Donald Roy Burleson , L’ultima cena

ultima cena

Donald  Roy Burleson , L’ultima cena

 

L’autore. Nato nel 1871 a Springfield, conseguì nel 1898 la Laurea in Medicina presso l’Università di Filadelfia. Sposò la figlia di un ricco proprietario terriero ed esercitò la sua professione fino alla morte, nel 1933. Scrisse saggi e articoli di carattere medico, mentre limitata fu la sua produzione narrativa.

Quel luogo aveva un aspetto infernale in notti come quella. Il mio cuore aveva accelerato i battiti sia per il paesaggio spettrale, sia per la prospettiva dell’azione terribile, significativa e coerente, che stavo per intraprendere.
Era uno di quegli antichi e oscuri cimiteri del New England, cui nessun ghoul [1] esteticamente sensibile poteva non essere legato. Si trovava lungo una strada sconnessa e poco trafficata, che costeggiava un fiume dalle rive erbose e dall’aspetto cupo, che scorreva pigramente dietro un muro di pietra. Ai lati del terreno adibito a sepoltura non c’era nient’altro oltre le distese di suolo roccioso, abbandonato e desolato. Lo stesso cimitero rappresentava una vera delizia per un ghoul, visto che era molto arretrato rispetto al cancello che dava sulla strada, accanto al quale sorgeva la sgangherata baracca di legno usata dal guardiano notturno. Il camposanto si estendeva su un terreno ondulato, coperto da rade erbacce e fittamente punteggiato di lapidi. Nel primo tratto, le pietre tombali segnavano il luogo di sepolture recenti ma, mano a mano che si procedeva verso l’interno, le lapidi diventavano più vecchie e peggio tenute.
In un angolo oscuro, il più lontano dalla strada, le pietre diventavano lastre di ardesia nera e segnalavano, con le loro iscrizioni arcaiche e le massicce sculture, il luogo dell’eterno riposo dei primi coloni della città.
Quell’angolo più antico era per me il più piacevole artisticamente, soprattutto quando c’era un cielo fosco, un cielo in cui una luna gialla si ulcerava in una luce pallida e malata al di sopra dei salici. E soprattutto quando il vento gemeva flebile e dava agli alberi un’animazione lieve ma affascinante. Ma, a parte queste considerazioni estetiche, devo confessare che le parti più nuove di quel caratteristico cimitero avevano per me un significato più diretto e più pratico.
Infatti, nelle tombe antiche e più remote le cui lapidi avevano iscrizioni che risalivano al XVIII secolo, non c’era nulla che potesse cibare un ghoul affamato. Le tombe più nuove e più vicine erano invece una riserva di carne in putrefazione, nota non solo a me, ma anche a un certo numero di miei amici con appetiti simili.
Era a causa della morte prematura di uno di quei praticanti notturni della profanazione, in effetti, che i miei amici sopravvissuti e io eravamo andati in quel cimitero quella particolare notte: ci eravamo andati per un banchetto non comune. Eravamo tutti ghoul e avevamo una tale armonia empia di pensiero che non avevamo mai deciso la particolare notte in cui dovevamo riunirci in solenne conclave: l’avevamo sentito, ed eravamo arrivati. Eravamo invisibili, ma eravamo presenti. L’unico movimento visibile in quel paesaggio oscuro, erano le oscillazioni della luce del vecchio guardiano notturno che faceva le sue ronde. Camminava con passo strascicato lungo i sentieri, bevendo abbondanti sorsate dalla bottiglia che teneva a portata di mano, come noi sapevamo. Lo guardavamo con divertimento e curiosità dai nostri vari nascondigli nel buio: dietro una grande quercia nodosa, dietro una lapide particolarmente larga, all’ombra di un tumulo, dovunque ci fosse un riparo. Guardavamo la sua figura camminare, poi la vedemmo oltrepassare la tomba che ci aveva attirati tutti in quel cimitero.
Era la tomba di Rowley Ames, che tutti noi avevamo conosciuto e rispettato in anni e anni di piaceri proibiti, Rowley Ames, la cui padronanza profonda ed esperta dell’arte dei ghoul, i miei amici ed io potevamo considerare solo con rispetto e con stima genuina.
Era stato il Maestro, e un giovane con tendenze necrofaghe, non avrebbe potuto far meglio che studiare al fianco di quel predatore notturno, ispirato e ispiratore. Il giovane ghoul avrebbe dovuto osservarlo e imitarlo quando lui decideva l’ora e il luogo della sua conquista, quando esumava qualche soggetto accuratamente scelto, e passava l’ora successiva a lacerare e masticare, come solo un artista dotato potrebbe fare.
Io stesso avevo appreso molto da lui, e quella sera ero lì, come i miei amici, a dargli l’ultimo saluto, non l’insipido “ultimo saluto” del suo sciocco funerale avvenuto qualche settimana prima, ma l’unico e solo omaggio che avremmo potuto fargli. Tutti noi avevamo capito fin dal primo momento, naturalmente, che l’unico tributo da rendere a Rowley Ames doveva consistere nel riunirsi intorno alla sua tomba per un grande banchetto, per mangiare la sua carcassa che si era tanto a lungo cibata di cadaveri.
Naturalmente, sarebbe stato solo un atto simbolico: eravamo in dodici, il resto di una congrega di mangiatori di cadaveri rimasti senza il loro degno capo. Il suo corpo, devastato com’era dalla malattia, avrebbe offerto un boccone a ciascuno di noi. Ma sarebbe stato sufficiente e questa era la nostra sensazione – sarebbe stato il modo in cui egli avrebbe voluto essere ricordato. Per un tacito accordo, avevamo atteso molte settimane finché la putrefazione fosse arrivata al punto giusto, e finalmente era arrivato il momento.
Dal mio nascondiglio guardai con una certa impazienza il vetusto guardiano completare il suo stanco giro e ritornare alla capanna decrepita che era accanto al cancello. Non passò molto che il vecchio crollò nel suo solito sonno alcoolico. Allora uscimmo dalle ombre per cominciare l’opera.
Alla luce pallida della luna, ci raccogliemmo intorno alla tomba di Rowley Ames e ci scambiammo silenziosi sguardi d’intesa. La tomba non era situata nell’angolo più arretrato e arcaico che tanto aveva attratto il suo senso estetico, ma nella sezione più nuova, tra i soggetti cui aveva dedicato le proprie attenzioni notturne. Era un’ironia del destino che le due tombe affianco alla sua, fossero state profanate dalle sue mani e dai suoi denti. Ed era arrivato anche il suo turno: eravamo venuti a rendergli l’ultimo omaggio.
Le parole non possono rendere appieno la bramosia, il desiderio, il senso di timore reverenziale con cui scavavamo la fetida terra. Ogni tanto lanciavamo occhiate furtive per accertarci di non essere osservati, oppure indulgevamo con lo sguardo sul cielo pallido che con i salici spettrali creava uno sfondo orrido al nostro banchetto. Ci chinavamo sulla terra in quella attesa ansiosa, e le nostre bocche masticavano, come se fossero già impegnate nei deliziosi piaceri sotterranei.
Mentre lavoravamo febbrilmente a scoprire la bara, a volte la mia mente era presa dal rispetto per il mio vecchio Maestro, e altre volte dalla pregustazione di mangiare il corpo di una persona che si era nutrita di innumerevoli cadaveri. Mentre ero avvinto da questi pensieri, la mia mano toccò una superficie dura sotto il suolo umido. Capii che il banchetto stava per avere inizio.
Affondando per lo sforzo, alzammo la bara a livello del terreno e ci raccogliemmo intorno, in un circolo di visi ansiosi. In quello scenario morboso, illuminato da una luna malaticcia e mosso da un vento lamentoso, noi, i suoi fedeli discepoli in quell’arte innominabile, ci radunammo, pronti a guardare i suoi resti putrescenti, ad ammirarli, a dividerceli. Mormorammo litanie blasfeme, appropriate alla solennità dell’occasione, e sollevammo il coperchio.
Ci volle qualche secondo per capire che cosa stavamo vedendo. Non so a causa di quale inconcepibile processo organico, lui era vivo! Rowley Ames era vivo e si muoveva, sia pur debolmente, come se stesse di nuovo agonizzando.
Ma non fu il fatto in se stesso a farci fuggire, disgustati e disperati, non fu solo a causa della sua strana rianimazione e della risata sardonica con cui ci salutò quando sollevammo il coperchio della bara. Avremmo potuto essere lieti, invece, dell’inaspettata e anticipata riunione con il nostro Maestro. Normalmente, la nostra reazione non sarebbe stata certo quella di allontanarci nella notte e lasciare quella scena nel cimitero, che un cronista descrisse con grande disgusto il giorno seguente sul giornale.
No, quello che ci parve insostenibile, invece, fu il fatto che il ghoul Rawley Ames giaceva nella sua bara con un ventre orrendamente gonfio, mentre il resto del suo corpo tiglioso e verminoso era mangiucchiato. Anche il miserabile aveva aspettato, ma non quanto noi e, contorcendosi nella bara, in quella strana rianimazione, aveva mangiato la propria carne putrefatta.

Comprensione e analisi del testo

  1. Quali aspetti del paesaggio il protagonista trova particolarmente suggestivi?
  2. Il protagonista è un ghoul che si trova in un cimitero con un gruppo di amici. Qual è l’impresa che devono compiere?
  3. Chi è Rawley Ames?
  4. Perché “le parti più nuove di quel caratteristico cimitero” hanno per lui “un significato più diretto e più pratico”?
  5. Quale sconvolgente sorpresa attende il protagonista e i suoi amici?
  6. In che modo l’autore utilizza la tecnica della suspence?

[1] Ghoul: persona viva che si ciba del corpo dei morti.

 

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