Ovidio, Piramo e Tisbe

Tisbe

Publio Ovidio Nasone, Piramo e Tisbe

(da Metamorfosi)

La storia d’amore di Piramo e Tisbe, raccontata da Ovidio, sembra il modello su cui, cambiati ambiente e tempo, è costruita quella tragica di Romeo e Giulietta, in un comune destino di morte.

Piramo, giovane principe babilonese, ama, corrisposto, la bella Tisbe, ma i genitori di entrambi si oppongono alla loro relazione. I due giovani riescono a parlarsi di nascosto, attraverso una fessura praticata nella parete divisoria fra le loro case attigue. Un giorno Piramo e Tisbe decidono di fuggire e si danno appuntamento presso il sepolcro di Nino1, sotto un gelso carico di bacche bianche. Tisbe, uscita in silenzio, si reca al posto convenuto e lì vede una leonessa dalle fauci insanguinate. Terrorizzata si rifugia in una grotta, ma nella fuga le cade il velo dalle spalle…

 

La belva feroce, placata a furia d’acqua la sua sete,

mentre tornava nel bosco, trovò per caso abbandonato a terra

quel velo delicato e lo stracciò con le fauci sporche di sangue.

Uscito più tardi, Pìramo scorse in mezzo all’alta polvere

le orme inconfondibili di una belva e terreo

si fece in volto. Quando poi trovò la veste macchiata di sangue:

“Una, una sola notte”, gridò, “manderà a morte due innamorati.

Di noi era lei la più degna di vivere a lungo;

colpevole è l’anima mia. Io, sventurata, io ti ho ucciso,

io che ti ho spinto a venire di notte in luoghi così malsicuri,

e neppure vi venni per primo. Dilaniate il mio corpo,

divorate con morsi feroci quest’uomo scellerato

voi, voi leoni, che vi rintanate sotto queste rupi!

Ma è da vili chiedere la morte”. Raccolse il velo

di Tisbe e lo portò con sé al riparo dell’albero convenuto;

poi, dopo avere intriso di lacrime e baci quella cara veste:

“Imbeviti ora”, esclamò, “anche di un fiotto del sangue mio!”.

E si piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco,

poi, ormai morente, fulmineo lo trasse dalla ferita aperta

e cadde a terra supino. Schizza alle stelle il sangue,

come accade se, logoratosi il piombo, un tubo si fende

e da un foro sottile sibilando esce un lungo getto

d’acqua, che sferza l’aria con la sua violenza.

I frutti dell’albero, spruzzati di sangue,

divengono cupi e, di sangue intrisa, la radice

tinge di vermiglio i grappoli delle bacche.

Ed ecco che, ancora impaurita, per non deludere l’amato,

lei ritorna e con gli occhi e il cuore cerca il giovane,

impaziente di narrargli a quanti pericoli è sfuggita.

Ma se riconosce il luogo e la forma della pianta,

la rende incerta il colore dei frutti: in forse se sia quella.

Ancora in dubbio, vede un corpo agonizzante che palpita a terra

in mezzo al sangue; arretra e, col volto più pallido del legno

di bosso, rabbrividisce come s’increspa il mare,

se una brezza leggera ne sfiora la superficie.

Ma dopo un attimo, quando in lui riconosce il suo amore,

in pianto disperato si percuote le membra innocenti,

si strappa i capelli abbracciata al corpo dell’amato,

colma la ferita di lacrime, confonde il pianto

col sangue suo e, imprimendo baci su quel volto gelido,

grida: “Quale sventura, quale, Pìramo, a me ti ha strappato?

Pìramo, rispondi! Tisbe, è la tua amatissima Tisbe

che ti chiama. Ascoltami, solleva questo tuo volto inerte!”.

Al nome di Tisbe Pìramo levò gli occhi ormai appesantiti

dalla morte e, come l’ebbe vista, per sempre li richiuse.

Solo allora lei riconobbe la sua veste e scorse il fodero

d’avorio privo del pugnale: “La tua, la tua mano e il tuo amore

ti hanno perso, infelice! Ma per questo anch’io ho mano ferma,”

disse, “e ho il mio amore: mi darà lui la forza d’uccidermi.

Nell’oblio ti seguirò; si dirà che per sciagura fui io causa

e compagna della tua fine. Solo dalla morte, ahimè, potevi

essermi strappato, ma neanche da quella potrai esserlo ora.

Pur travolti dal dolore esaudite almeno, voi che genitori

siete d’entrambi, la preghiera che insieme vi rivolgiamo:

non proibite che nello stesso sepolcro vengano composte

le salme di chi un amore autentico e l’ora estrema unì.

E tu, albero che ora copri coi tuoi rami il corpo sventurato

d’uno solo di noi e presto coprirai quelli di entrambi,

serba un segno di questo sacrificio e mantieni i tuoi frutti

sempre parati a lutto in memoria del nostro sangue!”

Questo disse, e rivolto il pugnale sotto il suo petto,

si lasciò cadere sulla lama ancora calda di sangue.

E almeno la preghiera commosse gli dei, commosse i genitori:

per questo il colore delle bacche, quando sono mature, è nero

e ciò che resta del rogo in un’urna unica riposa”.


1 Nino [lat. Ninus]: Figlio di Belo, mitico re d’Assiria e fondatore di Ninive. Sovrano bellicoso, conquistò molti territori estendendo il suo dominio su gran parte dell’Asia, spingendosi fin nella Bactriana (attuale Afghanistan). Durante quest’ultima spedizione s’innamorò di Semiramide, moglie di uno dei suoi ufficiali, Onnes, e la sposò dopo che il marito si era ucciso, intimorito dal potere del rivale. Regnò per cinquantadue anni e alla sua morte lasciò il regno a Semiramide, da cui aveva avuto un figlio, Ninyas.

 

Comprensione e analisi del testo

  1. Perché Piramo e Tisbe decidono di fuggire di casa?
  2. Piramo interpreta in modo errato un indizio. Quale?
  3. Quali conseguenze produce tale interpretazione?
  4. Il modo in cui il sangue esce dalla ferita di Piramo viene descritto con una similitudine: a cosa viene paragonato?
  5. Quali sono le conseguenze per la pianta del gelso?
  6. Quale desiderio esprime Tisbe prima di uccidersi?

Publio Ovidio Nasone nasce a Sulmona nel 43 a.C. Inviato a Roma per studiare retorica, si dedica invece alla poesia. Diviene un letterato brillante e di successo e conosce i maggiori scrittori del tempo. Ricopre varie cariche pubbliche, si sposa tre volte in pochi anni, ma solo l’ultimo legame è felice. Nell’8 d.C., in seguito a uno scandalo di corte, l’imperatore Augusto lo fa relegare a Tomi sul Mar Nero e ordina la distruzione dei suoi scritti. Tra le sue opere principali: AmoresArs amandiRemedia amoris e il poema epico-mitologico Metamorfosi. Le caratteristiche principali della poesia di Ovidio sono: l’eros (inteso come elegante gioco più che come passione), il mito (come diletto della fantasia), la finezza psicologica, il gusto narrativo, una versificazione scorrevole e raffinata, l’aderenza ai modelli ellenistici. L’arte di amare (Ars amandi) fu bandita dalle biblioteche perché accusata di essere una guida agli amori illeciti e quindi uno strumento di corruzione dei costumi.

Metamorfosi. Rielaborando numerose fonti latine e greche, Ovidio racconta numerosi miti e leggende. Esse sono legate dal motivo comune della trasformazione (metamorfosi), in genere di esseri umani in animali, piante, sassi, astri, ecc. Spesso le vicende si intrecciano tra di loro, per parentela dei protagonisti, per il luogo in cui si svolgono o semplicemente per la tematica simile. Il poeta descrive con grande sensibilità mutamenti che non sono solo di carattere fisico ma anche emotivo, che si verificano, appunto, nel corso della metamorfosi.

 

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