Manzoni, L’incubo di don Rodrigo.

Promessi sposi

Alessandro Manzoni, L’incubo di don Rodrigo

(cap. XXXIII dei Promessi sposi)

Verso la fine di agosto del 1630, mentre a Milano infuria la peste, Don Rodrigo rincasa durante la notte dopo una baldoria con amici…

 

Don RodrigoUna notte, verso la fine d’agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l’uno de’ tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto d’amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n’eran de’ nuovi, e ne mancava de’ vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de’ piú allegri; e tra l’altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d’elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima. 

Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un’arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d’ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perché, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l’occhio medico. 

“Sto bene, ve’, ” disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente. ” Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po’ troppo. C’era una vernaccia!… Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno… Levami un po’ quel lume dinanzi, che m’accieca… mi dà una noia…!” 

“Scherzi della vernaccia,” disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. “Ma vada a letto subito, ché il dormire le farà bene.” 

“Hai ragione: se posso dormire… Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta’ attento, ve’, se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla… Porta via presto quel maledetto lume,” riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l’ordine, avvicinandosi meno che poteva. “Diavolo! che m’abbia a dar tanto fastidio !” 

Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n’andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto. 

Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all’agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch’entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s’era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor piú facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste. 

Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s’addormentò, e cominciò a fare i piú brutti e arruffati sogni del mondo. E d’uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n’era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni. ” Largo canaglia! ” gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan piú addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta piú forte. Strepitava, era tutt’affannato, e voleva gridar piú forte; quando gli parve che tutti que’ visi si rivolgessero a una parte.

Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò.

Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto.

Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo. 

L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura piú forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzeretto. E cercando la maniera d’evitare quest’orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe piú testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all’erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e s’accertò di quello che, la sera, aveva congetturato. 

” Griso! ” disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: ” tu sei sempre stato il mio fido.” 

” Sì, signore.” 

” T’ho sempre fatto del bene.” 

” Per sua bontà.” 

” Di te mi posso fidare…!” 

” Diavolo!” 

” Sto male, Griso.” 

” Me n’ero accorto.” 

” Se guarisco, ti farò del bene ancor piú di quello che te n’ho fatto per il passato.” 

Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare questi preamboli. 

” Non voglio fidarmi d’altri che di te, ” riprese don Rodrigo: ” fammi un piacere, Griso.” 

” Comandi, ” disse questo, rispondendo con la formola solita a quell’insolita. 

” Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?” 

” Lo so benissimo.” 

” E’ un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va’ a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di piú, se di piú ne chiede; ma che venga qui subito; e fa’ la cosa bene, che nessun se n’avveda.” 

” Ben pensato, ” disse il Griso: ” vo e torno subito.” 

” Senti, Griso: dammi prima un po’ d’acqua. Mi sento un’arsione, che non ne posso piú.” 

” No, signore, ” rispose il Griso: ” niente senza il parere del medico. Son mali bisbetici: non c’è tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui col Chiodo.” 

Così detto, uscì, raccostando l’uscio. 

Don Rodrigo, tornato sotto, l’accompagnava con l’immaginazione alla casa del Chiodo, contava i passi, calcolava il tempo. Ogni tanto ritornava a guardare il suo bubbone; ma voltava subito la testa dall’altra parte, con ribrezzo. Dopo qualche tempo, cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo arrivava: e quello sforzo d’attenzione sospendeva il sentimento del male, e teneva in sesto i suoi pensieri. Tutt’a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente piú forte, piú ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor piú attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come d’un peso che venga messo giú con riguardo; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all’uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare. 

” Ah traditore infame!… Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! son assassinato! ” grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola; l’afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan preso la rincorsa verso il letto; il piú pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere, e lo tien lì, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di scherno: ” ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l’opere di misericordia!” 

” Tienlo bene, fin che lo portiam via, ” disse il compagno, andando verso uno scrigno. E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la serratura. 

” Scellerato! ” urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all’altro che lo teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. ” Lasciatemi ammazzar quell’infame, ” diceva quindi ai monatti, ” e poi fate di me quel che volete “. Poi ritornava a chiamar con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era inutile, perché l’abbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone stesso, prima d’andare a fare ai monatti la proposta di venire a quella spedizione, e divider le spoglie. 

” Sta’ buono, sta’ buono, ” diceva allo sventurato Rodrigo l’aguzzino che lo teneva appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan bottino, gridava: ” fate le cose da galantuomini!” 

” Tu! tu! ” mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti, ” Tu! dopo…! Ah diavolo dell’inferno! Posso ancora guarire! posso guarire! ” Il Griso non fiatava, e neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle parole. 

” Tienlo forte, ” diceva l’altro monatto: ” è fuor di sé.” 

Ed era ormai vero. Dopo un grand’urlo, dopo un ultimo e piú violento sforzo per mettersi in libertà, cadde tutt’a un tratto rifinito e stupido: guardava però ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava. 

I monatti lo presero, uno per i piedi, e l’altro per le spalle, e andarono a posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via. 

Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di piú che potesse far per lui; fece di tutto un fagotto, e se n’andò. Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell’ultima furia del frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C’ebbe però a pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto de’ brividi, gli s’abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da’ compagni, andò in mano de’ monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima d’arrivare al lazzeretto, dov’era stato portato il suo padrone

Analisi del testo.

Una notte, verso la fine di agosto del 1630, mentre a Milano infuria la peste, Don Rodrigo torna a casa, dopo aver fatto baldoria con amici. Nel corso della serata il nobile ha suscitato il riso di tutti pronunciando un elogio funebre del conte Attilio, portato via dall’epidemia due giorni prima. Lungo la strada avverte però strani malesseri, tra cui la pesantezza delle gambe, difficoltà a respirare e arsura interna che vorrebbe attribuire al vino, alla stanchezza e alla calura estiva. Dopo essere giunto a casa, Don Rodrigo ordina al Griso di fargli luce per arrivare in camera e il bravo obbedisce tenendosi a distanza dal padrone perché riconosce in lui i segni della malattia. Egli si affanna a dire che sta bene, che ha solo bevuto troppa vernaccia, ma la luce del lume lo infastidisce e non vede l’ora di mettersi a letto per la stanchezza. Si caccia sotto le coperte e ordina al Griso di accorrere nel caso che lui lo chiamasse. Il bravo augura la buonanotte al padrone e si ritira.

Don Rodrigo va a letto ma le coperte gli pesano addosso come montagne, e quando sta per addormentarsi  subito si risveglia come per uno scossone, agitato dal caldo e dalla sete e, soprattutto, da un pensiero fisso impossibile da scacciare.

Finalmente si addormenta, ma i suoi sogni sono tormentati e soprattutto ne fa uno spaventoso. Gli sembra di trovarsi in una chiesa, tra una folla lurida e grigia che lo preme. La folla lo stringe sempre più e a don Rodrigo sembra che qualcuno gli prema sotto l’ascella sinistra, dove sente un forte dolore. Cerca di afferrare la spada e gli sembra che l’elsa sia salita in alto, premendogli contro il fianco e producendo quel dolore così fastidioso tra l’ascella e il cuore. Contorcendosi, cerca di uscire dalla calca, poi vede che tutti sono rivolti verso un pulpito, da cui parla padre Cristoforo che, “fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio“, lo ferma su di lui e alza una mano nello stesso gesto minaccioso che aveva compiuto nel palazzotto di Don Rodrigo, il giorno lontano della sua visita. 

Con sforzo, Don Rodrigo cerca di afferrare quella mano e urla, poi all’improvviso si sveglia. L’incubo è finito, ed egli capisce di aver sognato, ma qualcosa del sogno è rimasto: il dolore sotto l’ascella. Esita prima di guardare sotto l’ascella e quando trova il coraggio di farlo, con ribrezzo e spavento, vi scorge “un sozzo bubbone d’un livido paonazzo”. È preso dal terrore della morte e di divenire preda dei monatti. Chiama il Griso che, accorso immediatamente, si rende conto dello stato del padrone e si tiene a debita distanza. Don Rodrigo prega il suo bravo, promettendogli una lauta ricompensa, di far venire il Chiodo chirurgo, un medico che dietro compenso tiene segreti gli ammalati. Il Griso esce di casa e a don Rodrigo non resta che attendere, in preda alle sue paure. Ma il bravo anziché tornare con il medico, rientra accompagnato da due luridi monatti. Mentre uno trattiene il padrone, il Griso, assieme all’altro figuro scassina lo scrigno in cui don Rodrigo tiene il denaro. Dopo aver cercato disperatamente di ribellarsi, don Rodrigo perde i sensi e resta come sbalordito, perciò i due monatti lo sollevano di peso e lo pongono su una barella. Poi si allontanano portando via l’appestato.

Prima di andarsene, il Griso scuote i panni del signorotto per vedere se ci sia denaro. Il giorno dopo, mentre fa festa in una bettola, viene colto dai brividi e muore sul carro dei monatti, prima ancora di giungere al lazzaretto.

Analisi del testo

  1. Descrivi il sogno di don Rodrigo? A quale episodio lo si può ricollegare?
  2. Quali elementi “horror” sono presenti?
  3. Quale relazione c’è tra il sogno e la realtà? 
  4. Che cosa scopre don Rodrigo quando si sveglia?
  5. Come si comporta il Griso?

Dal CAPITOLO VI: Dialogo tra Fra Cristoforo e don Rodrigo

– Come! in questa casa…!

– Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno…

Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento.

Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quella dell’infausto profeta, gridò: – escimi di tra’ piedi, villano temerario, poltrone incappucciato.

Queste parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All’idea di strapazzo e di villanià, era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo, associata l’idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel complimento, gli cadde ogni spirito d’ira e d’entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che quella d’udir tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse d’aggiungere. Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il ciel la manda.

– Villano rincivilito! – proseguì don Rodrigo: – tu tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa volta; e la vedremo. Così dicendo, additò, con impero sprezzante, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e se n’andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia.

 

 

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