Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese.

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Giacomo Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese

È questo il dialogo in cui trova sistemazione definitiva la concezione del  cosiddetto pessimismo cosmico, ovvero la convinzione che sia la natura a causare l’infelicità dell’uomo e non la ragione. L’operetta fu composta nei giorni 21, 27 e 30 maggio 1824. Una breve cornice introduttiva precede il dialogo vero e proprio, creando la dimensione fantastica per l’incontro dei due interlocutori.

Testo parafrasato

Un Islandese che aveva viaggiato per tutto il mondo e soggiornato nelle terre più diverse, si addentrò una volta all’interno dell’Africa. Oltrepassata la linea dell’equatore, in un luogo mai visitato prima dall’uomo, fece un’esperienza simile a quella di Vasco de Gama che, oltrepassando il Capo di Buona Speranza, incontrò lo stesso Capo sotto forma di gigante, deciso a distoglierlo dal proseguire il suo viaggio.

Vide in lontananza un busto enorme e dapprima immaginò che fosse di pietra, simile alle enormi sculture da lui viste molti anni prima nell’isola di Pasqua. Avvicinatosi vide che si trattava di un’enorme figura di donna seduta in terra, col busto diritto, con il dorso e il gomito appoggiati a una montagna e non finta ma viva, con il volto bello ma terribile, con gli occhi e i capelli nerissimi, che lo guardava intensamente. Dopo essere rimasta a lungo così senza dir nulla, infine parlò.

Natura. Chi sei? Che cosa cerchi in questi luoghi, in cui mai è comparso il genere umano?

Islandese. Sono un povero Islandese e sto fuggendo la Natura. Dopo aver cercato di sfuggirle per quasi tutta la mia vita in centinaia di luoghi diversi, ora la fuggo attraverso questa terra.

Natura. In tal modo lo scoiattolo cerca di sfuggire al serpente a sonagli, finché non gli cade in gola. Io sono quella alla quale tu stai cercando di sfuggire.

Islandese. La Natura?

Natura. Proprio io.

Islandese. Mi dispiace profondamente e sono certo che una sfortuna più grande di questa non mi poteva capitare.

Natura. Potevi ben immaginare che io frequentassi questi luoghi selvaggi, dove si manifesta più che altrove la mia potenza, come dovresti ben sapere. Ma che cosa ti ha spinto a fuggire da me?

Islandese. Devi dunque sapere che fin dalla prima giovinezza, ben presto mi apparve perfettamente chiara la vanità della vita e la stupidità degli uomini. Essi combattono continuamente contro i propri simili per ottenere piaceri che non appagano e beni che non servono. Inoltre, causano e sopportano, reciprocamente, infinite sofferenze e mali, che procurano affanni e sono dannosi. Infine, quanto più cercano la felicità, tanto più se ne allontanano. Per queste considerazioni, abbandonato ogni altro desiderio, senza dare fastidio a nessuno, senza preoccuparmi di migliorare la mia condizione, senza litigare con altri per procurarmi dei beni, decisi di vivere una vita oscura e tranquilla. Convinto, inoltre, che i piaceri siano negati alla nostra specie, spesi tutte le mie energie nell’evitare, almeno, le sofferenze. Non che mi volessi sottrarre alle occupazioni e alle fatiche fisiche, poiché ben conosci la differenza tra la fatica e il disagio, tra il vivere quieto e il vivere in ozio. Appena presi questa decisione mi resi conto per esperienza diretta che non è possibile, pur non molestando nessuno, evitare che gli altri ti feriscano. Anche se sei remissivo e ti accontenti del minimo in ogni cosa persino questo ti viene impedito. Eppure, dai fastidi degli uomini mi liberai facilmente, allontanandomi dalla società e vivendo in solitudine, cosa che nella mia isola natale è senz’altro facile. Questo feci, vivendo senza alcuna speranza di felicità, ma non potei neppure vivere senza sofferenza. Infatti, la lunga durata dell’inverno, l’intensità del freddo e la calura estrema dell’estate, che contraddistinguono la mia isola, mi tormentavano di continuo. Il fuoco, vicino al quale ero costretto per lunghi periodi a vivere, mi inaridiva la pelle e mi tormentava gli occhi con il fumo. Sicché né in casa né all’aperto potevo salvarmi da un continuo disagio. Non potevo neppure conservare quella quiete della vita cui fondamentalmente miravo. Infatti, le terribili tempeste di mare e di terra, le eruzioni minacciose del monte Ecla, il timore di incendi, così frequenti nelle nostre abitazioni fatte di legno, mi turbavano continuamente. Tanto più che questi disagi, in una vita monotona, priva di desideri e speranze e di ogni altro impegno che non sia di renderla quieta, sembrano ancor più gravi di quanto appaiano quando il nostro animo è occupato dai pensieri della vita civile e dalle avversità causate dagli uomini.

Quando vidi che questo chiudermi in me stesso per impedire di dar noia non mi evitava inquietudini e tribolazioni, cercai di cambiare luoghi e climi, per vedere se da qualche parte potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. Fui indotto a questa decisione anche dall’ipotesi che forse tu avessi predisposto per il genere umano sulla terra solo un clima adatto, come hai fatto per gli animali e le piante, e solo certi luoghi, fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare e vivere senza difficoltà e sofferenza. Pensai che magari non fosse colpa tua ma degli uomini stessi, che avevano oltrepassato i confini prescritti dalle tue leggi per gli insediamenti umani. In tutto il mondo ho indagato e sono vissuto in quasi tutti i paesi, fedele al mio intento di non molestare le altre creature, per quanto mi fosse possibile, e di ricercare solo la tranquillità della vita. Tuttavia, sono stato arso dal caldo ai tropici, gelato dal freddo ai poli, tormentato nei climi temperati dalle continue perturbazioni e in ogni luogo dagli sconvolgimenti atmosferici. Ho visto parecchi posti in cui non passa giorno senza un temporale, il che significa che ogni giorno tu colpisci volutamente quegli abitanti, che non ti hanno fatto nulla di male. In altri luoghi la consueta serenità del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla furia dei vulcani e dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smisurati sconvolgono le regioni e le stagioni non tormentate da altre intemperie. Talvolta mi sono visto crollare addosso il tetto sovraccarico di neve, talaltra la terra è franata sotto i miei piedi per l’abbondanza delle piogge e altre ancora ho dovuto fuggire in tutta fretta di fronte a fiumi in piena, che m’inseguivano come se avessi fatto loro chissà quale offesa. Molte bestie selvatiche, da me non provocate in alcun modo, volevano divorarmi, molti serpenti avvelenarmi. In molti luoghi poco è mancato che gli insetti non mi consumassero fino alle ossa. Ma lasciamo perdere i pericoli ordinari e quotidiani, infiniti e sempre incombenti sull’uomo, tanto che un antico filosofo non trova miglior rimedio contro il timore che il temere ogni cosa. Neppure dalle malattie sono stato immune, benché io fossi e sia ancora particolarmente moderato nei piaceri del corpo.

Resto ammirato nel considerare come tu abbia infuso in noi una tale e tanto determinata e insaziabile avidità di piacere, senza la quale la nostra vita sarebbe qualcosa di imperfetto. E come, viceversa, tu abbia fatto in modo che questo desiderio di piacere sia tra le caratteristiche dell’uomo la più nociva per le forze e per la salute del corpo, la più dannosa per le sue conseguenze e la più contraria alla durata della vita stessa. In ogni modo, pur astenendomi, quasi completamente da ogni piacere, non ho potuto evitare di incappare in varie malattie, alcune delle quali mi hanno posto in pericolo di morte e altre di perdere l’uso di qualche arto o di condurre fino alla fine una vita più misera della precedente. Tutte mi hanno tormentato il corpo e l’animo con mille stenti e mille dolori. Ciascuno di noi è stato affetto da malattie vecchie o nuove, e da un’infelicità crescente, come se la vita non fosse abbastanza misera di suo. Tu però non hai dato all’uomo, come compenso, periodi di salute eccezionale, mai provata prima, che possa procurargli qualche piacere straordinario per qualità e grandezza. Nei paesi coperti dalla neve sono quasi diventato cieco, come accade normalmente ai Lapponi. Dal sole e dall’aria, elementi vitali e necessari alla vita, che perciò non si possono evitare, siamo continuamente colpiti. Dall’aria con l’umidità, con il freddo e con altre condizioni, dal sole con il calore e con la luce stessa, tanto che l’uomo non può starsene esposto all’una o all’altro senza subirne le conseguenze negative. Infine, non ricordo un solo giorno della mia vita privo di sofferenza, mentre sono innumerevoli quelli trascorsi senza neppure un’ombra di piacere. Il soffrire fa parte del nostro destino quanto il non godere, il vivere quieti è tanto impossibile quanto il vivere inquieti e senza patimenti. Devo quindi concludere che tu sei nemica dichiarata degli uomini, degli altri esseri viventi e di tutte le tue creature, poiché ora ci insidi, ora ci minacci, ora ci colpisci, ora ci tormenti, ora ci percuoti, ora ci laceri e sempre ci molesti e ci perseguiti. Inoltre, per abitudine e di proposito, sei carnefice della tua stessa famiglia e dei tuoi figli, per così dire del tuo stesso sangue e delle tue stesse viscere. Non ho quindi alcuna speranza, perché mentre gli uomini smettono di perseguitare chi li sfugge e si nasconde con determinazione, tu, invece, per nessuna ragione smetti di incalzarci, finché ci distruggi.

Già vedo avvicinarsi il tempo amaro e lugubre della vecchiaia, male vero ed evidente, anzi insieme di mali e di miserie gravissime. Un male inevitabile, destinato da te per legge a tutti gli esseri viventi, intravisto da noi fin dalla giovinezza e preparato di continuo, una volta compiuti i venticinque anni, da un triste declino. Cosicché, appena un terzo della vita umana è assegnato al fiorire, pochi momenti alla maturità, tutto quel che rimane al declinare e ai fastidi che ne conseguono.

Natura. Credevi forse che il mondo fosse stato fatto per voi? Sia chiaro che io mi occupo ben poco di voi, nel creare e dare ordine alle mie opere, e che miro a tutt’altro che alla felicità o infelicità degli uomini. Quando vi molesto, in qualunque modo e con qualunque mezzo accada, io neppure me ne accorgo, se non rarissime volte. Lo stesso quando vi procuro piacere o qualche beneficio, perché non agisco, come voi invece credete, per darvi piacere o giovamento. Insomma, se anche mi capitasse di far estinguere la vostra specie, io neppure me ne accorgerei.

Islandese. Mettiamo il caso che qualcuno mi invitasse di sua iniziativa a una sua villa, con grande insistenza, e che io per compiacerlo vi andassi. E supponiamo che qui mi fosse data come dimora una cella tutta malmessa e in rovina, dove fossi in continuo pericolo di morte, umida, fetida, esposta al vento e alla pioggia. E supponiamo che costui non solo non si prendesse la briga di intrattenermi con qualche passatempo o comodità, ma che al contrario mi facesse somministrare solo il necessario a mantenermi in vita. E che poi lasciasse che i suoi figli e famigliari mi offendessero, mi schernissero, mi minacciassero e mi picchiassero. E che se io mi lamentassi con lui di questi maltrattamenti egli mi rispondesse: forse che ho costruito questa villa per te? E pensi forse che io tenga i miei figli e famigliari al tuo servizio? Ho ben altro a cui pensare che ai tuoi piaceri e di metterti a tuo agio. Io gli risponderei: se non hai fatto questa villa per me, potevi benissimo non invitarmi. Ma poiché spontaneamente hai insistito che io vi dimorassi, non dovresti fare in modo che io, per quanto ti è possibile, ci viva per lo meno senza tormenti e senza pericoli? Lo stesso dico ora. So bene che non hai creato il mondo al servizio degli uomini. Credo piuttosto che tu l’abbia fatto espressamente per tormentarli. Ora domando: ti ho forse chiesto di pormi in questo universo? O mi ci sono introdotto con la violenza e contro la tua volontà?

Se di tua volontà e a mia insaputa, senza che io avessi la possibilità di rifiutarmi, tu stessa mi hai collocato in questo tuo regno, non è forse compito tuo, se non di farmi lieto e contento, almeno di impedire che io debba soffrire ed essere tormentato, e che il vivervi non mi faccia del male? Questo dico di me, lo dico del genere umano e lo dico degli altri esseri viventi e di ogni creatura.

Natura. Tu sembri dimenticare che la vita di questo universo è un perpetuo ciclo di produzione e distruzione, inestricabilmente collegate tra di loro. Esse sono indispensabili l’una per l’altra, ed entrambe sono necessarie per la conservazione del mondo, che si dissolverebbe se una delle due venisse meno. Perciò sarebbe a suo danno se in esso vi fosse un qualche essere esente dalla sofferenza.

Islandese. Questo è quel che dicono i filosofi. Ma poiché quel che viene distrutto soffre e quello che distrugge non gode, e dopo poco finisce per essere distrutto anch’esso, spiegami quel che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova questa infelicissima vita dell’universo, conservata in virtù del male e della morte di tutte le cose che lo compongono?

Si dice che, mentre stavano discutendo in tal modo, sopraggiungessero due leoni, così magri e deperiti per la fame, che ebbero appena la forza di mangiare quell’Islandese. Ottenutone un po’ di ristoro, camparono ancora per quel giorno. Secondo altri, che negano questa circostanza, mentre l’Islandese parlava si levò un vento fortissimo, che lo fece cadere a terra e gli edificò sopra un grandissimo mausoleo di sabbia. Lì sotto egli si sarebbe disseccato perfettamente e sarebbe divenuto una bella mummia. Ritrovato in seguito da alcuni viaggiatori, si troverebbe oggi collocato nel museo di non so quale città d’Europa.

Testo originale

Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica, e passando sotto la linea equinoziale in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide da lontano un busto grandissimo, che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse.

Natura. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?

Islandese. Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.

Natura. Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.

Islandese. La Natura?

Natura. Non altri.

Islandese. Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere.

Natura. Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?

Islandese. Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali; che ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell’isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d’esser quieta; riescono di non poco momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini.

Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d’impedire che l’esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non m’inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di nessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo.

Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando come tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l’ordinario); tu non hai dato all’uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne’ paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l’uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all’una o all’altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi.

E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono.

Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

Islandese. Ponghiamo caso che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia?

Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.

Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.

Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?

Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.

Analisi del testo

L’operetta si sviluppa nelle seguenti sequenze:

  • Cornice introduttiva: si anticipano poche informazioni sui due personaggi del dialogo.
  • L’islandese decide di allontanarsi dagli uomini e dalla società per sottrarsi alle loro persecuzioni.
  • La natura inospitale della sua isola rende difficile la vita dell’Islandese.
  • L’Islandese si mette in viaggio per il mondo ma ovunque trova condizioni climatiche nocive all’uomo.
  • La fuga dalla Natura porta l’Islandese, paradossalmente, al cospetto della sua acerrima nemica.
  • La natura spiega che le sue leggi non sono fatte per il bene dell’uomo.
  • L’Islandese chiede perché la Natura lo abbia messo in questo mondo se poi lo ha destinato a soffrire.
  • La Natura replica che l’universo è un incessante processo di creazione e distruzione, inevitabili e intrinsecamente connessi tra di loro.
  • L’Islandese chiede per chi, allora, sia stato creato l’universo, poiché nessun individuo ne trae piacere.
  • Cornice conclusiva: si formulano due ipotesi sulla fine dell’Islandese, divorato da due leoni macilenti o sepolto sotto una bufera di sabbia.

Natura matrigna.

In questo testo si esprime il superamento del cosiddetto pessimismo storico: la natura non è madre benevola da cui l’uomo si sarebbe allontanato con il “progresso“. Essa è invece la causa originaria dei mali dell’uomo (pessimismo cosmico).

La Natura è dentro di noi.

Dopo la fuga dalla civiltà, alla quale egli è in qualche modo riuscito a sottrarsi, l’Islandese tenta un’impossibile fuga dalla natura. Ma la Natura è ovunque e da essa non è perciò possibile fuggire. Essa infatti non è solo fuori di noi, ma dentro di noi, che di essa facciamo parte. Il punto d’arrivo involontario dell’Islandese è l’incontro con la Natura da lui inutilmente rifuggita.

La Natura indifferente.

L’insaziabile avidità di piacere, l’impossibilità di ottenerlo, lo squilibrio tra piaceri e dolori sono inevitabilmente intrecciati alla condizione umana, così come l’invecchiare e il progredire verso la morte, dopo le illusorie, giovanili speranze. L’Islandese accusa la Natura di essere colpevole di tutto questo. La Natura replica alle accuse dicendo di non essere consapevole del male causato e dichiara la propria assoluta indifferenza al destino umano e l’irrilevanza dell’uomo nell’universo.

Un universo privo di senso.

L’Islandese incalza: non sono stato io a chiedere di venire al mondo, tu mi ci hai posto, tu sei dunque oggettivamente colpevole della mia esistenza e della mia sofferenza. La Natura replica: l’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, che impone a ogni essere vivente di soffrire e di morire, affinché la vita stessa dell’universo si conservi. Il dialogo termina con una domanda dell’Islandese, destinata a rimanere senza risposta: che senso ha l’universo? A chi giova che esso esista? La risposta è implicita: l’intero universo, non solo l’esistenza dell’uomo, non ha senso né scopo alcuno.

Il finale ironico.

Il finale dell’operetta aggiunge una nota amaramente ironica: a togliere di mezzo l’Islandese, impedendo che la Natura risponda all’inquietante interrogativo, sono forse due leoni macilenti che mangiandolo riescono per quel giorno a sopravvivere. O forse invece l’Islandese, travolto da un turbine di vento e sepolto dalla sabbia, finirà mummificato e portato da alcuni viaggiatori in qualche museo d’Europa.

Esercizi di analisi del testo

  1. Il dialogo è introdotto da una cornice: sintetizzane il contenuto.
  2. Quali sono i tratti del volto attribuiti alla Natura?
  3. In che modo l’Islandese è riuscito a sfuggire alle persecuzioni degli uomini?
  4. Quali sono i tormenti provocati dalla Natura all’uomo e perché egli non può evitarli?
  5. Perché la Natura è indifferente ai bisogni dell’uomo? Quali conseguenze ne derivano per lui?
  6. A quale concezione rimanda l’affermazione della Natura “la vita di quest’universo è un perfetto circuito di produzione e di distruzione”?
  7. Qual è la domanda che l’Islandese pone, di conseguenza, alla Natura? In che senso si tratta di una domanda retorica?
  8. Quali sono le due ipotesi, presentate nella conclusione, sul destino dell’Islandese?
  9. Perché l’operetta segna il passaggio dal pessimismo storico al pessimismo cosmico?

 

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