Svevo, Lo schiaffo del padre

Svevo, Lo schiaffo del padre 

Capitolo IV, La morte di mio padre

– Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!

Il rapporto tra genitori e figli è tra i più importanti dell’esistenza di qualsiasi essere umano. Anche quando si presenta in termini conflittuali, non può che contenere una forte dose di coinvolgimento emotivo ed affettivo. Il distacco dai genitori è un fatto naturale, nel momento in cui il figlio acquisisce la maturità e l’autonomia che gli permetteranno di intessere nuove relazioni. Anche quando la separazione è traumatica e caratterizzata da forti contrasti, essa contiene forti ambivalenze affettive che, secondo la visione freudiana, hanno la loro origine nel cosiddetto complesso di Edipo. Nella vita di Zeno un aspetto importante è rappresentato dal rapporto col padre. Egli rievoca, in particolare, il momento drammatico della morte, seguito dal proposito dell’ennesima “ultima sigaretta”. La perdita della madre a 15 anni aveva avuto un effetto di rafforzamento del suo carattere, nel senso di una maggior fermezza e concretezza di propositi, mentre la morte del padre rappresenta per Zeno una “catastrofe”.

 

Avevamo tanto poco di comune fra di noi, ch’egli mi confessò che una delle persone che più l’inquietavano a questo mondo ero io. Il mio desiderio di salute m’aveva spinto a studiare il corpo umano. Egli, invece, aveva saputo eliminare dal suo ricordo ogni idea di quella spaventosa macchina. Per lui il cuore non pulsava e non v’era bisogno di ricordare valvole e vene e ricambio per spiegare come il suo organismo viveva. Niente movimento perché l’esperienza diceva che quanto si moveva finiva coll’arrestarsi. Anche la terra era per lui immobile e solidamente piantata su dei cardini. Naturalmente non lo disse mai, ma soffriva se gli si diceva qualche cosa che a tale concezione non si conformasse. M’interruppe con disgusto un giorno che gli parlai degli antipodi[1]. Il pensiero di quella gente con la testa all’ingiù gli sconvolgeva lo stomaco.

Egli mi rimproverava due altre cose: la mia distrazione e la mia tendenza a ridere delle cose più serie. In fatto di distrazione egli differiva da me per un certo suo libretto in cui notava tutto quello ch’egli voleva ricordare e che rivedeva più volte al giorno. Credeva cosí di aver vinta la sua malattia e non ne soffriva più. Impose quel libretto anche a me, ma io non vi registrai che qualche ultima sigaretta.

In quanto al mio disprezzo per le cose serie, io credo ch’egli avesse il difetto di considerare come serie troppe cose di questo mondo. Eccone un esempio: quando, dopo di essere passato dagli studii di legge a quelli di chimica, io ritornai col suo permesso ai primi, egli mi disse bonariamente: – Resta però assodato che tu sei un pazzo. […]

Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d’uopo che ogni mio sentimento fosse affievolito dagli anni.

L’infermiere mi disse:

– Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza!

Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?

Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò:

– Muoio!

E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli poté sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!

Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell’orecchio:

– Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!

Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più:

– Ti lascerò movere come vorrai.

L’infermiere disse:

– È morto.

Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza!

Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia.

Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre!

Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l’infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: – Il padre alzò alto alto la mano e con l’ultimo suo atto picchiò il figliuolo. – Egli lo sapeva e perciò Coprosich l’avrebbe risaputo.

Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere. L’infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma.

La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più rivederlo.

Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte.

Ritornai e per molto tempo rimasi nella religione della mia infanzia. Immaginavo che mio padre mi sentisse e potessi dirgli che la colpa non era stata mia, ma del dottore. La bugia non aveva importanza perché egli oramai intendeva tutto ed io pure. E per parecchio tempo i colloqui con mio padre continuarono dolci e celati come un amore illecito, perché io dinanzi a tutti continuai a ridere di ogni pratica religiosa, mentre è vero – e qui voglio confessarlo – che io a qualcuno giornalmente e ferventemente raccomandai l’anima di mio padre. È proprio la religione vera quella che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto di cui qualche volta – raramente – non si può fare a meno.

[1] Antipodi: Ogni punto della superficie del nostro pianeta ha un antipodo, un luogo, cioè, che si trova esattamente all’estremità opposta del globo, tanto che una retta che parta dal luogo in cui ci si trova e scenda verticalmente verso il centro della Terra, se prolungata, uscirebbe sulla superficie terrestre proprio all’antipodo.

freud

 

Analisi del testo

Una sera di fine marzo il padre Zeno si sente male e durante la notte le sue condizioni peggiorano rapidamente. All’alba giunge il dottor Coprosich, che diagnostica un incurabile edema cerebrale. L’applicazione delle sanguisughe produce nel malato un temporaneo miglioramento. Poi, una notte, la fine: Zeno cerca di costringere a letto il padre ma questi dice “Muoio”; Zeno allenta la presa, il padre si alza in piedi, solleva in alto una mano, la lascia ricadere sul volto del figlio poi crolla a terra morto. A Zeno resta per tutta la vita il dubbio di aver ricevuto un’estrema punizione da parte del padre morente, anche se, nei ricordi seguenti, i suoi rapporti col padre gli appaiono ormai in una luce positiva.

Il capitolo è interamente dedicato dalla narrazione della morte del padre. L’evento è centrale nella vita del protagonista, sottolineato dall’ennesima ultima sigaretta. Nel capitolo emerge con evidenza come tutti gli avvenimenti siano descritti dal punto di vista e dal sentire di Zeno, per il quale la morte del padre rappresenta “l’avvenimento più importante della mia vita”… “una vera, grande catastrofe”.

Di fronte al padre malato Zeno si accorge dell’affetto che lo lega a lui, in contrasto con i precedenti rapporti che, pur non essendo apertamente conflittuali, erano caratterizzati da reciproca diffidenza, da incomprensione ed estraneità: il padre lo considera un incapace, un inetto; Zeno risponde con l’indifferenza e con l’ironia, persino con il disprezzo. Zeno imputa al padre una rozza assenza di apertura mentale e di problematicità. Il padre considera Zeno “una delle persone che più l’inquietavano in questo mondo”, soprattutto per la sua disattenzione e per la “tendenza a ridere delle cose più serie”. Il rapporto tra Zeno e il padre è un rapporto ambivalente: desiderio edipico della sua morte, da un lato, bisogno di protezione e di sicurezza dall’altro. Quando, trentenne, si accorge che sta per perderlo, è in preda all’angoscia e ai sensi di colpa.

Lo schiaffo con cui il vecchio lo colpisce prima di morire, probabile gesto involontario di un moribondo, viene vissuto da Zeno come un’estrema punizione, che alimenta ulteriormente i suoi rimorsi. Egli si sente come un bambino punito e invoca il suo perdono. Questo sentimento è rafforzato dalle parole dell’infermiere che, raccontando l’accaduto a Maria, la domestica, attribuisce al padre del protagonista un’estrema volontà consapevole di punirlo. Il rimorso perdura nel tempo, nonostante l’apparente rappacificazione postuma davanti al feretro. Zeno riconosce la forza e l’autorità paterna, a lungo negata, ma il padre è ormai defunto e quindi ormai impotente.

Esercizi di analisi del testo

  1. Con quali espressioni Zeno definisce la morte di suo padre?
  2. Il rapporto tra Zeno e il padre è spesso conflittuale. Quale opinione ha Zeno del padre e quale opinione ha il padre di Zeno?
  3. In che cosa consiste la “scena terribile che non dimenticherò mai”? Riassumila
  4. In che modo viene vissuta da Zeno questa vicenda? Perché si può parlare di “complesso di Edipo”?

 

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