La vera storia della monaca di Monza

monaca di Monza

La vera storia della monaca di Monza

Marianna de Leyva (o Suor Virginia Maria) è meglio conosciuta come la Monaca di Monza (Gertrude) del romanzo I promessi sposi.

 

L’infanzia

Marianna de Leyva nacque nel 1575 da Virginia Maria Marino (vedova di Ercole Pio di Savoia) e da Martín de Leyva y de la Cueva-Cabrera, secondogenito di Luis e nipote di don Antonio de Leyva, gran capitano di Carlo V che aveva ricevuto il feudo di Monza dal duca Francesco II Sforza e successivamente era divenuto il primo governatore spagnolo di Milano nel 1535. Marianna visse i suoi primi mesi di vita a palazzo Marino, simbolo del potere economico e politico del nonno materno Tommaso, importante banchiere genovese e pilastro finanziario del potere di Carlo V nello Stato di Milano. Le nozze di Martín de Leyva con Virginia Marino, vedova di Ercole Pio di Savoia signore di Sassuolo, costituivano un tassello rilevante della strategia familiare dei Leyva in terra lombarda. 

La morte della madre e le seconde nozze del padre

Nel 1576 la madre di Marianna, Virginia Maria, morì, presumibilmente di peste, quando la piccola non aveva ancora un anno. La donna lasciò eredi universali in parti uguali i figli avuti dai suoi due matrimoni. A Marianna spettò la proprietà di palazzo Marino e metà del patrimonio da dividere con Marco Pio di Savoia, figlio del primo marito il conte Ercole Pio di Savoia. Da qui nacque una serie di controversie legali e malversazioni finalizzate a privare la piccola Marianna dell’eredità materna. Inoltre, Martino de Leyva si risposò a Valencia, in Spagna, nel 1588 con donna Anna Viquez de Moncada, facendosi una nuova famiglia, con la nascita di diversi figli maschi.

Marianna entra in convento

All’età di tredici anni la ragazza fu così indotta a entrare nel monastero di Santa Margherita in Monza, decisione a cui non fu estranea la bigotta zia paterna Marianna Stampa-Soncino, alle cui cure era stata affidata dal padre assente, partito per servire don Giovanni d’Austria in guerra nelle Fiandre, dove sarebbe rimasto fino al 1580. Con un atto notarile del 15 marzo 1589, Martín costituì la dote spirituale di 6000 lire imperiali per la figlia in occasione del suo ingresso nel monastero benedettino di clausura di S. Margherita di Monza, con l’impegno al versamento nelle casse del monastero al momento della professione monacale della Leyva. Accanto a tale somma, il padre si impegnò a pagare 212 lire e mezza all’anno fino alla professione e alla consegna della dote, più altre 300 lire annue per tutta la vita della giovane. Marianna entrò come novizia nel monastero e il 12 settembre 1591 fece la Professione e divenne monaca, con il nome della madre, Virginia Maria. Il padre chiese e ottenne una proroga di due anni per la corresponsione della dote spirituale, che peraltro non avrebbe mai versato.

L’incontro con Giovanni Paolo Osio

Marianna divenne responsabile delle educande e in quanto “signora” di Monza esercitava autorità feudale sulla cittadina. Nel 1597 ebbe il primo incontro con il giovane Giovanni Paolo Osio, appartenente a un’agiata famiglia di Monza. Bello e ricco, l’Osio vantava rapporti di amicizia con importanti famiglie lombarde. Era inoltre in ottimi rapporti con il monastero di S. Margherita, le cui finestre davano sul giardino della casa della sua famiglia. 

Marianna denunciò il tentativo di Giovanni Paolo di intrecciare una relazione amorosa con un’educanda, che venne subito allontanata dal convento. Nell’ottobre 1597 Paolo Osio fu accusato dell’omicidio di Giuseppe Molteni, sovrintendente dei de Leyva a Monza. La monaca cercò di farlo arrestare, ma lui riuscì a fuggire. Dopo un anno di latitanza, grazie alle pressioni di illustri personaggi, la “signora” acconsentì a concedergli la “remissione” del delitto.

La relazione con Giovanni Paolo Osio

Al ritorno Giovanni Paolo iniziò a corteggiare suor Virginia Maria, con lettere e doni. Nacque così una vera e propria relazione amorosa, grazie alla contiguità fra il monastero e la casa degli Osio, alla complicità di don Paolo Arrigone, curato di S. Maurizio a Monza e delle monache Benedetta e Ottavia. Rimasta incinta, nel 1602, Marianna partorì un bambino morto. Tale avvenimento aprì una fase di umori altalenanti in lei, con crisi di coscienza e tentativi di troncare la relazione, che comunque proseguì. Nell’agosto 1604 Virginia Maria diede alla luce una bambina, Alma Francesca Margherita. Dopo il secondo parto, suor Virginia uscì varie volte dal convento per vedere la bambina in casa dell’Osio. Altre volte invece gliela portavano dentro il convento. L’Osio, in un primo tempo, affidò la piccola a una coppia di servitori, poi nel 1606 la riconobbe come propria figlia. 

L’assassinio di Caterina

In quello stesso anno una conversa del monastero, Caterina Cassini da Meda, messa in punizione da suor Virginia, minacciò di denunciare lei e le sue complici al vicario arcivescovile che pochi giorni dopo avrebbe visitato il monastero. Così, la sera del 28 luglio, Benedetta e Ottavia fecero entrare nel monastero l’Osio che uccise la conversa con tre colpi in testa e ne nascose il cadavere. Poi aprì un buco nel muro del monastero, per far credere a una sua fuga. 

Sospetti, indagini e crimini

Le voci sulla relazione fra Giovanni Paolo e la monaca cominciarono ugualmente a diffondersi, finché, durante il carnevale del 1607, in seguito all’omicidio del fabbro che aveva fatto le chiavi con cui Osio accedeva convento, forse autore di pettegolezzi, e al tentativo di assassinio dello speziale Rainiero Roncino, le autorità disposero l’arresto dell’Osio e il suo imprigionamento nel castello di Pavia. Di tutta la vicenda incomincia fu informato il governatore di Milano Pedro Enriquez Acevedo conte di Fuentes, che nel 1607 fece arrestare e incarcerare a Pavia Paolo Osio. Intanto anche il Cardinale Borromeo indagò sulla vicenda e tra luglio e agosto fece visita più volte al convento per parlare con le suore. Intanto il 28 settembre l’Osio fuggì dal carcere, tornò segretamente a Monza e ordinò a un bravo di uccidere lo speziale Roncino, colpevole di aver fatto rivelazioni sulla storia, e fece incolpare di questa morte il prete Arrigone, che fu arrestato. Il 25 novembre 1607 il Cardinale Borromeo fece condurre suor Virginia a Milano e la fece rinchiudere nel monastero di S. Ulderico, detto del Bocchetto. Due giorni dopo il vicario arcivescovile Girolamo Saracino diede avvio all’inchiesta nel monastero di S. Margherita. 

Suor Benedetta e Suor Ottavia

Il 29 novembre Suor Benedetta chiese a Osio di farla scappare insieme a Suor Ottavia. La sera stessa uscirono dal convento tramite un buco aperto nel muro e incontrarono l’uomo, che le condusse fuori città. Arrivati sul ponte del fiume Lambro Osio tentò di uccidere Suor Ottavia buttandola nel fiume e colpendola ripetutamente con l’archibugio sulla testa. La suora riuscì a sopravvivere, fu soccorsa e trasportata nel monastero di Sant’Orsola a Monza dove morì qualche giorno dopo per le ferite, dopo aver fornito la sua versione sulle delittuose vicende. Paolo Osio tentò di uccidere anche Suor Benedetta, buttandola in un pozzo. La suora si ruppe due costole e il femore ma sopravvisse, fu soccorsa e trasportata al monastero e qui iniziò a confessare. Nel pozzo in cui era stata gettata suor Benedetta, fu trovata anche la testa di Caterina e successivamente furono trovati i suoi resti nella casa dell’Osio. In seguito la casa, su istanza del Senato, fu distrutta mentre lui si rifugiò a Venezia. Furono arrestate anche le altre suore complici: Suor Candida Colombo e Suor Silvia Casati. 

Il processo a Suor Virginia

Iniziata l’inchiesta il 27 novembre 1607, il 22 dicembre a Milano Suor Virginia fu interrogata. Ella ammise la relazione con Gian Paolo Osio e l’assassinio della conversa, ma addossò completamente la colpa di tutto all’uomo e cercò di presentarsi come vittima di forze diaboliche avevano esercitato su di lei una forza irreversibile. La monaca descrisse con dovizia di particolari il tormentato rapporto di attrazione-repulsione con l’Osio, culminato, dopo una serie di galanterie e di colloqui, nella violenza sessuale di cui era stata vittima da parte del giovane, con la complicità delle monache Ottavia e Benedetta. Drammatici risultano dalla sua testimonianza gli sviluppi della vicenda: la relazione, le gravidanze, i tentativi di mortificazione e il ricorso a pratiche superstiziose e magiche per allontanare l’Osio, fino al drammatico epilogo dell’assassinio della conversa, del quale essa dichiarò di essere stata solo testimone. Durante il processo, tra l’altro, dichiarerà di aver cercato più volte di mettere fine alla relazione, eliminando le chiavi che permettevano a Osio l’accesso al monastero, meditando il suicidio e perfino diventando “coprofaga” delle feci dell’amante. Sostenne tuttavia di non esservi riuscita, perché vittima di un maleficio ordito dall’Osio, di cui sarebbero state testimonianza la presenza nel suo letto di “osse dei morti, ratti morti, corde di ferro uncini…” e una “calamita” che l’amante le aveva donato. Nel corso del secondo interrogatorio, il 14 giugno successivo, suor Virginia fu sottoposta a tortura, secondo la prassi giudiziaria del tempo, al fine di confermare la veridicità delle sue dichiarazioni.

La condanna di Paolo Osio

Il 2 gennaio 1608 Osio fu citato in giudizio per i due tentati omicidi, per l’omicidio di Caterina e per aver cercato di incolpare don Arrigone per l’uccisione del farmacista. Le indagini della giustizia laica, affidate al senatore Juan de Salamanca e al giudice Giovanni Francesco Torniello, si conclusero nel febbraio 1608, con la sentenza di condanna a morte in contumacia e di confisca di tutti i suoi beni (25 febbraio 1608). Dopo essersi rifugiato dai nobili Taverna a Milano, fu da loro ucciso a tradimento, a bastonate, nei sotterranei del loro palazzo (oggi Palazzo Isimbardi).

La sentenza e la reclusione

Intanto il processo a suor Virginia proseguì e furono raccolte diverse testimonianze sugli eventi. Si concluse il 18 ottobre 1608, quando venne letta la sentenza di colpevolezza che la condannava a essere murata a vita in una cella nella Casa delle donne convertite di S. Valeria di Milano. Il 27 luglio 1609, a conclusione del processo, fu emessa la sentenza contro le altre suore (Benedetta, Candida e Silvia) condannate ad essere murate vive a vita nel convento di S. Margherita. Le condizioni in cui suor Virginia visse dopo la condanna per oltre tredici anni erano durissime. La cella in cui si trovava era “larga tre braccia, lunga cinque” cioè circa 3 metri per 1,80 circa, con una sola stretta apertura nella parete ricevere il cibo e la luce per recitare il breviario. La cella era un luogo buio, umido e malsano, dove la donna doveva sopportare i rigori dell’inverno e il soffocante caldo dell’estate, in condizioni igieniche deprecabili. Viveva inoltre isolata da tutti e senza alcun contatto umano.

La liberazione

Il 25 settembre 1622, dopo circa 14 anni di segregazione, Suor Virginia espresse il suo pentimento e dopo ripetute richieste riuscì a incontrare il Cardinale Borromeo. In un primo momento il Cardinale aveva rifiutato l’incontro, ma poi si convinse del sincero pentimento della donna, che poté uscire dalla cella dov’era stata murata. Il Cardinale, anzi, la incaricò di scrivere delle lettere per le monache che attraversavano momenti di crisi.

Suor Virginia ovvero Marianna de Leyva morì il 7 gennaio 1650 a Milano presso la Casa di S. Valeria.

I Promessi Sposi e la Monaca di Monza

Ne I Promessi Sposi, Alessandro Manzoni riprende la figura della “Monaca di Monza”. Tuttavia cambia i nomi ai personaggi (suor Virginia è chiamata nel romanzo Gertrude, il suo amante Egidio) e colloca la vicenda in avanti nel tempo di alcuni anni (tra il 1628 e il 1630, oltre vent’anni dopo). Secondo il racconto di Manzoni, la ragazza è destinata al chiostro fin dalla nascita, ma ciò non sembra corrisponda alla verità storica. In una lettera del 26 giugno 1586 il padre parla delle prospettive matrimoniali di Marianna e di una dote di 7000 ducati. La svolta si verifica nel 1588, quando il padre si risposa, allontanandosi così definitivamente da Milano.

“…la sventurata rispose”

La giovane Gertrude nella narrazione di Manzoni viene indotta a entrare in convento con una costante e sottile opera di persuasione, iniziata fin dalla sua infanzia, alla quale poco alla volta ella si piega. La prima stesura del romanzo (il “Fermo e Lucia”) tratta estesamente la vicenda della relazione con Egidio. Nella versione definitiva Manzoni preferì invece omettere questa parte, limitandosi a narrarne l’inizio con una frase divenuta proverbiale: quando l’uomo le rivolge la parola, “la sventurata rispose“. Nel romanzo suor Gertrude, su richiesta di fra’ Cristoforo, protegge Lucia in fuga da Lecco, ospitandola nel convento. Dapprima le si affeziona e la protegge ma poi la tradisce ed è complice del suo rapimento da parte dei bravi dell’Innominato.

 

Fonti e Bibliografia: 

Vita e processo di suor V.M. de L. monaca di Monza, a cura di U. Colombo, Milano 1985; 

G. Farinelli, La monaca di Monza nel tempo, nella vita e nel processo originale rivisto e commentato, Azzate 1999; 

Ripamonti, Historiae patriae. Decade V, lib. VI, Mediolani s.d., pp. 358-377; 

A.M. Tonucci, Virginia-Gertrude tra storia e romanzo: fascino e fortuna di un personaggio, ibid., pp. 871-924.

Enrico Guarneri, Monaca per sempre. Marianna de Leyva tra romanzo e documento, Sellerio, Palermo 2003.

Leyva, Virginia Maria de, in <Dizionario Biografico degli Italiani>, Treccani, Roma 2004.

Giuseppe Farinelli-Ermanno Paccagnini (a cura di), Vita e processo di suor Virginia Maria de Leyva, Monaca di Monza, Garzanti, Milano 1985.

Silvano Cavazzam La monaca di Monza e la grazia della filologia, Belfagor, Vol. 41, No. 6 (30 novembre 1986), pp. 621-632 (12 pages)

 

 

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