H. P. Lovecraft, I gatti di Ulthar

Howard Phillips Lovecraft, I gatti di Ulthar

I gatti di Ulthar (The Cats of Ulthar) è un racconto scritto nel 1920 dallo scrittore statunitense Howard Phillips Lovecraft.


Si dice che a Ulthar, oltre il fiume Skai, non si possono uccidere i gatti, e mentre guardo la bestiola accoccolata a far le fusa davanti al caminetto, non ho nessun motivo per dubitarne. Enigmatico, il gatto è affine a quelle strane cose che l’uomo non può vedere. È lo spirito dell’antico Egitto, depositario dei racconti a noi giunti dalle città dimenticate delle terre di Meroe e Ophir. E parente dei signori della giungla, erede dell’Africa oscura e feroce. La Sfinge è sua cugina, e lui parla la sua lingua; ma il gatto è più vecchio della Sfinge, e ricorda ciò che lei ha dimenticato.

A Ulthar, prima che i cittadini proibissero l’uccisione dei gatti, vivevano un anziano contadino e sua moglie, i quali si dilettavano a intrappolare e ammazzare i gatti dei loro vicini. Non so immaginare i motivi di questo peculiare passatempo, oltre al fatto che molte persone non sopportano i miagolii notturni dei gatti e non vedono di buon occhio il fatto che all’imbrunire si aggirino furtivamente nei giardini e nei cortili. Ad ogni modo, qualunque fosse la ragione, fatto sta che questo vecchio e sua moglie provavano un morboso piacere nel catturare e uccidere ogni gatto che si avvicinasse al loro tugurio. Inoltre, a giudicare dai rumori che si udivano dopo il tramonto, molti degli abitanti di Ulthar erano propensi a ritenere che il modo in cui i due coniugi uccidevano le malcapitate bestiole fosse assai particolare.

Tuttavia, di ciò gli abitanti del villaggio non ragionavano mai con i due anziani, scoraggiati dall’espressione che abitualmente vedevano sulle loro facce avvizzite, e dal fatto che la loro abitazione, una minuscola catapecchia, sorgesse sul retro di un terreno abbandonato, racchiuso nel folto di un querceto che la celava quasi totalmente alla vista. I proprietari di gatti detestavano quella strana coppia, ma la paura che quei due incutevano superava l’odio. Di conseguenza, anziché ammonirli e trattarli come brutali assassini, si limitavano a impedire con estrema attenzione che un amato gattino domestico o selvatico predatore di topi si aggirasse intorno alla solitaria bicocca sotto gli alberi oscuri. Quando, però, per una inevitabile distrazione, un gatto spariva e si udivano i ben noti rumori al calare del buio, il proprietario della bestiola scomparsa non poteva far altro che lamentarsi impotente, o consolarsi ringraziando il fato che a sparire non fosse stato uno dei suoi figlioli. Perché gli abitanti di Ulthar erano gente semplice, e nulla sapevano sull’origine e la provenienza dei gatti.

Accadde un giorno che una carovana di strani nomadi delle terre del sud giungesse nelle strade acciottolate di Ulthar.

Avevano la pelle scura, ed erano diversi dagli altri girovaghi che attraversavano il villaggio due volte all’anno. Predissero la sorte per una moneta d’argento nella piazza del mercato, e acquistarono collane colorate dai mercanti. Nessuno sapeva immaginare da quale paese provenissero questi curiosi stranieri. Alcuni li udirono recitare strane preghiere, e non si tardò a notare le strane raffigurazioni dipinte sui fianchi dei loro carri: esseri dal corpo umano e la testa di gatto, falco, ariete o leone. Il capo della carovana portava un copricapo dal quale spuntavano due corna, e tra queste campeggiava un curioso disco.

Tra i vagabondi della singolare carovana faceva spicco un ragazzino, orfano di entrambi i genitori, la cui sola compagnia era un piccolo micetto nero per il quale mostrava tenero affetto. La peste non era stata indulgente con lui, fortunatamente gli aveva lasciato quel grazioso batuffolo di pelo ad alleviare la sua tristezza; e si sa, quando si è piccoli è facile trovare conforto nelle simpatiche moine di un gattino nero. Cosicché, il ragazzino, che quei nomadi dalla pelle scura chiamavano Menes, passava più tempo a ridere che a piangere quando sedeva a giocare col suo grazioso micino sulla scaletta di un carro adorno di quegli Strani disegni.

La mattina del terzo giorno trascorso a Ulthar dai girovaghi, Menes non trovò il suo gattino.

Scoppiò in singhiozzi, e sentendolo piangere così forte nella piazza del mercato, alcune persone gli raccontarono del vecchio e di sua moglie, e dei rumori che si sentivano di notte. Nell’udire quei racconti, Menes smise di piangere e prese a riflettere, poi cominciò a pregare. Alzò le braccia verso il sole e pregò in una lingua che suonò incomprensibile a tutti. In verità, nessuno si sforzò di capire ciò che diceva, in quanto l’attenzione dei presenti era rivolta al cielo e alle strane forme che le nuvole andavano assumendo. Si trattò di un fenomeno stranissimo: mentre il ragazzo mormorava la sua supplica, sembravano prender forma nel cielo nebulose figure di creature esotiche, ibridi esseri coronati da dischi a due corna. La Natura abbonda di illusioni che impressionano la fantasia.

Quella notte i girovaghi lasciarono Ulthar per non farvi mai più ritorno.

E una sottile inquietudine assalì i cittadini allorché si accorsero che in tutto il villaggio non vi era più un solo gatto. Da ogni focolare la domestica bestiola era sparita senza lasciar traccia: gatti grossi e piccini, neri, grigetti, tigrati, gialli e bianchi. Il vecchio Kranon, il califfo, accusò i nomadi dalla pelle nera di aver rapito tutti i gatti del villaggio per vendicare l’uccisione del gattino di Menes, e maledì la carovana e il ragazzino. Ma Nith, il magro notaio del paese, reputava assai più sospettabili il vegliardo e la moglie, giacché l’odio di quei due per i gatti era ben noto a tutti, e diventava sempre più sfrontato. Ciò nondimeno, nessuno osò protestare apertamente contro la sinistra coppia; neppure quando il piccolo Atal, il figlio del locandiere, giurò di aver visto tutti i gatti di Ulthar radunarsi al tramonto nel campo maledetto nascosto dalle querce. Non solo; li aveva visti sfilare lentamente in circolo intorno alla capanna, in fila per due, come se stessero celebrando un misterioso rito bestiale. Gli abitanti di Ulthar non potevano dar credito alle parole di un ragazzino, ed erano propensi a credere che la malvagia coppia avesse ucciso tutti i gatti con qualche sorta di misterioso incantesimo; ciò nonostante preferirono non affrontare il vecchio finché non lo avessero avuto a tiro fuori dal suo cortile buio e repellente.

E così Ulthar andò a dormire con la sua rabbia impotente, e quando all’alba si risvegliò — prodigio!

Tutti i gatti erano ritornati al loro focolare domestico. Grossi e piccini, neri, grigi, tigrati, gialli e bianchi, non ne mancava neanche uno. A guardarli apparivano belli grassi e col pelo più lucido che mai, e tutti facevano le fusa manifestando gioia e soddisfazione. I cittadini si confidarono il fatto a vicenda, non senza una buona dose di stupore. Il vecchio Kranon insistette nuovamente nella sua convinzione che a rapirli fossero stati i girovaghi dalla pelle scura, giacché non era mai successo che un gatto ritornasse vivo dalla casa del vecchio e di sua moglie. Tutti, però, concordavano su una cosa: il rifiuto dei gatti di mangiare la loro porzione di carne o di bere la loro ciotola di latte era davvero strano. E per due giorni interi gli oziosi e lucidi gatti di Ulthar non vollero toccar cibo, ma soltanto sonnecchiare al sole o in casa davanti al caminetto.

Ci volle un’intera settimana perché gli abitanti di Ulthar

notassero che al calar della sera nessuna luce brillava alle finestre della casupola in mezzo agli alberi. Allora il magro Nith osservò che nessuno aveva più visto il vegliardo e sua moglie dalla notte in cui erano scomparsi i gatti.

Passò un’altra settimana e fu allora che il califfo decise di vincere le sue paure e di recarsi alla dimora stranamente silenziosa, ottemperando al suo dovere. Nel farlo, però, agì con prudenza portando con sé Shang il fabbro e Thul il tagliapietre in qualità di testimoni. E quando buttarono giù la fragile porta, quel che trovarono fu esattamente questo: due scheletri umani sul pavimento minuziosamente spolpati e una quantità di strani scarafaggi che Strisciavano negli angoli bui.

Ci fu un gran parlare tra la gente di Ulthar dopo questa scoperta.

Zath, il medico, discusse a lungo con Nith, il magro notaio; e Kranon, Shang e Thul furono tempestati di domande. Persino il piccolo Atal, il figlio del locandiere, fu sottoposto a un serrato interrogatorio, e infine ricompensato con qualche dolciume. Si parlò del vecchio contadino e di sua moglie, della carovana di girovaghi dalla pelle scura, del piccolo Menes e del suo gattino nero, della preghiera di Menes e di come era apparso il cielo durante la preghiera, di come si erano comportati i gatti la notte della partenza della carovana e di ciò che successivamente fu scoperto nella casa sotto gli alberi fitti del cortile repellente.

E fu così che infine gli abitanti della città promulgarono quella singolare legge di cui parlano i commercianti di Hatheg e discutono i viaggiatori di Nir, e cioè che nella città di Ulthar è vietato uccidere i gatti.

Ulthar

Analisi del testo

L’anonimo narratore, mentre osserva il suo gatto accoccolato vicino al camino, riferisce di una leggendaria tradizione della città di Ultar, il divieto di uccidere gatti. A deliberare questa legge gli abitanti di Ulthar sono giunti in seguito a singolari e misteriosi accadimenti.

Un vecchio contadino e sua moglie si divertivano crudelmente a catturare e a uccidere i gatti che si avventurassero nella loro proprietà. Nessuno osava reagire e opporsi, perché i due malvagi contadini erano inquietanti e incutevano paura. Perciò gli abitanti di Ulthar si limitavano a tenere lontani i propri gatti dalla catapecchia dei due.

Un giorno una carovana di misteriosi nomadi giunge in città e tra loro c’è un bambino orfano dei genitori, di nome Menes, al quale non è rimasto che un gattino nero. La mattina del terzo giorno di permanenza degli zingari, Menes non trova più il suo gattino. Udito quel che si narra dei due vecchi, Menes rivolge misteriose preghiere al cielo, nel quale le nuvole sembrano assumere strane e inquietanti sembianze. Quella notte i girovaghi abbandonano la città. Dopo la loro partenza, misteriosamente, tutti i gatti di Ulthar sono scomparsi e gli abitanti di Ulthar fanno diverse ipotesi: chi attribuisce la sparizione ai nomadi, chi ai due malvagi contadini. Non viene dato credito a quanto riferito da una ragazzino, che dice di aver visto tutti i gatti aggirarsi attorno alla capanna dei vecchi con fare strano.

Poi, misteriosamente come erano spariti, il mattino successivo tutti i gatti della città ricompaiono, belli e pasciuti. E curiosamente rifiutano di mangiare cibo e di bere latte.

Dopo una settimana gli abitanti di Ulthar notano che nessuna luce brilla la sera nella casupola dei due vecchi e che dalla notte della scomparsa dei gatti anche loro non si sono più visti. E solo dopo un’altra settimana trovano il coraggio per entrare nella loro casa, trovando due scheletri umani minuziosamente spolpati e una miriade di strani scarafaggi. È così che, dopo lungo discutere, gli abitanti di Ulthar decidono di promulgare la singolare legge che vieta di uccidere gatti.

Nel racconto la vicenda è collocata in una dimensione spaziale temporale immaginaria, vaga e indefinita. I luoghi sono immaginari e fantastici e assumono una connotazione mitologica. Contrastano felicemente con questa caratteristica le indicazioni sul tempo trascorso, che sono piuttosto precise (tre giorni, l’alba successiva, due settimane) dopo la comparsa della carovana di strani zingari provenienti da terre lontane.

Tutto il racconto è avvolto in una dimensione inquietante, in cui si verificano avvenimenti misteriosi e inspiegabili. L’autore dissemina indizi su ciò che potrebbe essere accaduto, ma non lo riporta esplicitamente. Lascia solo immaginare che cosa i gatti possano avere fatto nella casa dei due vecchi, lascia immaginare il perché si siano comportati in questo modo. Certo, pochi dubbi potrà avere il lettore: i gatti hanno ucciso e divorato i due vecchi, di cui non è rimasto che il cadavere.

Tuttavia il mistero, l’incertezza, le supposizioni pervadono la narrazione. In questo giocano un ruolo importante l’alone di mistero che accompagna la misteriosa carovana di nomadi e la strana preghiera pronunciata da Menes.

La struttura del racconto è circolare, ad anello. Infatti il tema della legge che vieta l’uccisione dei gatti a Ulthar, con cui esso inizia, ritorna nella conclusione, contribuendo a creare quella dimensione mitologica che caratterizza il racconto.

Esercizi di analisi del testo

  1. La collocazione spaziale e temporale del racconto sono indeterminate e fantastiche. Sulla base di quali elementi lo si può affermare? Ricavali dal testo.
  2. Sulla base delle indicazioni temporali fornite, qual è la durata della vicenda?
  3. Indica se la struttura della narrazione può essere definita: a) ad anello; b) a ostacoli; c) a incastro.
  4. Un ingrediente del racconto che lo differenzia dalla fiaba e lo avvicina all’horror è il “non detto”. In cosa consiste? Da quali indizi si comprende che è accaduto?
  5. Il testo può essere suddiviso sulla base di indicazioni principalmente di tipo temporale: procedi alla divisione in  sequenze ed attribuisci un titolo a ciascuna di esse. Completa la griglia.

Elementi di passaggio

Titoli delle sequenze

Si dice che a Ulthar  
A Ulthar… vivevano
faceva spicco un ragazzino
Quella notte i girovaghi  
all’alba … prodigio!
un’altra settimana  
Ci fu un gran parlare

gatti

 

 

 

/ 5
Grazie per aver votato!

Print Friendly, PDF & Email

Copyright © 2013 giorgiobaruzzi. All Rights Reserved.