo sputa nella fossa, tanto che devo abbassarmi se non voglio che me lo mandi in faccia. Ma, passata la sesta ora, come tutti diventano silenziosi! Anche nei più ebeti si desta l’intelligenza: comincia dagli occhi, e da lì si diffonde; lo spettacolo è tale che uno si sentirebbe invogliato di mettersi anche lui sotto l’erpice! Non che succeda nulla di nuovo, ma l’uomo comincia però a decifrare la scritta; e fa una smorfia con la bocca, come se stesse in ascolto. La scritta – lei l’ha constatato – non si decifra facilmente con gli occhi; ma il nostro uomo comincia a decifrarla con le sue ferite. Certo, il lavoro è lungo; per venirne a capo ci voglion sei ore. Dopo di che, l’erpice infilza per intero il corpo e lo scaraventa nella fossa, dove piomba in mezzo all’ovatta e all’acqua insanguinata. L’esecuzione a questo punto è finita, e noi due, il soldato e io, lo copriamo di terra.»

Il viaggiatore, chinato un orecchio verso l’ufficiale e affondate le mani nelle tasche della giacca, guardava il funzionamento della macchina. Anche il condannato la guardava, ma con occhio opaco: piegato un poco in avanti, seguiva il tentennio degli aghi, quando il soldato, obbedendo a un cenno dell’ufficiale, con un coltello gli aprì camicia e calzoni sul didietro. I panni caddero di dosso all’uomo, che tentò di afferrarli per coprire le sue nudità, ma il soldato lo alzò di peso, sì che gli ultimi stracci gli scivolarono giù dal corpo. L’ufficiale fermò la macchina, e nel silenzio che subito regnò il condannato venne disteso sotto l’erpice. Gli furono sciolte le catene e in loro luogo lo avvinsero le cinghie: questo sembrò al primo momento procurargli un senso di refrigerio. L’erpice venne poi abbassato ancora di un tratto, poiché l’uomo era magro. Al momento in cui gli aculei lo toccarono, un brivido corse la sua pelle; e, mentre il soldato si affaccendava intorno alla sua mano destra, egli stese la sinistra, senza saper dove: era la direzione in cui si trovava il viaggiatore. L’ufficiale sogguardava incessantemente quest’ultimo, quasi a spiare sul suo viso l’effetto che gli produceva l’esecuzione, da lui descrittagli almeno per sommi capi.

La cinghia destinata al polso si strappò: forse il soldato l’aveva tirata con troppa forza. L’ufficiale intervenne, il soldato gli mostrò il moncone di cinghia strappato. L’ufficiale passò dall’altra parte, vicino al soldato, e volgendo il viso al viaggiatore disse: «La macchina è complicatissima, fatalmente qui o là si strappa o si rompe qualcosa; non è però una ragione per lasciarsi sviare nel giudizio complessivo. Questa cinghia si sostituisce subito: ci metterò una catenella; è vero che per il braccio destro le vibrazioni non si potranno più imprimere con la dovuta leggerezza.» E, mentre applicava le catene, aggiunse: «I mezzi per la manutenzione della macchina oggi sono assai limitati. Quando c’era il vecchio comandante, io disponevo liberamente di un fondo creato apposta per questo scopo. Avevamo un magazzino completamente fornito di tutti i pezzi di ricambio. Devo dire che quasi quasi li sprecavo: prima, intendo, e non adesso, come sostiene il nuovo comandante, che approfitta di ogni pretesto per attaccare i vecchi sistemi. Adesso, il fondo per la manutenzione l’amministra lui stesso, e se io mando a cercare una nuova cinghia, devo unire quella strappata come pezza d’appoggio; la nuova arriva solo dopo dieci giorni, è di qualità scadente e non funziona a dovere. Come io poi faccia, nel frattempo, a far funzionare la macchina senza cinghia, è cosa di cui nessuno si cura.»

Il viaggiatore rifletteva come fosse scabroso ingerirsi risolutamente in questioni estranee. Lui non era cittadino di quella colonia penale e neppure dello stato cui la colonia apparteneva; se avesse voluto condannare l’esecuzione, o anche opporvisi, gli avrebbero potuto rispondere: «Taci, tu, che sei uno straniero.» Al che non avrebbe avuto nulla da obiettare, bensì solo da aggiungere che lui stesso non capiva come s’era messo in quella condizione, dato che viaggiava unicamente per vedere delle cose e niente affatto per modificare leggi e procedure di paesi stranieri. Stavolta però la tentazione era grande: l’iniquità del processo, l’inumanità dell’esecuzione erano fuori di dubbio; né d’altra parte alcuno avrebbe potuto sospettare il viaggiatore di avere interesse alla faccenda: il condannato non aveva rapporto con lui, non era suo compatriota e neppure tale da destare particolare compassione. Il viaggiatore, inoltre, disponendo di commendatizie di alti funzionari, era stato accolto con grande cortesia, e il fatto che l’avessero invitato a quell’esecuzione sembrava quasi sollecitare un suo giudizio sull’intero procedimento. La congettura era tanto più fondata, in quanto – come testé aveva chiarissimamente udito – il comandante era tutt’altro che favorevole a quel sistema e, di fronte all’ufficiale, si comportava quasi con ostilità.

In quel momento, un grido di rabbia dell’ufficiale arrivò sino a lui. Era riuscito, non senza fatica, ad infilare il tappo di feltro in bocca al condannato, allorché questi, preso da un incoercibile impulso di nausea, chiuse gli occhi e vomitò. In fretta e furia l’ufficiale gli scostò la testa dal tappo e fece per voltargliela verso la fossa di scarico; ma era già troppo tardi, l’apparecchio grondava ormai di sozzura. «Tutta colpa del comandante!» gridò l’ufficiale, scuotendo forsennatamente le sbarre d’ottone, «guardi un po’, la macchina mi s’imbratta peggio di una stalla!» E con le mani tremanti indicò al viaggiatore l’accaduto. «Non avessi per ore tentato di fargli capire che, il giorno prima dell’esecuzione, il condannato non deve più ingerire alcun cibo! Ma ormai s’inclina all’indulgenza, e si ragiona diversamente. Le signore del comandante, prima che quest’uomo fosse portato all’esecuzione, l’hanno imbottito di dolciumi: ha mangiato pesci marci tutta la vita, e adesso mangia i dolci! E del resto sarei anche d’accordo, non avrei nulla da obiettare, purché però ci mettessero un feltro nuovo, come chiedo da anni! Come si può non sentirsi rivoltare lo stomaco a prendere in bocca questo feltro, che è stato succhiato e morsicato da più di cento uomini agonizzanti?»

Il condannato aveva appoggiato giù il capo e sembrava tranquillo; il soldato gli aveva tolto la camicia e con quella si dava da fare a ripulire la macchina. L’ufficiale andò verso il viaggiatore, che, colto da un imprecisabile sentimento, fece un passo indietro; ma l’altro lo prese per mano e lo trasse in disparte. «Vorrei dirle qualche parola in confidenza,» disse: «me lo permette?» «Certo,» rispose il viaggiatore e stette ad ascoltarlo, lo sguardo abbassato.

«Questo processo e quest’esecuzione, che lei ora ha l’occasione di ammirare, ormai non trovano più, nella nostra colonia, chi li sostenga apertamente. Io ne sono l’unico assertore, così come sono restato solo ad incarnare l’eredità del nostro antico comandante. Ad ulteriori perfezionamenti procedurali non è nemmeno il caso di pensare: mi ci vuol già abbastanza fatica a conservare ciò che è rimasto. Quando il vecchio comandante era in vita, la colonia era piena di suoi seguaci, e a me, in una certa misura, si è trasmessa la sua forza di convinzione, ma mi manca il suo potere: di modo che i seguaci si sono rintanati, ce n’è ancora parecchi, sì, ma nessuno vuol riconoscerlo. Se oggi, che è giorno d’esecuzione, lei andasse al caffè e orecchiasse i discorsi che vi si fanno, probabilmente udrebbe solo delle frasi ambigue. Sono tutti della vecchia idea, ma sotto l’attuale comandante, e con le tendenze che prevalgono, non posso fare nessun conto su di loro. Ora, io le domando: è ammissibile che a causa di un comandante e delle donne che lo influenzano, questo», e indicò l’apparecchio, «ch’è l’opera di un’intera vita, vada in malora? È una cosa tollerabile, anche da chi si fermi per qualche giorno nella nostra isola come turista? Però non bisogna perdere tempo, si sta già macchinando contro la mia giurisdizione, al comando si tengono già riunioni alle quali io non sono convocato; perfino questa sua visita mi sembra illuminante per l’intera situazione: hanno paura e mandano lei, uno straniero, in avanscoperta… Com’erano diverse le esecuzioni in altri tempi! Fin dal giorno prima la valle riboccava di gente; tutti venivano soltanto per vedere; la mattina presto arrivava il comandante con le signore; l’intero campo si destava allo squillo delle fanfare; io riferivo che ogni cosa era pronta, e tutti gl’intervenuti si schieravano intorno alla macchina: nemmeno un alto funzionario poteva mancare; questa catasta di seggiole di vimini è un misero avanzo di quei tempi lontani. La macchina risplendeva, lucidata di fresco: quasi ad ogni esecuzione ne cambiavo qualche pezzo. Davanti a centinaia di occhi (tutti gli spettatori, fin lassù in cima alle colline, si ergevano sulle punte dei piedi) il condannato veniva posto sotto l’erpice dal comandante in persona. Il compito che oggi è affidato a un soldato semplice, allora era riservato a me, al presidente del tribunale, e mi onorava altamente. E finalmente aveva inizio l’esecuzione! Nessuna nota stonata veniva a turbare il lavoro della macchina. Molti non guardavano neppure, stavano sdraiati con gli occhi chiusi nella sabbia; ognuno sapeva che in quel momento si compiva la giustizia. Nel silenzio s’udiva solo il gemito del condannato, attutito dal feltro. Oggi la macchina non riesce più a strappare al condannato un gemito così forte che il feltro non riesca a soffocarlo, mentre allora gli aghi traccianti secernevano un liquido corrosivo di cui adesso è proibito l’uso. Bah! Infine arrivava la sesta ora! Era impossibile accogliere il desiderio che tutti manifestavano, di guardare lo spettacolo da vicino. Saggiamente il comandante disponeva che prima di tutto ci si preoccupasse dei fanciulli; io, che per motivi professionali dovevo sempre stare lì accanto, più di una volta ho tenuto in braccio due bambinelli, uno a destra, l’altro a sinistra. Come spiavamo l’espressione trasfigurata che appariva su quel viso dolorante! Come offrivamo le nostre gote al fulgore di quella giustizia che, appena raggiunta, già stava svanendo! Che tempi, camerata!» L’ufficiale evidentemente si era dimenticato di chi gli stava dinanzi: aveva abbracciato il viaggiatore posandogli il capo sulla spalla. Il viaggiatore, in preda al massimo imbarazzo, distolse con impazienza lo sguardo da lui. Il soldato, dopo aver terminata la ripulitura, versava ora da un barattolo nella ciotola la pappa di riso. Non appena il condannato – che ormai sembrava essersi completamente rimesso – si accorse di ciò, prese subito ad allungare la lingua verso il cibo. Il soldato lo respinse più volte, poiché la pappa doveva essere consumata in seguito; ma era comunque indecoroso vedere come anch’egli vi affondasse le mani sporche e se ne servisse mentre il condannato lo stava a guardare.

L’ufficiale riprese presto il controllo di sé. «Non volevo intenerirla,» disse, «so bene che è impossibile dare oggi un’idea di quei giorni. Del resto, la macchina funziona sempre e basta da sola a fare il suo effetto. Lo fa anche stando in mezzo a questa valle deserta. E alla fine il cadavere cade sempre con quel suo volo incredibilmente dolce giù nella fossa, anche se intorno a questa non si radunano più, come allora, centinaia di persone fitte come le mosche. Allora si dovette circondare la fossa con un solido parapetto, che da un pezzo è stato divelto.»

Il viaggiatore, desideroso di non guardare in viso l’ufficiale, girava intorno gli occhi senza meta. L’ufficiale, credendo che osservasse lo squallore del luogo, gli afferrò le mani, gli si portò davanti per fissare il suo sguardo e gli domandò: «Vede che vergogna?»

Ma il viaggiatore tacque. L’ufficiale si allontanò un attimo da lui; a gambe divaricate, le mani puntate sui fianchi, se ne stette silenzioso guardando al suolo. Poi, rivolgendo all’ospite un sorriso incoraggiante: «Ieri le stavo accanto,» disse, «quando il comandante la invitò; udii l’invito che le rivolse. Io, il comandante, lo conosco. Perciò capii subito che cosa si proponeva invitandola. Anche se avrebbe abbastanza potere per procedere contro di me, non osa ancora farlo, ma mi vuole esporre al suo giudizio, al giudizio di uno straniero eminente. Il suo calcolo è astuto: lei è qui nell’isola da due giorni, non conosceva il vecchio comandante e il suo ordine d’idee, è imbevuto di mentalità europea, forse è un fiero avversario della pena di morte in genere, e in particolare di questo tipo di esecuzioni basate su macchine; constata inoltre come la condanna si esegue senza che il pubblico vi prenda parte, tristemente, per mezzo di una macchina già un po’ malandata… Considerato tutto ciò, non si può ritenere molto probabile (così ragiona il comandante) che lei disapprovi il mio procedimento? E se lo disapprova (parlo sempre seguendo il ragionamento del comandante), non ne farà mistero, dato che certo lei ha fede nelle sue granitiche convinzioni. Poiché però lei ha visto le costumanze di molti popoli, ed ha imparato a rispettarle, è prevedibile che non condannerà la nostra procedura con quella violenza di cui forse darebbe prova in patria. Ma di ciò il comandante non ha affatto bisogno: a lui basta una parola fuggevole, un’espressione appena un po’ incauta; e non è punto indispensabile che corrisponda all’opinione che lei si è fatta, purché si concilii coi suoi desideri. Le porrà delle domande scaltrissime, non c’è alcun dubbio; e le signore le sederanno in circolo attorno aguzzando le orecchie; lei per esempio dirà: “Da noi la procedura è diversa”, oppure: “Da noi, prima della sentenza, si usa interrogare l’imputato”, oppure: “Da noi ci sono anche altre pene oltre a quella di morte”, o infine: “Da noi la tortura c’era solo nel Medioevo”: tutte osservazioni altrettanto giuste quanto, ai suoi occhi, naturali: osservazioni innocenti, che non intaccano il mio sistema. Ma come le accoglierà il comandante? Già me lo vedo, quel brav’uomo, scansare di colpo la sedia e correre al balcone, già vedo le signore precipitarglisi dietro, e sento la sua voce (una voce di tuono, a detta delle signore) che parla così: “Un grande studioso dell’Occidente, incaricato d’indagare i procedimenti penali nei vari paesi, ci ha detto poco fa che il nostro sistema, regolato dalle antiche usanze, è inumano. Dopo questo giudizio espresso da una così illustre personalità, è comprensibile che io non possa più oltre tollerare tale stato di fatto. Dispongo perciò che, a partire da oggi… eccetera, eccetera.” Lei cerca d’interromperlo, di fargli presente che non ha detto ciò che lui sta annunciando, che non ha dichiarato inumano il mio sistema, ma anzi che in tutta coscienza lo giudica umanissimo e degnissimo, così come trova ammirevoli questi ordigni… ma ormai è tardi: non riuscirà a metter piede sul balcone, dove le signore fanno ressa; tenterà di farsi notare, di gridare, ma una mano femminile le tapperà la bocca, ed io sarò perduto, e con me l’opera del vecchio comandante.»

Il viaggiatore sentì un sorriso salirgli alle labbra: era dunque così semplice quel compito che gli era parso tanto gravoso? Disse, per sviare il discorso: «Lei sopravvaluta la mia importanza; il comandante ha letto la mia lettera di presentazione e sa che non sono uno specialista di processi penali. Se anche dovessi esprimere la mia opinione, sarebbe sempre l’opinione di un qualunque privato, in nessun modo più rilevante di quella di chiunque altro, e comunque assai più irrilevante di quella del comandante stesso, che, a quanto mi risulta, esercita nella colonia una potestà molto ampia. Se sull’attuale procedura egli si è fatto l’opinione che lei ritiene, temo che in ogni caso, anche senza il mio modesto aiuto, questo sistema sia destinato a scomparire.»

Bastava quel chiarimento all’ufficiale? Evidentemente ancora no. Scosse energicamente il capo, si voltò in fretta a guardare il condannato e il soldato, che trasalirono e smisero di mangiare il riso; si portò accanto al viaggiatore e, fissandolo non in faccia, ma in un punto a caso del vestito, gli disse abbassando la voce: «Lei non conosce il comandante; davanti a lui e a tutti noi lei fa – scusi l’espressione – un po’ la parte dell’ingenuo, mentre, mi creda, la sua influenza è davvero inestimabile. Quando sentii che lei solo avrebbe assistito all’esecuzione, ne fui felice. Quella disposizione del comandante, che era destinata a colpirmi, ora la posso ritorcere a mio favore. Lei è stato ad ascoltare la mia spiegazione senza essere distratto da falsi mormorii, da occhiate sprezzanti, cosa che non avrebbe potuto evitare se qui ci fosse stata folla; ha potuto vedere la macchina, e adesso è in procinto di assistere all’esecuzione. Il suo giudizio è sicuramente già formato, e, se avesse ancora qualche incertezza, la vista dell’esecuzione basterà ad annullarla. Ecco dunque la preghiera che le rivolgo: mi aiuti di fronte al comandante!»

Il viaggiatore non lo lasciò proseguire: «E come potrei?» esclamò. «Non ho alcun modo di aiutarla. Non posso esserle di giovamento, così come non posso nuocerle.»

«Certo che può,» disse l’ufficiale; e il viaggiatore, un po’ intimorito, notò che stringeva i pugni. «Certo che può,» ripeté l’ufficiale calcando le parole. «Ho un mio progetto e voglio farlo riuscire. Lei crede che la sua influenza non sia sufficiente: io invece so che lo è. Ma ammettiamo pure che lei abbia ragione: non dobbiamo allora tentare di tutto, magari andando incontro ad un fallimento, pur di mantenere in vita questo sistema? Ascolti dunque il mio progetto. Per realizzarlo è necessario anzitutto che lei oggi si astenga il più possibile dal dare alla gente della colonia un giudizio sulla procedura. Se nessuno la interroga in modo preciso, deve tacere; se manifesta un’opinione, lo faccia brevemente, vagamente; si deve avere l’impressione che le riesca sgradevole parlare dell’argomento, che è amareggiato, che, semmai dovesse parlare, uscirebbe in invettive. Non le chiedo di mentire, no, niente affatto; risponda solo con poche parole, per esempio: “Sì, ho assistito all’esecuzione”, oppure: “Sì, ho ascoltato tutte le spiegazioni.” Non più di questo. Quanto all’amarezza che si deve notare in lei, ce n’è motivo abbastanza, anche se non nel senso che piacerebbe al comandante. Il quale, beninteso, capirà tutto a rovescio, interpreterà la cosa a modo suo. E appunto su questo si fonda il mio piano. Domani al comando, sotto la presidenza del comandante, si terrà una grande riunione di tutti i massimi funzionari. Il comandante ha saputo trasformare, naturalmente, queste riunioni in manifestazioni spettacolari, ed ha fatto costruire una balconata che è sempre piena di gente. Io sono costretto, anche se nauseato fino al midollo, a partecipare a codesti consessi. Lei, in ogni caso, vi sarà certamente invitato, e se oggi si comporta in conformità al mio piano, più che di invito si dovrà parlare di pressante preghiera. Se poi, per un qualunque imprevedibile motivo, l’invito non le pervenisse, dovrebbe senz’altro reclamarlo: in tal caso non potranno negarglielo. Dunque, lei domani starà seduto insieme alle signore nel palco del comandante, il quale, con continue occhiate verso l’alto, si accerterà della sua presenza. Dopo che si saranno discussi parecchi argomenti – secondari, ridicoli, buoni solo a far presa sugli ascoltatori; di solito si tratta di opere portuali: sempre con queste opere portuali! – finalmente viene affrontata la questione della procedura. Se il comandante non volesse affrontarla, o non l’affrontasse abbastanza presto, ci penserò io a farlo decidere: mi alzerò e annunzierò che oggi ha avuto luogo l’esecuzione. Non dirò altro: solo questo. È un annuncio che, normalmente, non viene dato in quelle circostanze; ma io lo darò. Il comandante, come al solito, mi ringrazia con un bel sorriso, ma poi non può trattenersi dall’approfittare dell’occasione che gli si offre. “In merito all’annuncio testé dato dell’avvenuta esecuzione” – così, più o meno, si esprimerà -, “vorrei far notare che l’esecuzione stessa è stata presenziata dall’eminente studioso la cui visita, come tutti sapete, tanto altamente onora la nostra colonia; e anche alla nostra riunione odierna la sua partecipazione conferisce particolare significato. Perché non chiediamo ora a questo illustre studioso qual è il suo giudizio sull’esecuzione secondo la vecchia usanza, nonché sull’istruttoria che la precede?” Grandi applausi, non occorre dirlo, segni generali d’approvazione: son io quello che applaude più forte. Il comandante le rivolge un inchino, poi dice: “Pongo dunque a nome di tutti questa domanda.” Ed ecco che lei si fa al parapetto. Metta le mani in modo che tutti le vedano, altrimenti le signore gliele afferrano per trastullarsi con le sue dita – . Finalmente, adesso, si ascolta la sua parola! Non so come farò a sopportare la tensione delle ore che ci separano da quel punto. Nel suo discorso lei non deve porsi alcun limite: gridi forte la verità, si chini sul parapetto, urli, sì certo, urli in viso al comandante la sua opinione, la sua fermissima opinione. Ma forse non vorrà far questo, non corrisponde al suo carattere; nella sua patria ci si comporta forse diversamente in circostanze simili… be’, d’accordo, basterà anche così: non si alzi nemmeno, si limiti a pronunciare qualche parola, la sussurri, in modo che la odano appena i funzionari sotto di lei, sarà sufficiente; no, non occorre affatto che sia lei a parlare della scarsa assistenza di pubblico all’esecuzione, della ruota che cigola, delle cinghie strappate, del feltro ripugnante, macché, a tutto il resto ci penso io; e, mi creda, se il mio discorso non lo farà fuggire dalla sala, lo piegherà in ginocchio: “Vecchio comandante,” dovrà dire, “m’inchino a te.” Ecco qual è il mio progetto: vuole aiutarmi a realizzarlo? Ma si capisce che lo vuole; lo deve, anzi.» E l’ufficiale strinse entrambe le braccia del viaggiatore, e lo fissò gravemente negli occhi. Aveva gridato così forte le ultime frasi, che anche il soldato e il condannato si erano fatti attenti; sebbene non capissero una parola, smisero di mangiare e, con la bocca piena di cibo, guardarono il viaggiatore.

Costui non aveva mai nutrito il menomo dubbio sul come rispondere: troppo vasta era la sua esperienza della vita perché, in questo caso, potesse esitare, ed in fondo era un uomo leale e senza paura. Ciononostante, al vedere il soldato e il condannato, ebbe un attimo d’incertezza; ma poi, com’era suo dovere, rispose: «No.» L’ufficiale sbatté più volte le palpebre, pur continuando a fissarlo. «Desidera una spiegazione?» domandò il viaggiatore; l’ufficiale, muto, assentì. «Sono contrario a questa procedura,» dichiarò l’altro senza ambagi; «già prima che lei mi scegliesse a confidente (e stia certo che in nessun caso abuserò della sua fiducia) mi ero chiesto se mi sarebbe stato lecito oppormi ad essa, e se tale mia opposizione avrebbe avuto una sia pur minima speranza di successo. Fin d’allora era chiaro per me che la prima persona che avrei dovuto avvicinare a questo scopo era il comandante; lei non ha fatto che confermarmelo. Non che ciò abbia contribuito a rafforzare la mia decisione; al contrario, la sua sincera convinzione mi commuove, anche se non mi può indurre in errore.»

L’ufficiale non disse parola; si voltò verso la macchina, afferrò una delle stanghe di metallo, poi, piegandosi un po’ indietro, guardò in su verso il tracciatore, come per accertarsi che tutto fosse in ordine. Il soldato e il condannato sembravano aver stretto amicizia; il condannato, nonostante le cinghie che lo legavano strettamente, riuscì a fare un cenno al soldato, il quale si chinò verso di lui; l’altro gli sussurrò qualcosa, e il soldato annuì col capo.

Il viaggiatore raggiunse l’ufficiale: «Non le ho ancora detto,» proseguì, «che cosa ho in animo di fare. Esporrò al comandante la mia opinione sulla procedura, ma non in una riunione, bensì da solo a solo, e prima che possano convocarmi a qualsiasi riunione, me ne andrò via di qui. Ripartirò, o meglio m’imbarcherò, domattina stessa.»

L’ufficiale non parve nemmeno aver udito. «La procedura, dunque, non l’ha convinta,» disse tra i denti, e sorrise come un vecchio sorriderebbe alle sciocchezze di un bimbo, seguendo il corso dei suoi pensieri dietro il sorriso.

«È tempo, allora,» disse infine, e tutt’a un tratto diresse verso il viaggiatore uno sguardo lucido, in cui pareva vibrare come un invito, un appello.

«Tempo di che?» domandò inquieto il viaggiatore, ma non ebbe risposta.

«Sei libero,» disse l’ufficiale al condannato nella sua lingua. Quest’ultimo dapprima non gli credette. «Ti ho detto che sei libero,» ripeté l’ufficiale; e per la prima volta un raggio di vera vita illuminò il volto del condannato. Era la verità? O era solo un capriccio dell’ufficiale, una cosa del momento? Quello straniero gli aveva ottenuto grazia? Che stava accadendo? Tutte queste domande si succedettero sul suo viso; ma non durò a lungo. Comunque fosse, voleva essere libero, dato che gli concedevano la libertà; e cominciò a scuotersi, per quanto spazio gli lasciava l’erpice.

«Mi strappi le cinghie!» gridò l’ufficiale. «Sta’ fermo, adesso le slacciamo.» E, fatto un cenno al soldato, si pose con lui al lavoro. Il condannato rideva tra sé di un lieve riso muto, ed ogni tanto volgeva il capo all’ufficiale, che stava alla sua destra, o al soldato che stava alla sua sinistra, senza trascurare neppure lo straniero.

«Tiralo giù,» ordinò l’ufficiale al soldato. L’erpice intralciava alquanto: bisognò fare un po’ attenzione. Il condannato era tanto impaziente che si era già prodotto qualche scorticatura alla schiena.

Da quel momento in avanti l’ufficiale non si curò più di lui. Si avvicinò al viaggiatore, aprì nuovamente la sua cartellina di cuoio, vi frugò dentro, trovò finalmente la carta che cercava e la mostrò all’altro. «Legga,» disse. «Non ci riesco,» rispose il viaggiatore; «le ho già detto che non riesco a decifrare questi fogli.» «Via, lo guardi bene,» insisté l’ufficiale, e gli si fece accosto per leggere con lui; ma anche questo non servì a nulla, ed egli, tenendo il dito molto in alto, come se neppure potesse pensare di toccar la carta, ritracciò la scritta segnata sul foglio, in modo da facilitarne la lettura al viaggiatore. Questi pure si sforzava di capire, per dare almeno così soddisfazione all’ufficiale; ma gli era proprio impossibile. Allora l’ufficiale cominciò a compitare la massima, quindi la rilesse tutt’intera. «Vi sta scritto: sii giusto! Riesce adesso a leggerlo, o no?» Il viaggiatore chinò il capo tanto basso sul foglio, che l’ufficiale, temendo lo toccasse, lo allontanò ancora di un poco; il viaggiatore non parlava, ma si vedeva benissimo che non ce la faceva a leggere. «Sta scritto: sii giusto!» ripeté l’ufficiale. «Può darsi,» rispose l’altro, «ci credo senz’altro.» «Bene,» fece l’ufficiale, soddisfatto almeno in parte, e salì la scala col foglio in mano, lo depose accuratamente nel tracciatore e rimaneggiò completamente, a quanto parve, il congegno a ruote dentate: era un lavoro assai faticoso, tanto più che si doveva trattare di ruote piccolissime; a volte la testa dell’ufficiale scompariva per intero dentro il tracciatore, tanta era l’esattezza con cui doveva preparare il meccanismo.

Dal basso il viaggiatore seguiva quel lavoro con minuziosa attenzione: si sentiva il collo rigido e la luce solare che invadeva il cielo gl’indolenziva gli occhi. Il soldato e il condannato non si occupavano che dei fatti loro. La camicia e le mutande del condannato, che già erano nella fossa, vennero tirate su dal soldato con la punta della baionetta. La camicia era orribilmente sudicia; il condannato la lavò nel secchio pieno d’acqua. Quando poi indossò i due indumenti, tanto lui che il soldato scoppiarono a ridere, vedendo che erano squarciati sul didietro. Forse il condannato si sentiva in obbligo di tenere allegro l’altro, fatto sta che girava in tondo davanti a lui nelle sue vesti lacere; il soldato, rannicchiato a terra, rideva picchiandosi le ginocchia. Tuttavia cercavano di contenersi, per riguardo alla presenza dei due signori.

Quando l’ufficiale, in cima alla scala, ebbe finito di lavorare, esaminò ancora una volta, sorridendo, ogni parte dell’insieme; poi richiuse il coperchio del tracciatore che finora era rimasto aperto, discese, guardò nella fossa, si assicurò in breve, con un’occhiata al condannato, che questi avesse ripreso le sue vesti, si diresse al secchio per lavarsi le mani, troppo tardi notò la ripugnante sporcizia dell’acqua e, pieno di tristezza per l’impossibilità di lavarle, le immerse entrambe nella sabbia – era un ripiego che non gli bastava, ma doveva acconciarsi -, infine si alzò e cominciò a sbottonarsi l’uniforme. Ciò facendo, gli vennero presto tra le mani i due fazzolettini da signora che si era cacciato dietro il colletto. «To’, prenditi i tuoi fazzoletti,» disse al condannato, e glieli gettò. «Glieli avevano regalati le signore,» aggiunse a mo’ di spiegazione, rivolto all’ospite.

Si tolse l’uniforme e poi prese a spogliarsi del tutto. Malgrado l’evidente fretta con cui compiva queste operazioni, trattava ogni parte del suo vestiario con molta cura: tanto che lisciò perfino con le dita gli alamari d’argento della sua giubba, e riassestò un fiocchetto. Con tutta questa diligenza, in verità, pareva stonare il fatto che, non appena smetteva di occuparsi di un capo, subito lo gettava nella fossa con un gesto d’ira. Alla fine non gli rimase più in mano che lo spadino appeso alle cinghie. Tolse l’arma dal fodero e la spezzò; poi, fatto un sol fascio dei pezzi dello spadino, del fodero e delle cinghie, li gettò via con tal violenza, che giù nella fossa risonò un tintinnio.

Era nudo, ormai. Il viaggiatore, taciturno, si mordeva le labbra. Sapeva bene cosa stava per avvenire, ma non aveva diritto di porre all’ufficiale alcun divieto. Se la procedura giudiziaria di cui questi era convinto, era realmente così presso ad essere abolita – forse proprio per il suo intervento, che d’altronde riteneva doveroso -, ciò che l’ufficiale si preparava a fare era assolutamente giusto: egli stesso, al suo posto, non avrebbe agito altrimenti.

Il soldato e il condannato per un po’ di tempo non capirono nulla e non prestarono nemmeno attenzione. Il condannato era molto contento di aver riavuto i fazzolettini, ma la sua soddisfazione non durò a lungo, poiché il soldato, con una mossa rapida quanto inaspettata, glieli portò via e se li ficcò sotto la cintura. Il condannato tentò più volte di riacchiapparli, ma l’altro non si lasciava sorprendere; tra i due scoppiò un litigio semischerzoso. Solo quando l’ufficiale fu interamente svestito, si fecero attenti. Il condannato in special modo sembrava colto dal presagio di chissà quale rivolgimento. Ciò che era toccato a lui, toccava ora all’ufficiale; e forse quel destino doveva compiersi fino in fondo. Era un ordine che probabilmente era venuto da quel viaggiatore straniero. La sua vendetta, dunque: una vendetta totale, anche se per lui la sofferenza non era stata totale. Sul suo volto apparve un largo riso silenzioso, che non si spense più.

Intanto l’ufficiale si era appressato alla macchina. Se già prima la sua competenza dei meccanismi era stata evidente, la sicurezza con cui ora maneggiava l’apparecchio, e il modo in cui esso gli ubbidiva, avevano dell’incredibile. Gli bastò avvicinare una mano all’erpice perché questo si sollevasse e si abbassasse a più riprese, finché non ebbe assunto la posizione giusta per riceverlo; non ebbe che da aggrapparsi all’orlo del letto, e questo cominciò subito a vibrare; il tappo di feltro parve muovere incontro alla sua bocca: si vide nell’ufficiale destarsi la ripugnanza, ma fu solo un attimo, si vinse e lo imboccò. Tutto era pronto, solo le cinghie penzolavano ancora ai lati; ma evidentemente non servivano, non c’era bisogno di legare l’ufficiale al letto. In quel momento il condannato si avvide delle cinghie, gli parve che senza di esse l’esecuzione non sarebbe stata completa, e, fatto un cenno rapido al soldato, corse insieme a lui ad allacciarle. L’ufficiale aveva già allungato un piede per spingere il volano che doveva mettere in moto il disegnatore, ma quando vide i due uomini accanto a lui, ritirò il piede e lasciò che lo legassero. Adesso però non arrivava più col piede al volano, e né il soldato, né il condannato sarebbero stati capaci di trovarlo; quanto al viaggiatore, era deciso a non muoversi. Ma non fu necessario. Appena strette le cinghie, la macchina prese subito a funzionare: il letto tremava, gli aghi danzavano sulla pelle, l’erpice andava su e giù. Il viaggiatore, dopo esser rimasto qualche istante immobile a guardare, si ricordò che avrebbe dovuto sentire il cigolio di una ruota dello strumento; invece tutto era silenzio, non si udiva il minimo fruscio.

La macchina, lavorando così muta, si sottraeva letteralmente ad ogni attenzione. Il viaggiatore guardò i due uomini che stavano presso l’apparecchio. Il condannato era il più vivace: tutto, nella macchina, suscitava il suo interesse, a volte si chinava, a volte si tirava su, aveva sempre un indice teso per mostrare qualcosa al soldato. Il viaggiatore ne ebbe un’impressione sgradevole. Aveva deciso di restare fino all’ultimo, ma non si sentiva di sopportare a lungo la vicinanza dei due. ” Andate a casa, ” disse. Il soldato forse non avrebbe avuto nulla in contrario, ma al condannato quell’ordine parve un castigo: a mani giunte, con voce lagrimosa, implorò di essere lasciato lì, e poiché il viaggiatore, scotendo il capo, mostrava di non voler acconsentire, si mise perfino in ginocchio. Il viaggiatore, resosi conto che i suoi ordini erano inefficaci, era in procinto di andare verso i due per spingerli via, quando udì un fruscio provenire dal tracciatore. Guardò in su, pensando che la ruota ricominciasse a cigolare; ma era qualcosa d’altro. Lentamente il coperchio del tracciatore si schiuse, poi si spalancò del tutto. Si videro affacciarsi e alzarsi i denti d’una ruota, alla fine apparve la ruota intera: era come se una gran forza sconosciuta comprimesse il meccanismo, sicché la ruota non vi trovasse più posto; girò fino a raggiungere l’orlo del tracciatore, piombò giù, rotolò diritta per un certo tratto nella sabbia e infine si adagiò a terra. Ma già ne spuntava fuori un’altra, tante altre, grandi, piccole, quasi impercettibili’ e per tutte era lo stesso, pareva che ormai il tracciatore dovesse esser vuoto e invece appariva un nuovo fittissimo gruppo di congegni: saliva, cadeva, rotolava nella sabbia e si posava. Assorbito da quello spettacolo, e dimenticando l’ordine del viaggiatore, il condannato stava a guardare come incantato gli ingranaggi: cercava sempre di acchiappare una ruota, gridava al soldato di aiutarlo, ma poi ritirava subito la mano, spaventato da un’altra ruota che sopravveniva girando.

Il viaggiatore invece era molto inquieto: la macchina stava sfasciandosi, non c’era dubbio; quel suo ritmo tranquillo era un’illusione; gli sembrava che ora avrebbe dovuto occuparsi dell’ufficiale, dato che questi non era più in grado di provvedere a se stesso. Ma la sua attenzione essendo rimasta interamente attratta dalla caduta delle ruote, non gli era venuto in mente di osservare la macchina; tutt’a un tratto, dopo che l’ultima ruota era uscita dal tracciatore, chinandosi sull’erpice ebbe una nuova e più brutta sorpresa: l’erpice non scriveva più, trafiggeva soltanto, e il letto non rovesciava più il corpo, lo innalzava semplicemente verso gli aculei. Il viaggiatore volle intervenire per arrestare, se possibile, il funzionamento dell’apparecchio: quella non era più una tortura come l’intendeva l’ufficiale, era un vero e proprio assassinio. Ma in quel momento l’erpice, con il corpo infilzato, si spostò lateralmente, come di regola avrebbe dovuto fare solo alla dodicesima ora; il sangue scorreva in mille rivoli, non commisto ad acqua, poiché anche nelle minuscole condutture s’era prodotto un guasto. Ed ecco verificarsi il guasto massimo: il corpo non si staccava più dagli aghi, grondava sangue e stava sospeso sopra la fossa senza cadervi. L’erpice tendeva bensì a riprendere la posizione primitiva, ma, quasi si accorgesse di non aver scaricato il suo fardello, rimaneva sopra la fossa. «Aiutatemi!» gridò il viaggiatore al soldato e al condannato, ed afferrò i piedi dell’ufficiale: si proponeva di far forza sui piedi, mentre gli altri due avrebbero dovuto prenderlo per la testa; in tal modo sarebbero riusciti a liberarlo pian piano dagli aghi. Ma quelli non se ne diedero per intesi, anzi il condannato voltò deciso le spalle; il viaggiatore dovette andare fin da loro e costringerli con la forza a prendere la testa del cadavere. Ciò facendo, lo guardò quasi contro voglia in viso: era esattamente come appariva in vita. Nessun segno della promessa redenzione era percepibile; quello che la macchina aveva dato a tutti gli altri, l’ufficiale non l’aveva trovato. Le labbra erano serrate, negli occhi, aperti, era l’espressione della vita, lo sguardo era calmo e convinto, la fronte era trapassata dalla punta del grande aculeo di ferro.

Quando il viaggiatore, seguito dal soldato e dal condannato, raggiunse le prime case della colonia, il soldato ne indicò una e disse: «Quello lì è il caffè.»

Era un locale a piano terreno di una casa: profondo, basso, simile ad una caverna, annerito dal fumo sulle pareti e sul soffitto, aperto verso la strada per tutta la larghezza. Benché si distinguesse poco dalle altre case della colonia, che, ad eccezione dei vasti edifici del comando, erano tutte assai malandate, quel caffè destò nel viaggiatore l’impressione di una reliquia storica; davanti ad esso sentì la potenza dei tempi andati. Si fece più vicino, passò, seguito dai suoi accompagnatori, in mezzo ai tavolini vuoti che occupavano la fronte sulla strada, e respirò l’aria fresca e odorosa di muffa che proveniva dall’interno. «Il vecchio è sepolto qui,» disse il soldato; «il parroco gli ha negato un posto al cimitero. Per un po’ di tempo non han saputo dove metterlo; alla fine hanno deciso di seppellirlo qui. Questo l’ufficiale di sicuro non gliel’ha detto, perché lui se n’è vergognato più di chiunque altro. Ha anche tentato qualche volta di venire a disseppellirlo di notte, ma l’han sempre cacciato via.» «Dov’è la tomba?» domandò il viaggiatore, incredulo a tale racconto. Subito gli altri due, il soldato e il condannato, gli corsero innanzi e, tendendo le mani, gli mostrarono il punto in cui doveva trovarsi la tomba. Lo condussero fino alla parete di fondo: lì, intorno ai tavoli, sedevano dei clienti, probabilmente dei portuali, uomini nerboruti dalle corte barbe di un nero lucido; tutti erano senza giacca e vestivano camicie lacere, avevano l’aria di gente povera e umiliata. Quando il viaggiatore si avvicinò, alcuni si alzarono e lo guardarono, addossandosi alla parete. «È uno straniero,» si sentiva mormorare, «vuol vedere la tomba.» Scostarono un tavolo sotto il quale effettivamente c’era una lapide mortuaria: una pietra semplice, abbastanza bassa perché un tavolo la potesse nascondere. Portava un’iscrizione a caratteri molto minuti, tanto che il viaggiatore, per leggerla, fu costretto ad inginocchiarsi. V’era scritto: «Qui giace il vecchio comandante. I suoi seguaci, che ora non possono portare un nome, gli hanno scavato la tomba e posto questa lapide. Una profezia dice che dopo un certo numero d’anni il comandante risorgerà e da questa casa guiderà i suoi seguaci alla riconquista della colonia. Abbiate fede e attendete!» Letta l’iscrizione, il viaggiatore si rialzò e, guardandosi intorno, vide gli uomini che, in piedi, sorridevano, come se avessero letta la scritta con lui, l’avessero giudicata ridicola e lo invitassero a condividere quel loro giudizio. Egli finse di non accorgersi di nulla, distribuì alcune monete, aspettò che il tavolo fosse nuovamente collocato accanto alla parete, uscì dal caffè e si diresse al porto.

Il soldato e il condannato avevano incontrato dei conoscenti al caffè ed erano rimasti con loro. Ben presto, però, dovevano averli lasciati in asso: infatti il viaggiatore si trovava solo a metà della lunga scala che conduceva alle navi, quando vide che lo rincorrevano, probabilmente con l’intenzione di costringerlo, all’ultimo minuto, a prenderli con sé. Mentre, giunto in basso, egli discuteva con un barcaiolo il prezzo per essere trasportato al piroscafo, i due scendevano a precipizio la scala, in silenzio, poiché non si attentavano a gridare. Ma quando arrivarono giù, il viaggiatore era già a bordo della barca e il marinaio stava staccandosi da riva. Avrebbero ancora fatto in tempo a saltare nell’imbarcazione, ma il viaggiatore, raccolta sul fondo una gomena grossa e nodosa, fece alla loro volta un gesto di minaccia, che li dissuase dallo spiccare il balzo.

Kafka, La Metamorfosi e altri racconti, Garzanti, Milano, 1989

 

Franz Kafka, Nella colonia penale – Analisi del testo

Un viaggiatore/esploratore sta per assistere all’esecuzione di un soldato, condannato perché si è addormentato durante il turno di guardia notturno a casa di un comandante. All’esecuzione sono presenti, oltre al condannato, un ufficiale, un soldato al servizio dell’ufficiale e un viaggiatore straniero che, trovandosi nella colonia penale, è stato invitato ad assistervi. Per giustiziare il condannato viene utilizzata una macchina inventata dal precedente comandante della colonia, di cui l’ufficiale non manca di tessere le lodi, ricordando con nostalgia lo zelo con cui egli stesso si occupava della sua efficienza.

Il macchinario è composto di tre parti: il “letto”, rivestito di bambagia, su cui il condannato disteso viene legato con cinghie e costretto a mordere un cuscinetto di feltro che gli impedisce di urlare; il “disegnatore”, che “legge” le iscrizioni corrispondenti alle colpe, realizzati personalmente dal vecchio comandante; l’“erpice”, composta da una serie di aghi di diversa lunghezza, incide sul corpo del condannato il comando da lui non rispettato, che è scritto sul foglio inserito nel disegnatore. 

Come se si trattasse di un tatuaggio, le lettere di queste scritte sono arricchite da un’infinità di ghirigori e decorazioni, tanto da risultare illeggibili e da rendere più lunga e dolorosa l’esecuzione. Inizialmente l’erpice incide con leggerezza (gli aghi lunghi scrivono, quelli corti rilasciano un getto d’acqua per pulire il sangue e rendere nitido il disegno), ripassando poi sulle ferite con sempre maggiore profondità. Alla macchina occorrono circa dodici ore per uccidere il condannato, che alla fine viene trapassato dagli aghi e gettato a lato in una fossa. 

Il viaggiatore è negativamente impressionato dalla procedura, anche se in realtà non manifesta esplicitamente quel che pensa. Il comandante attuale della colonia è intenzionato ad abolire questa pratica, e ha inviato il viaggiatore, come esperto straniero, a visionarla, confidando in un suo giudizio in tal senso. L’ufficiale, molto legato al vecchio comandante e contrario all’abolizione della pratica (che un tempo godeva di largo seguito nella colonia, tanto da richiamare una gran folla di spettatori), tenta di trascinare dalla propria parte l’esploratore che però, dopo averlo ascoltato, dichiara la propria contrarietà.

L’ufficiale allora, disperato, libera il condannato (che appare persino inconsapevole di essere condannato e non ha avuto modo di difendersi) e lo sostituisce di persona, apportando però delle modifiche alla macchina, che mentre svolge la sua funzione comincia ad andare in pezzi. Per questo l’ufficiale muore poco dopo infilzato troppo profondamente dagli aghi, e il viaggiatore costringe l’ex-condannato e il soldato ad aiutarlo a staccare il suo corpo dall’erpice. Il condannato e il soldato sembrano aver stretto una profonda amicizia, scherzano e giocano insieme, noncuranti della situazione.

Il racconto si chiude con la visita del viaggiatore alla tomba del vecchio comandante, sepolto sotto il pavimento di una squallida sala da tè e ricordato da una lapide che porta incisa una profezia giudicata da tutti ridicola: «Qui riposa il vecchio comandante. I suoi seguaci, che ora non possono portare nessun nome, gli hanno scavato questa tomba e posto la pietra. Esiste una profezia secondo la quale il comandante dopo un determinato numero di anni risorgerà e da questa casa condurrà i suoi seguaci alla riconquista della colonia. Credere e attendere!»

Infine, l’esploratore si reca al porto e salpa. Il soldato e l’ex-condannato vorrebbero seguirlo, ma egli impedisce loro di raggiungerlo.

La colonia penale di Kafka, che potrebbe alludere a situazioni reali del mondo coloniale, è collocata in uno spazio e in un tempo imprecisati e indefiniti. L’espiazione da parte dei condannati si distorce in un sistema assurdo, crudele e perverso, nel quale “la colpa è sempre fuori dubbio”. Kafka ancora una volta descrive con lucido surrealismo la crudeltà del potere, il delirio dell’aguzzino, la complicità della vittima, l’acquiescenza dell’osservatore. Un’agghiacciante profezia.

 

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