Canto XXXIII – Il conte Ugolino – Testo e parafrasi

Ugolino_3 Giavanni Stradano, 1587

Canto XXXIII (Inferno) – Il conte Ugolino – Testo

La bocca sollevò dal fiero pasto

quel peccator, forbendola a’capelli

del capo ch’elli avea di retro guasto.                       3

Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli

disperato dolor che ‘l cor mi preme

già pur pensando, pria ch’io ne favelli.                     6

Ma se le mie parole esser dien seme

che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,

parlare e lagrimar vedrai insieme.                             9

Io non so chi tu se’ né per che modo

venuto se’ qua giù; ma fiorentino

mi sembri veramente quand’io t’odo.                       12

Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,

e questi è l’arcivescovo Ruggieri:

or ti dirò perché i son tal vicino.                               15

Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,

fidandomi di lui, io fossi preso

e poscia morto, dir non è mestieri;                           18

però quel che non puoi avere inteso,

cioè come la morte mia fu cruda,

udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.                               21

Breve pertugio dentro da la Muda, [1]

la qual per me ha ‘l titol de la fame,

e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,                  24

m’avea mostrato per lo suo forame

più lune già, quand’io feci ‘l mal sonno

che del futuro mi squarciò ‘l velame.                         27

Questi pareva a me maestro e donno,

cacciando il lupo e ‘ lupicini al monte

per che i Pisan veder Lucca non ponno.                   30

Con cagne magre, studïose e conte

Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi[2]

s’avea messi dinanzi da la fronte.                             33

In picciol corso mi parieno stanchi

lo padre e ‘ figli, e con l’agute scane

mi parea lor veder fender li fianchi. [3]                       36

Quando fui desto innanzi la dimane,

pianger senti’ fra ‘l sonno i miei figliuoli [4]

ch’eran con meco, e dimandar del pane.         39

Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli

pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava;

e se non piangi, di che pianger suoli?               42

Già eran desti, e l’ora s’appressava

che ‘l cibo ne solëa essere addotto,

e per suo sogno ciascun dubitava;                               45

e io senti’ chiavar l’uscio di sotto

a l’orribile torre; ond’io guardai

nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.                        48

Io non piangëa, sì dentro impetrai:

piangevan elli; e Anselmuccio mio

disse: ‘Tu guardi sì, padre! che hai?’.                        51

Perciò non lacrimai né rispuos’io

tutto quel giorno né la notte appresso,

infin che l’altro sol nel mondo uscìo.                          54

Come un poco di raggio si fu messo

nel doloroso carcere, e io scorsi

per quattro visi il mio aspetto stesso,                         57

ambo le man per lo dolor mi morsi;

ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia

di manicar, di sùbito levorsi                                         60

e disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia

se tu mangi di noi: tu ne vestisti

queste misere carni, e tu le spoglia’.                  63

Queta’mi allor per non farli più tristi;

lo dì e l’altro stemmo tutti muti;

ahi dura terra, perché non t’apristi?                     66

Poscia che fummo al quarto dì venuti,

Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,

dicendo: ‘Padre mio, ché non m’aiuti?’.                           69

Quivi morì; e come tu mi vedi,

vid’io cascar li tre ad uno ad uno

tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi,                          72

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,

e due dì li chiamai, poi che fur morti.

Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno».                       75

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti

riprese ‘l teschio misero co’denti,

che furo a l’osso, come d’un can, forti.                          78

 

Canto XXXIII (Inferno) – Il conte Ugolino – Parafrasi

[vv. 1-78]

Il “fiero pasto”

Quel peccatore sollevò dal pasto feroce la bocca, pulendola con i capelli della testa che egli aveva roso nella parte posteriore. Poi incominciò a dire: “Tu vuoi che io rinnovi un dolore disperato che mi opprime il cuore al solo pensarci, prima che io ne parli. Ma se le mie parole possono essere causa dinfamia per il traditore che io rodo, mi vedrai al tempo stesso parlare e piangere. Non so chi sei né in quale maniera sei arrivato quaggiù; ma in verità da come parli mi sembri fiorentino. Devi sapere che fui il conte Ugolino, e questo è larcivescovo Ruggieri: adesso ti dirò perché sono per lui un vicino siffatto. Non occorre che io racconti come, avendo fiducia in lui, fui fatto prigioniero e poi ucciso, in conseguenza dei suoi intendimenti malvagi; ma udrai quello che non puoi avere udito, cioè quanto la mia morte fu crudele, e potrai giudicare se egli non è stato colpevole nei miei riguardi. 

La narrazione di Ugolino

Una piccola feritoia nella torre della Muda, che a causa mia è soprannominata torre della fame, e nella quale altri saranno ancora rinchiusi, mi aveva già mostrato attraverso la sua apertura più lune (erano passati diversi mesi), quando io feci il cattivo sogno che mi svelò il futuro. Costui (l’arcivescovo Ruggieri) mi sembrava capocaccia e signore degli altri cacciatori, mentre, cacciava il lupo e i suoi piccoli su per il monte (San Giuliano) a causa del quale i Pisani non possono vedere Lucca. Egli aveva messo davanti a sé, sul fronte dello schieramento degli inseguitori, Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi insieme con cagne fameliche, sollecite a cacciare ed esperte. Dopo una breve corsa il lupo e i lupicini mi sembravano stanchi, e mi sembrava di vedere lacerati i loro fianchi dalle zanne affilate. 

Quando fui sveglio prima del mattino, udii piangere nel sonno i miei figli, che erano con me, e chiedere del pane. Sei davvero crudele, se fin da questo momento non provi dolore immaginando quello che il mio cuore presagiva. E se non piangi, per che cosa sei solito piangere? 

Erano ormai svegli, e si avvicinava lora in cui il cibo soleva esserci portato, e a causa del proprio sogno ciascuno aveva timore; e udii inchiodare la porta inferiore della spaventosa torre; allora guardai negli occhi i miei figli senza pronunciare parola. 

Io non piangevo, a tal punto lanimo divenne impietrito: piangevano loro; e il mio Anselmuccio disse: “Tu guardi in modo così strano, padre! che hai?” 

Più che il dolor potè il digiuno…

Perciò non piansi né risposi tutto quel giorno e la notte successiva, finché non spuntò unaltra alba. Non appena un podi luce riuscì a penetrare nella cella dolorosa, e intravidi su quattro volti il mio stesso aspetto, mi morsi entrambe le mani per il dolore; ed essi, credendo che lo facessi per desiderio di mangiare, si alzarono immediatamente in piedi, e dissero: ‘Padre, sarà per noi un dolore assai minore se tu ti cibi delle nostre membra: tu (generandoci) ci facesti indossare queste carni infelici, tu privacene’. Allora mi quietai per non renderli più tristi; rimanemmo in assoluto silenzio quel giorno e il giorno successivo: ahi, terra crudele, perché non ti apristi? Quando giungemmo al quarto giorno, Gaddo si gettò disteso ai miei piedi, dicendo: ‘Padre, perché non maiuti?’ Lì morì e così come tu vedi me, vidi cadere gli altri tre uno dopo laltro tra il quinto e il sesto giorno; per cui incominciai, ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno di loro, e li chiamai per due giorni, dopo che furono morti: poi, più del dolore, poté su di me il digiuno”. Ciò detto, con gli occhi biechi, prese di nuovo il misero cranio coi denti, che furono sull’osso forti come quelli di un cane. […]

 

Note

[1] dentro dalla muda: muda era chiamato il luogo chiuso dove venivano tenuti gli uccelli nel periodo in cui cambiavano le penne.

[2] le tre principali famiglie ghibelline di Pisa

[3] Il tema della caccia “infernale” è presente anche nel canto XIII dell’Inferno. Gli scialacquatori sono condannati a correre nudi nella selva dei suicidi inseguiti da cagne nere e fameliche. Nel correre, poi, graffiano se stessi e spezzano i rami delle piante, provocando sofferenza ai suicidi. Inoltre si veda anche la novella “Nastagio degli Onesti” di Giovanni Boccaccio.

[4] i miei figli: Ugolino chiama così anche i suoi nipoti Anselmuccio e Nino.

 

 

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