Orlando furioso – La pazzia di Orlando.

La pazzia di Orlando

Ludovico Ariosto, La pazzia di Orlando

Orlando furioso, XXIII, 100-136)

Orlando è alla ricerca di Mandricardo, un cavaliere saraceno con cui vuole portare a termine un duello, interrotto perché il cavallo di Mandricardo, imbizzarrito, fugge al galoppo portando con sé il cavaliere. Orlando insegue Mandricardo ma si perde nel fitto bosco e mentre cerca una via d’uscita, per caso si imbatte in un boschetto con un ruscello. 

Ne approfitta per riposarsi e far bere il cavallo. Casualmente vede sulle cortecce degli alberi delle strane incisioni… Si tratta di dediche d’amore…che riguardano Angelica…

Metro: ottave di endecasillabi. 

100

Lo strano corso che tenne il cavallo

del Saracin pel bosco senza via,

fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo,

né lo trovò, né poté averne spia.

Giunse ad un rivo che parea cristallo,

ne le cui sponde un bel pratel fioria,

di nativo color vago e dipinto,

e di molti e belli arbori distinto.

101

Il merigge facea grato l’orezzo

al duro armento ed al pastore ignudo;

sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo,

che la corazza avea, l’elmo e lo scudo.

Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo;

e v’ebbe travaglioso albergo e crudo,

e più che dir si possa empio soggiorno,

quell’infelice e sfortunato giorno.

102

Volgendosi ivi intorno, vide scritti

molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.

Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,

fu certo esser di man de la sua diva.

Questo era un di quei lochi già descritti,

ove sovente con Medor veniva

da casa del pastore indi vicina

la bella donna del Catai regina.

103

Angelica e Medor con cento nodi

legati insieme, e in cento lochi vede.

Quante lettere son, tanti son chiodi

coi quali Amore il cor gli punge e fiede.

Va col pensier cercando in mille modi

non creder quel ch’al suo dispetto crede:

ch’altra Angelica sia, creder si sforza,

ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.

104 

Poi dice: – Conosco io pur queste note:

di tal’io n’ho tante vedute e lette.

Finger questo Medoro ella si puote:

forse ch’a me questo cognome mette. –

Con tali opinion dal ver remote

usando fraude a sé medesmo, stette

ne la speranza il malcontento Orlando,

che si seppe a se stesso ir procacciando.

105

Ma sempre più raccende e più rinuova,

quanto spenger più cerca, il rio sospetto:

come l’incauto augel che si ritrova

in ragna o in visco aver dato di petto,

quanto più batte l’ale e più si prova

di disbrigar, più vi si lega stretto.

Orlando viene ove s’incurva il monte

a guisa d’arco in su la chiara fonte.

106

Aveano in su l’entrata il luogo adorno

coi piedi storti edere e viti erranti.

Quivi soleano al più cocente giorno

stare abbracciati i duo felici amanti.

V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,

più che in altro dei luoghi circostanti,

scritti, qual con carbone e qual con gesso,

e qual con punte di coltelli impresso.

107

Il mesto conte a piè quivi discese;

e vide in su l’entrata de la grotta

parole assai, che di sua man distese

Medoro avea, che parean scritte allotta.

Del gran piacer che ne la grotta prese,

questa sentenza in versi avea ridotta.

Che fosse culta in suo linguaggio io penso;

ed era ne la nostra tale il senso:

108

– Liete piante, verdi erbe, limpide acque,

spelunca opaca e di fredde ombre grata,

dove la bella Angelica che nacque

di Galafron, da molti invano amata,

spesso ne le mie braccia nuda giacque;

de la commodità che qui m’è data,

io povero Medor ricompensarvi

d’altro non posso, che d’ognor lodarvi:

109

e di pregare ogni signore amante,

e cavallieri e damigelle, e ognuna

persona, o paesana o viandante,

che qui sua volontà meni o Fortuna;

ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante

dica: benigno abbiate e sole e luna,

e de le ninfe il coro, che proveggia

che non conduca a voi pastor mai greggia. –

110 

Era scritto in arabico, che ‘l conte

intendea così ben come latino:

fra molte lingue e molte ch’avea pronte,

prontissima avea quella il paladino;

e gli schivò più volte e danni ed onte,

che si trovò tra il popul saracino:

ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;

ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.

111

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto

quello infelice, e pur cercando invano

che non vi fosse quel che v’era scritto;

e sempre lo vedea più chiaro e piano:

ed ogni volta in mezzo il petto afflitto

stringersi il cor sentia con fredda mano.

Rimase al fin con gli occhi e con la mente

fissi nel sasso, al sasso indifferente.

112

Fu allora per uscir del sentimento

sì tutto in preda del dolor si lassa.

Credete a chi n’ha fatto esperimento,

che questo è ‘l duol che tutti gli altri passa.

Caduto gli era sopra il petto il mento,

la fronte priva di baldanza e bassa;

né poté aver (che ‘l duol l’occupò tanto)

alle querele voce, o umore al pianto.

113

L’impetuosa doglia entro rimase,

che volea tutta uscir con troppa fretta.

Così veggiàn restar l’acqua nel vase,

che largo il ventre e la bocca abbia stretta;

che nel voltar che si fa in su la base,

l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,

e ne l’angusta via tanto s’intrica,

ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.

114

Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come

possa esser che non sia la cosa vera:

che voglia alcun così infamare il nome

de la sua donna e crede e brama e spera,

o gravar lui d’insopportabil some

tanto di gelosia, che se ne pera;

ed abbia quel, sia chi si voglia stato,

molto la man di lei bene imitato.

115 

In così poca, in così debol speme

sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco;

indi al suo Brigliadoro il dosso preme,

dando già il sole alla sorella loco.

Non molto va, che da le vie supreme

dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,

sente cani abbaiar, muggiare armento:

viene alla villa, e piglia alloggiamento.

116

Languido smonta, e lascia Brigliadoro

a un discreto garzon che n’abbia cura;

altri il disarma, altri gli sproni d’oro

gli leva, altri a forbir va l’armatura.

Era questa la casa ove Medoro

giacque ferito, e v’ebbe alta avventura.

Corcarsi Orlando e non cenar domanda,

di dolor sazio e non d’altra vivanda.

117

Quanto più cerca ritrovar quiete,

tanto ritrova più travaglio e pena;

che de l’odiato scritto ogni parete,

ogni uscio, ogni finestra vede piena.

Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;

che teme non si far troppo serena,

troppo chiara la cosa che di nebbia

cerca offuscar, perché men nuocer debbia.

118

Poco gli giova usar fraude a se stesso;

che senza domandarne, è chi ne parla.

Il pastor che lo vede così oppresso

da sua tristizia, e che voria levarla,

l’istoria nota a sé, che dicea spesso

di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,

ch’a molti dilettevole fu a udire,

gl’incominciò senza rispetto a dire:

119

come esso a prieghi d’Angelica bella

portato avea Medoro alla sua villa,

ch’era ferito gravemente; e ch’ella

curò la piaga, e in pochi dì guarilla:

ma che nel cor d’una maggior di quella

lei ferì Amor; e di poca scintilla

l’accese tanto e sì cocente fuoco,

che n’ardea tutta, e non trovava loco:

120

e sanza aver rispetto ch’ella fusse

figlia del maggior re ch’abbia il Levante,

da troppo amor costretta si condusse

a farsi moglie d’un povero fante.

All’ultimo l’istoria si ridusse,

che ‘l pastor fe’ portar la gemma inante,

ch’alla sua dipartenza, per mercede

del buono albergo, Angelica gli diede.

121 

Questa conclusion fu la secure

che ‘l capo a un colpo gli levò dal collo,

poi che d’innumerabil battiture

si vide il manigoldo Amor satollo.

Celar si studia Orlando il duolo; e pure

quel gli fa forza, e male asconder pòllo:

per lacrime e suspir da bocca e d’occhi

convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.

122

Poi ch’allargare il freno al dolor puote

(che resta solo e senza altrui rispetto),

giù dagli occhi rigando per le gote

sparge un fiume di lacrime sul petto:

sospira e geme, e va con spesse ruote

di qua di là tutto cercando il letto;

e più duro ch’un sasso, e più pungente

che se fosse d’urtica, se lo sente.

123

In tanto aspro travaglio gli soccorre

che nel medesmo letto in che giaceva,

l’ingrata donna venutasi a porre

col suo drudo più volte esser doveva.

Non altrimenti or quella piuma abborre,

né con minor prestezza se ne leva,

che de l’erba il villan che s’era messo

per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.

124

Quel letto, quella casa, quel pastore

immantinente in tant’odio gli casca,

che senza aspettar luna, o che l’albore

che va dinanzi al nuovo giorno nasca,

piglia l’arme e il destriero, ed esce fuore

per mezzo il bosco alla più oscura frasca;

e quando poi gli è aviso d’esser solo,

con gridi ed urli apre le porte al duolo.

125

Di pianger mai, mai di gridar non resta;

né la notte né ‘l dì si dà mai pace.

Fugge cittadi e borghi, e alla foresta

sul terren duro al discoperto giace.

Di sé si meraviglia ch’abbia in testa

una fontana d’acqua sì vivace,

e come sospirar possa mai tanto;

e spesso dice a sé così nel pianto:

126

– Queste non son più lacrime, che fuore

stillo dagli occhi con sì larga vena.

Non suppliron le lacrime al dolore:

finir, ch’a mezzo era il dolore a pena.

Dal fuoco spinto ora il vitale umore

fugge per quella via ch’agli occhi mena;

ed è quel che si versa, e trarrà insieme

e ‘l dolore e la vita all’ore estreme.

127 

Questi ch’indizio fan del mio tormento,

sospir non sono, né i sospir sono tali.

Quelli han triegua talora; io mai non sento

che ‘l petto mio men la sua pena esali.

Amor che m’arde il cor, fa questo vento,

mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.

Amor, con che miracolo lo fai,

che ‘n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?

128

Non son, non sono io quel che paio in viso:

quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra;

la sua donna ingratissima l’ha ucciso:

sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.

Io son lo spirto suo da lui diviso,

ch’in questo inferno tormentandosi erra,

acciò con l’ombra sia, che sola avanza,

esempio a chi in Amor pone speranza. –

129

Pel bosco errò tutta la notte il conte;

e allo spuntar de la diurna fiamma

lo tornò il suo destin sopra la fonte

dove Medoro isculse l’epigramma.

Veder l’ingiuria sua scritta nel monte

l’accese sì, ch’in lui non restò dramma

che non fosse odio, rabbia, ira e furore;

né più indugiò, che trasse il brando fuore.

130

Tagliò lo scritto e ‘l sasso, e sin al cielo

a volo alzar fe’ le minute schegge.

Infelice quell’antro, ed ogni stelo

in cui Medoro e Angelica si legge!

Così restar quel dì, ch’ombra né gielo

a pastor mai non daran più, né a gregge:

e quella fonte, già si chiara e pura,

da cotanta ira fu poco sicura;

131

che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle

non cessò di gittar ne le bell’onde,

fin che da sommo ad imo sì turbolle

che non furo mai più chiare né monde.

E stanco al fin, e al fin di sudor molle,

poi che la lena vinta non risponde

allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,

cade sul prato, e verso il ciel sospira.

132

Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,

e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.

Senza cibo e dormir così si serba,

che ‘l sole esce tre volte e torna sotto.

Di crescer non cessò la pena acerba,

che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.

Il quarto dì, da gran furor commosso,

e maglie e piastre si stracciò di dosso.

133 

Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,

lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:

l’arme sue tutte, in somma vi concludo,

avean pel bosco differente albergo.

E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo

l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;

e cominciò la gran follia, sì orrenda,

che de la più non sarà mai ch’intenda.

134

In tanta rabbia, in tanto furor venne,

che rimase offuscato in ogni senso.

Di tor la spada in man non gli sovenne;

che fatte avria mirabil cose, penso.

Ma né quella, né scure, né bipenne

era bisogno al suo vigore immenso.

Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,

ch’un alto pino al primo crollo svelse:

135

e svelse dopo il primo altri parecchi,

come fosser finocchi, ebuli o aneti;

e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,

di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.

Quel ch’un ucellator che s’apparecchi

il campo mondo, fa, per por le reti,

dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,

facea de cerri e d’altre piante antiche.

136

I pastor che sentito hanno il fracasso,

lasciando il gregge sparso alla foresta,

chi di qua, chi di là, tutti a gran passo

vi vengono a veder che cosa è questa.

Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo

vi potria la mia istoria esser molesta;

ed io la vo’ più tosto diferire,

che v’abbia per lunghezza a fastidire.

Parafrasi

Orlando furioso, XXIII, 100-136)

L’insolito percorso che il cavallo di Mandricardo seguì nel bosco senza sentieri, fece sì che Orlando vagò due giorni invano, e non lo trovò, né poté trovarne traccia. Giunse a un ruscello dalle acque cristalline, sulle cui rive fioriva un bel praticello colorato di colori naturali e piacevoli, circondato da alberi, numerosi e belli.

Il caldo del pomeriggio rendeva gradevole la lieve brezza al temprato gregge e al pastore nudo, così che neppure Orlando, che aveva addosso l’armatura, l’elmo e lo scudo, tremava dal freddo. Qui entrò per riposare in mezzo ai cespugli, e vi trovò un’angosciosa e crudele dimora, e un soggiorno funesto oltre ogni dire, quell’infelice e sfortunato giorno.

Girandosi intorno, vide incisi molti alberelli sulla riva ombreggiata del ruscello. Appena vi posò gli occhi e poi ve li fissò, fu certo che fossero opera della sua divina Angelica. Questo era uno di quei luoghi già descritti, dove spesso la bella regina del Catai veniva con l’amato Medoro dalla vicina casa del pastore.

Vide i nomi di Angelica e Medoro intrecciati insieme in cento modi e in cento luoghi. Quante erano le lettere, tanti erano i chiodi con i quali Amore gli trafiggeva e feriva il cuore. Cercò in mille modi con il pensiero, di non credere a ciò cui, suo malgrado, credeva: si sforzò di credere che fosse un’altra Angelica ad aver scritto il suo nome su quella corteccia.

Poi disse: -Conosco la grafia di queste lettere: di simili ne ho viste e ne ho lette tante. Potrebbe aver inventato questo Medoro: forse mi chiama con questo soprannome.- Con tali opinioni così lontane dalla verità, ingannando se stesso, l’infelice Orlando rimase nella speranza, che a se stesso seppe procurare.

Ma sempre più riaccese e alimentò, quanto più cercava di spegnerlo, l’atroce sospetto: come l’incauto uccello che si ritrova a incappare in una ragnatela o nel vischio, quanto più sbatte le ali e cerca di liberarsi, tanto più vi si lega strettamente. Orlando giunse dove il monte formava una grotta, a forma di arco, sulle limpide acque del ruscello.

Edere e viti avevano qua e là decorato l’ingresso della grotta con le loro ramificazioni contorte. Qui i due felici amanti erano soliti stare abbracciati quando il sole era cocente. Vi avevano scritti i loro nomi dentro e tutt’intorno, più che in qualsiasi altro luogo circostante, a volte col carbone e a volte col gesso, a volte incidendoli con la punta di un coltello.

Il triste conte Orlando smontò da cavallo e vide all’ingresso della grotta molte parole, che Medoro aveva scritte di suo pugno e che sembravano scritte allora. Egli aveva descritto in versi il gran piacere che aveva goduto in quella grotta. Io penso che quei versi fossero raffinati nella sua lingua, e nella nostra il senso era questo:

-Liete piante, verdi erbe, limpide acque, grotta oscura e gradevole per la fresca ombra, dove la bella Angelica figlia di Galafrone, da molti invano amata, spesso fra le mie braccia nuda giacque. Io povero Medoro non posso ricompensarvi dei piaceri che qui mi sono stati offerti in altro modo, se non lodandovi a ogni momento.

E posso pregare ogni nobile amante, cavalieri e damigelle, e ogni persona del posto o straniera, che capiti qui per volontà o per caso, che all’erba, all’ombra, alla grotta, al fiume, alle piante dica: che il sole e la luna, e il coro delle ninfe vi siano favorevoli e vi proteggano affinché il pastore non conduca mai qui il suo gregge.-

Era scritto in arabo, che il conte comprendeva bene quanto la sua stessa lingua: fra le molte lingue che conosceva, quella il paladino la parlava benissimo e gli aveva evitato più volte danni e offese, quando si era trovato tra il popolo saraceno: ma non si vanti, se in passato gli fu utile, perché ne ha ora un danno che cancella tutti i vantaggi.

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto quell’infelice, continuando invano a non voler vedere quel che vi era scritto, mentre lo vedeva sempre più chiaro e certo, e ogni volta che lo guardava in mezzo al petto angosciato sentiva il cuore come stretto da una fredda mano. Rimase infine con gli occhi e con la mente fissi sul sasso, anche lui pietrificato.

Fu allora sul punto di perdere la ragione, perché si abbandonò completamente al dolore. Credete a chi l’ha provato personalmente, che questo è il dolore che supera tutti gli altri. Il mento gli s’era chinato sul petto, la fronte priva della consueta baldanza e bassa, e tanto lo travolse il dolore, che non poté trovar voce per lamentarsi, né lacrime per piangere.

L’impetuoso dolore gli restò tutto dentro, perché voleva uscire troppo in fretta. Così vediamo l’acqua restare nel vaso, con il fondo largo e con l’imboccatura stretta, così che, capovolgendolo dalla base, l’acqua che vorrebbe uscire si riversa così in fretta e a tal punto s’ingorga nella stretta apertura che esce fuori a fatica goccia per goccia.

Poi tornò un po’ in sé, e pensò in che modo quella cosa potesse non essere vera: credette, desiderò e sperò che qualcuno volesse in questo modo disonorare il nome della sua donna, oppure opprimere lui con un peso insopportabile di gelosia, per farlo morire, e che costui, di chiunque si trattasse, avesse molto ben imitato la sua scrittura.

Con una speranza così debole e fioca risvegliò gli spiriti vitali e si rinfrancò un po’. Poi salì in groppa al suo cavallo Brigliadoro, quando già il sole stava cedendo il passo alla luna. Non era andato avanti per molto, che vide uscire il fumo di un camino dai comignoli dei tetti, sentì i cani abbaiare, muggire il bestiame: arrivò a un casolare e vi prese alloggio.

Privo di forze scese da cavallo e lasciò Brigliadoro a un affidabile ragazzo perché ne avesse cura. Un altro gli tolse le armi, un altro gli speroni d’oro, e un altro andò a lucidare l’armatura. Era questa la casa dove Medoro giacque ferito, e in cui ebbe grande fortuna. Orlando chiese di andare a letto senza cenare, sazio di dolore e di nessun’altra vivanda.

Quanto più cercò di ritrovare la quiete, tanto più ritrovava tormento e pena, perché anche lì vedeva ogni parete, ogni porta, ogni finestra ricoperta da quelle odiate scritte. Avrebbe voluto chiedere: poi tenne chiuse le labbra, perché temeva di rendere troppo evidente, troppo chiaro ciò che con illusori inganni cercava di offuscare, per provare meno dolore.

Poco gli giovò ingannare se stesso, perché senza che domandasse, vi fu chi gliene parlò. Il pastore che lo vide così oppresso dalla sua tristezza, e che avrebbe voluto alleviarla, cominciò a raccontare senza freni la storia a lui ben nota, che raccontava spesso, di quei due amanti a chi voleva ascoltarla e che per molti era piacevole da udire.

Raccontò di come lui, pregato dalla bella Angelica, avesse portato Medoro nella sua casa, poiché era ferito gravemente, e come lei avesse curato la ferita, e in pochi giorni l’avesse fatta guarire. Ma che poi lei nel cuore era stata ferita da Amore con una piaga più grande di quella, e da una piccola scintilla lei si era infiammata tanto e di un fuoco così forte da arderne tutta e non trovare pace. 

E infine, di come senza preoccuparsi di essere figlia del più grande sovrano d’Oriente, spinta dal troppo forte amore, fosse divenuta la moglie di un modesto fante. A chiusura della sua narrazione, il pastore fece portare il gioiello che Angelica, alla sua partenza, gli aveva donato come compenso per la sua ospitalità.

Questa conclusione fu la scure che con un sol colpo gli tolse la testa dal collo, dopo che il perfido Amore fu sazio di avergli inflitto tante sofferenze. Orlando si sforzò di nascondere il suo dolore, ma il dolore  premeva dentro di lui, e poteva nasconderlo a stento: volesse o meno, non poteva alla fine impedire che si manifestasse, con lacrime e sospiri, dalla bocca e dagli occhi.

Quando poté finalmente dare sfogo al suo dolore (poiché restò solo e senza riguardo per la presenza altrui), dagli occhi, rigando le gote, sparse un fiume di lacrime sul petto: sospirava, gemeva, si rigirava di qua e di là nel letto, e lo sentiva più duro d’un sasso e più pungente che se fosse di ortiche. 

In un così atroce tormento, gli venne in mente che nel medesimo letto su cui giaceva, l’ingrata donna doveva essere venuta a coricarsi più volte con il suo amante. Così all’istante ora odiò quel letto e si alzò da esso con rapidità non minore del contadino che, messosi a dormire sull’erba, si veda vicino un serpente.

Quel letto, quella casa, quel pastore subito odiò a tal punto che, senza attendere il sorgere della luna o che giungesse l’alba del nuovo giorno prese le armi e il cavallo e uscì. Inoltratosi nel bosco tra la vegetazione più fitta, quando fu sicuro di essere solo, con grida e urla spalancò le porte al dolore.

Non cessò mai di piangere e di gridare, né mai si diede pace, né di notte né di giorno. Evitò le città e i villaggi, giacque in mezzo alla foresta, all’aperto sulla dura terra. Si meravigliò di sé, di poter avere in testa una fontana così inesauribile, e di come potesse mai sospirare così tanto. Spesso così diceva tra le lacrime:

-Queste che sgorgano dai miei occhi con tanta abbondanza non sono più lacrime. Non sono sufficienti le lacrime per il mio dolore: sono finite quando il dolore era appena a metà. Ora la mia linfa vitale, spinta dal fuoco della gelosia, fugge dalla via che conduce agli occhi, ed è quella che se ne esce, e che condurrà insieme il dolore e la vita alla loro fine. 

Questi sospiri, che sono indizi del mio tormento, non sono sospiri, né i sospiri sono tali. Quelli ogni tanto si interrompono, mentre io non sento mai il mio petto ansimare meno per la sua pena. Amore che mi arde il cuore fa questo vento, mentre sbatte le sue ali intorno al fuoco. Amore, con quale straordinario artificio tieni il fuoco acceso nel cuore e non lo fai mai estinguere?

Non sono io, non sono io quello che sembro in volto: quello che era Orlando è morto e sepolto. La sua donna ingratissima l’ha ucciso: a tal punto, tradendo la parola data, gli ha mosso guerra. Io sono il suo spirito diviso dal suo corpo, che tormentandosi vaga in quest’inferno, in modo che con la propria ombra, che sola gli resta, sia da esempio a chi ripone speranza nell’amore.-

Il conte vagò per tutta la notte e al sorgere del sole il suo destino lo fece tornare nei pressi della fonte dove Medoro aveva inciso i suoi versi d’amore. Vedere il suo disonore scolpito nella roccia lo accese al punto che in lui non restò nulla che non fosse odio, rabbia, ira e furore. Né indugiò oltre e trasse fuori la spada.

Distrusse l’incisione e il sasso, e fece volare in alto fino al cielo le più piccole schegge. Infelice quella grotta, e ogni pianta in cui si leggevano i nomi di Medoro e Angelica! Quel giorno furono ridotte al punto, che né ombra né refrigerio avrebbero più dato, né al pastore né al gregge: e quella fonte, prima così chiara e pura, non poté salvarsi da una così rabbiosa ira. 

Infatti, rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non cessò di gettare nelle limpide onde, fin quando, dalla superficie al fondo, le rese così torbide che non furono mai più limpide e pulite. E infine, stanco e fradicio di sudore, poiché la forza esaurita non rispondeva più allo sdegno, al grande odio, all’ardente ira, cadde sul prato e sospirò verso il cielo.

Afflitto e stanco alla fine cadde nell’erba, fissò gli occhi al cielo e immobile tacque. Rimase così senza mangiare e senza dormire, mentre il sole sorse tre volte e tre volte tramontò. L’aspro dolore non cessò di crescere, finché lo fece infine uscire di senno. Il quarto giorno, sconvolto da grande furore, si strappò di dosso l’armatura.

Qui restò l’elmo, là restò lo scudo, lontano i pezzi dell’armatura e più lontano la corazza: tutte le sue armi, vi dico, in conclusione, erano sparse per il bosco in diversi punti. Poi si strappò le vesti, e mostrò nudo il ventre peloso e tutto il petto e la schiena; e cominciò la gran follia, così tremenda che nessuno sentirà mai descriverne una più grande.

Fu preso da una tale rabbiosa ira e da un tale furore, che tutti i suoi sensi rimasero offuscati. Non ebbe in mente di prendere la spada, con la quale avrebbe compiuto strabilianti imprese, penso. Ma né quella, né la scure, né l’ascia bipenne servivano per il suo vigore immenso. Qui compì le sue prove più straordinarie, poiché un grande pino sradicò con un sol colpo.

E dopo il primo ne strappò parecchi altri, come fossero finocchi, ebuli o aneti. Lo stesso fece con querce e olmi vecchi, con faggi, orni, elci e abeti. Quello che fa un cacciatore quando prepara il terreno per porvi le reti, sgombrandolo dai giunchi, dalle stoppie e dalle ortiche, Orlando lo faceva con le querce e con altri alberi secolari.

I pastori che sentirono questo fracasso, abbandonando il gregge sparso per la foresta, accorsero tutti chi da una parte, chi dall’altra, a vedere che cosa stesse accadendo. Ma sono giunto a un punto oltre il quale la mia storia potrebbe diventare noiosa, perciò preferisco interromperla e rinviarla, per evitare che possa infastidirvi per la sua lunghezza.

Analisi del testo

Il noto episodio della follia di Orlando si colloca a metà esatta dell’Orlando furioso, tra la fine del ventitreesimo canto e l’inizio del ventiquattresimo. 

La storia

Orlando, inseguendo il cavaliere saraceno Mandricardo, decide di riprendere le forze in una radura, che era stato il luogo degli incontri tra Angelica e Medoro. Il paladino scopre gli indizi del loro amore, espresso nei messaggi d’amore incisi sui tronchi degli alberi e sulle pareti di una grotta. 

Disperato, Orlando cerca in tutti i modi di autoconvincersi della falsità delle incisioni, cerca a tutti costi di non vedere l’evidenza, vorrebbe credere che di altra Angelica si tratta, o che, se è lei, usa il nome Medoro per indicare lui, Orlando. Poi legge un graffito di Medoro, in cui egli ringrazia il luogo ameno e ospitale in cui ha potuto godere della bella Angelica che “da molti invano amata,/spesso ne le mie braccia nuda giacque”, e il trovare giustificazioni diventa quasi impossibile, benché Orlando continui a sperare disperatamente.

Al tramonto prende il cavallo, si mette in viaggio e poco dopo vede una casa. Un pastore lo ospita per la notte e, vedendolo triste e sconsolato, per allietarlo gli racconta, con dovizia di dettagli, l’idillio amoroso di Angelica e Medoro.

Dopo aver curato il giovane Medoro ferito, la bella Angelica se n’era innamorata e aveva deciso di sposarlo, benché egli fosse solo un povero fante e lei, invece, figlia del più potente sovrano d’Oriente. Il pastore mostra a Orlando il letto su cui si è consumato l’amore tra i due giovani e un prezioso bracciale che Angelica gli ha dato come compenso per l’ospitalità ricevuta.

È il bracciale che lui, Orlando, aveva donato ad Angelica. È il colpo di grazia: per il povero Orlando è veramente troppo. Rimasto solo, Orlando piange disperatamente, poi fugge da quella casa e si precipita nel bosco, dove può dare libero sfogo al suo dolore. Vaga per il bosco tutta la notte e giunge per caso nei pressi della fonte, dove aveva visto le incisioni dei due amanti.

Frantuma in mille pezzi la roccia su cui Medoro aveva espresso il suo amore per Angelica e tutto quel che le sta attorno, al punto che la pura fonte che vi era in quel luogo, da allora è rimasta per sempre torbida.

Poi, stremato, crolla sull’erba e dorme per tre giorni. Il quarto giorno, uscito di senno, dopo essersi completamente spogliato, inizia a correre e a devastare tutto quel che incontra, sradicando alberi come fossero fuscelli. I contadini, sentendo il frastuono, si incuriosiscono e vanno a vedere che cosa sta succedendo.

La descrizione della pazzia di Orlando prosegue nella prima parte del canto successivo (XXIV). La crisi dell’eroe verrà risolta solo dall’intervento di Astolfo, che si recherà sulla Luna a recuperare il suo “senno” perduto (Canto XXXIV del poema).

I luoghi della pazzia.

Il canto si svolge tra una radura amena e la casa di un pastore che ospita Orlando per la notte. I luoghi descritti non sono però solo lo sfondo della vicenda amorosa, ma hanno un ruolo centrale nell’esplosione della pazzia di Orlando. Piante, pietre e acque sembrano parlare e deridere il paladino, mostrandogli prove evidenti del tradimento di Angelica.

Così, Orlando sfoga la sua rabbia su di loro, distruggendole in preda alla follia, come per metterle per sempre a tacere.

La radura in cui arriva, stremato, Orlando, presenta a prima vista tutti i tratti caratteristici del locus amoenus (ottava 100): si sottolinea così, con ancor più forza, l’antitesi tra la serenità del mondo circostante e il tormento interiore di Orlando. 

Gli autoinganni

L’incedere della pazzia è descritto da Ariosto con precisione psicologica, in un crescendo di intensità drammatica. Dapprima, dopo aver letto i nomi degli amanti incisi nelle cortecce degli alberi, Orlando inventa illusorie spiegazioni e inganna se stesso; poi, giunto nella grotta, trova un’incisione di Medoro, in cui con una poesia in arabo si ringraziano quei luoghi che hanno visto nascere l’amore tra lui ed Angelica.

Orlando, che già sta cedendo alla pazzia, di nuovo si inganna, dicendo a se stesso che le incisioni sono opera di qualcuno che vuole instillargli gelosia o infangare il nome della donna amata. 

L’esplodere della follia

Sarà il racconto del pastore e la vista del gioiello donato da Orlando ad Angelica come pegno d’amore, da lei lasciato al pastore in segno di gratitudine, a far crollare definitivamente gli autoinganni di Orlando e a far esplodere la follia del paladino.

Il protagonista, sconvolto dalla scoperta della verità, attraversa diversi stadi: l’illusione e l’autoinganno, la negazione della realtà e l’accusa contro terzi, il dolore che rende muti e intontiti, la follia come fuga dal mondo e sua distruzione.

Ariosto descrive la pazzia di Orlando con numerose e ripetute iperboli che mettono in risalto la disperazione e la furia cieca dell’eroe. 

La follia d’amore

L’episodio mostra in modo ironico e paradossale le conseguenze della “follia” d’amore su Orlando. L’amore  ricorda Ariosto – ha conseguenze più o meno simili su tutti gli uomini.

Il poeta ironizza anche su se stesso, dichiarando di averne “fatto esperimento”. Come già dichiarato nel proemio, l’amore per la sua donna (Alessandra Benucci) lo ha portato molto vicino alla pazzia.

La bonaria ironia sui rischi dell’amore rientra nella più generale considerazione circa la follia degli uomini, che sprecano la loro vita inseguendo vane illusioni.

Esercizi di analisi del testo

  1. I gruppi di strofe che hai letto presentano diversi nuclei narrativi. Individuali e per ciascuno di essi individua azioni/comportamenti e sentimenti/stati d’animo di Orlando.
  2. Orlando, nel luogo in cui è giunto, legge molte dediche d’amore: qual è la sua reazione? Che spiegazione se ne dà?
  3. A un certo punto Orlando vede uno scritto di tipo diverso, che lo colpisce particolarmente, tanto che è sul punto di uscir del sentimento: di cosa si tratta? Che cosa ne consegue?
  4. In seguito Orlando viene ospitato da un contadino: che cosa gli racconta? 
  5. Quali conseguenze provoca il racconto del contadino? In che modo si manifesta la pazzia di Orlando, provocata dall’amore tradito?
  6. Quali ti sembrano essere gli aspetti dell’amore (e della gelosia) che il testo evidenzia?
  7. L’autore fa uso dell’ironia, nel descrivere le avventure di Orlando, e “gioca” con il lettore/ascoltatore, intervenendo con commenti: in quali punti?
  8. Perché, nei versi conclusivi, l’autore sospende la narrazione delle vicende del paladino per cambiare argomento?
  9. Individua nel testo le esempi della figura retorica dell’iperbole.

La pazzia di Orlandoorlando

 

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