François Villon, La Ballata degli impiccati (Ballade des pendus)
La Ballade des pendus è la più celebre poesia di François Villon. Specialmente a partire dal Romanticismo, con la sua riscoperta della poesia medievale, la sua influenza sulla letteratura non solo francese è stata enorme.
Si afferma generalmente, anche se la circostanza non è mai stata chiarita in modo definitivo, che Villon la compose in carcere, nell’attesa di essere giustiziato per impiccagione in seguito al suo coinvolgimento nel cosiddetto Caso Ferrebouc, nel quale un legato pontificio rimase ferito durante una rissa.
Fratelli umani, che ancor vivi siete,
non abbiate per noi gelido il cuore,
ché, se pietà di noi miseri avete,
Dio vi darà più largo il suo favore.
Appesi cinque, sei, qui ci vedete:
la nostra carne, già troppo ingrassata,
è ormai da tempo divorata e guasta;
noi, ossa, andiamo in cenere e polvere.
Nessun rida del male che ci devasta,
ma Dio pregate che ci voglia assolvere!
Se vi diciam fratelli, non dovete
averci a sdegno, pur se fummo uccisi
da giustizia. Ma tuttavia, sapete
che di buon senso molti sono privi.
Poiché siam morti, per noi ottenete
dal figlio della Vergine Celeste
che inaridita la grazia non resti,
e che ci salvi dall’orrenda folgore.
Morti siamo: nessuno ci molesti,
ma Dio pregate che ci voglia assolvere!
La pioggia ci ha lavati e risciacquati,
e il sole ormai ridotti neri e secchi;
piche e corvi gli occhi ci hanno scavati,
e barba e ciglia strappate coi becchi.
Noi pace non abbiamo un sol momento:
di qua, di là, come si muta, il vento
senza posa a piacer suo ci fa volgere,
più forati da uccelli che ditali.
A noi dunque non siate mai uguali;
ma Dio pregate che ci voglia assolvere!
O Gesù, che su tutti hai signoria,
fa’ che d’Inferno non siamo in balia,
che debito non sia con lui da solvere.
Uomini, qui non v’ha scherno o ironia,
ma Dio pregate che ci voglia assolvere!
[Traduzione di Emma Stojkovic Mazzariol]
La voce narrante, nella ballata, è quella dei morti impiccati, che si rivolgono ai vivi esortandoli a provare pietà e a pregare Dio per loro, in nome della comune condizione mortale di peccatori.
Il testo è formato da quattro strofe. Nella prima strofa gli impiccati invitano i vivi a non deridere la loro condizione ma a pregare Dio perché li assolva. Nella seconda strofa gli impiccati chiedono comprensione per la loro condizione di peccatori, che non giustifica il disprezzo dei vivi ma che richiede piuttosto rispetto e pietà, ora che la giustizia li ha puniti; la strofa si conclude con l’esortazione a pregare perché Dio abbia misericordia; la terza strofa appare come un approfondimento (con toni macabri) della precedente: si descrivono i corpi martoriati degli impiccati (o meglio sono gli impiccati stessi a descriverli), privati ormai di ogni dignità umana. I corpi sono seccati, privi degli occhi, strappati via da gazze e corvi, strappati la barba e le sopracciglia. Il vento li fa dondolare come fantocci, preda degli uccelli. Questa sorte così terribile, non può che muovere a un senso di fratellanza e di compassione, non può che indurre i vivi a pregare Dio di assolvere gli impiccati. Nell’ultima strofa la voce narrante si rivolge a Gesù, perché non condanni i peccatori all’inferno. La strofa si conclude, di nuovo, con l’esortazione “Ma Dio pregate che ci voglia assolvere”.
L’idea di fondo della ballata è quella della fratellanza tra tutti gli uomini (Fratelli umani…) di fronte alla morte, al di là della condizione sociale e dei peccati commessi. Tale fratellanza non può che caratterizzarsi per la pietà nei confronti del prossimo, mentre la durezza di cuore e la mancanza di compassione sarebbero i peggiori dei peccati.
Villon, attraverso l’immaginaria voce degli impiccati, esorta quindi i vivi a provare un sentimento di compassione fraterna, che va al di là della giustizia terrena, soggetta peraltro anch’essa all’errore. Di fronte alla morte, a una morte così tremenda, i vivi non possono che pregare Dio di perdonare uomini che hanno già così duramente pagato le loro colpe.
François Villon – vero nome François de Moncorbier (Parigi, 1431 o 1432 – dopo il 1463) è stato un poeta francese, ladro e vagabondo che visse per lungo tempo come un bandito, emarginato e ricercato.
Fabrizio De André, La Ballata degli impiccati
http://www.youtube.com/watch?v=B7fVuQadB40
Tutti morimmo a stento
ingoiando l’ultima voce
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce
L’urlo travolse il sole
l’aria divenne stretta
cristalli di parole
l’ultima bestemmia detta
Prima che fosse finita
ricordammo a chi vive ancora
che il prezzo fu la vita
per il male fatto in un’ora
Poi scivolammo nel gelo
di una morte senza abbandono
recitando l’antico credo
di chi muore senza perdono
Chi derise la nostra sconfitta
e l’estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscere il nodo
Chi la terra ci sparse sull’ossa
e riprese tranquillo il cammino
giunga anch’egli stravolto alla fossa
con la nebbia del primo mattino
La donna che celò in un sorriso
il disagio di darci memoria
ritrovi ogni notte sul viso
un insulto del tempo e una scoria
Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso.
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