Goldoni, Alto, alto, padroni.

locandiera

Carlo Goldoni, Alto, alto, padroni.

Da Carlo Goldoni, La locandiera

 

SCENA DICIOTTESIMA

Mirandolina, Fabrizio e detti.

FABRIZIO: Alto, alto, padroni.

MIRANDOLINA: Alto, signori miei, alto.

CAVALIERE: (Ah maledetta!). (Vedendo Mirandolina.)

MIRANDOLINA: Povera me! Colle spade?

MARCHESE: Vedete? Per causa vostra.

MIRANDOLINA: Come per causa mia?

CONTE: Eccolo lì il signor Cavaliere. È innamorato di voi.

CAVALIERE: Io innamorato? Non è vero; mentite.

MIRANDOLINA: Il signor Cavaliere innamorato di me? Oh no, signor Conte, ella s’inganna. Posso assicurarla, che certamente s’inganna.

CONTE: Eh, che siete voi pur d’accordo…

MIRANDOLINA: Si, si vede…

CAVALIERE: Che si sa? Che si vede? (Alterato, verso il Marchese.)

MARCHESE: Dico, che quando è, si sa… Quando non è, non si vede.

MIRANDOLINA: Il signor cavaliere innamorato di me? Egli lo nega, e negandolo in presenza mia, mi mortifica, mi avvilisce, e mi fa conoscere la sua costanza e la mia debolezza. Confesso il vero, che se riuscito mi fosse d’innamorarlo, avrei creduto di fare la maggior prodezza del mondo. Un uomo che non può vedere le donne, che le disprezza, che le ha in mal concetto, non si può sperare d’innamorarlo. Signori miei, io sono una donna schietta e sincera: quando devo dir, dico, e non posso celare la verità. Ho tentato d’innamorare il signor Cavaliere, ma non ho fatto niente. (Al Cavaliere.)

CAVALIERE: (Ah! Non posso parlare). (Da sé.)

CONTE: Lo vedete? Si confonde. (A Mirandolina.)

MARCHESE: Non ha coraggio di dir di no. (A Mirandolina.)

CAVALIERE: Voi non sapete quel che vi dite. (Al Marchese, irato.)

MARCHESE: E sempre l’avete con me. (Al Cavaliere, dolcemente.)

MIRANDOLINA: Oh, il signor Cavaliere non s’innamora. Conosce l’arte. Sa la furberia delle donne: alle parole non crede; delle lagrime non si fida. Degli svenimenti poi se ne ride.

CAVALIERE: Sono dunque finte le lagrime delle donne, sono mendaci gli svenimenti?

MIRANDOLINA: Come! Non lo sa, o finge di non saperlo?

CAVALIERE: Giuro al cielo! Una tal finzione meriterebbe uno stile nel cuore.

MIRANDOLINA: Signor Cavaliere, non si riscaldi, perché questi signori diranno ch’è innamorato davvero.

CONTE: Sì, lo è, non lo può nascondere.

MARCHESE: Si vede negli occhi.

CAVALIERE: No, non lo sono. (Irato al Marchese.)

MARCHESE: E sempre con me.

MIRANDOLINA: No signore, non è innamorato. Lo dico, lo sostengo, e son pronta a provarlo.

CAVALIERE: (Non posso più). (Da sé.) Conte, ad altro tempo mi troverete provveduto di spada. (Getta via la mezza spada del Marchese.)

MARCHESE: Ehi! la guardia costa denari. (La prende di terra.)

MIRANDOLINA: Si fermi, signor Cavaliere, qui ci va della sua riputazione. Questi signori credono ch’ella sia innamorato; bisogna disingannarli.

CAVALIERE: Non vi è questo bisogno.

MIRANDOLINA: Oh sì, signore. Si trattenga un momento.

CAVALIERE: (Che far intende costei?). (Da sé.)

MIRANDOLINA: Signori, il più certo segno d’amore è quello della gelosia, e chi non sente la gelosia, certamente non ama. Se il signor Cavaliere mi amasse, non potrebbe soffrire ch’io fossi d’un altro, ma egli lo soffrirà, e vedranno…

CAVALIERE: Di chi volete voi essere?

MIRANDOLINA: Di quello a cui mi ha destinato mio padre.

FABRIZIO: Parlate forse di me? (A Mirandolina.)

MIRANDOLINA: Sì, caro Fabrizio, a voi in presenza di questi cavalieri vo’ dar la mano di sposa.

CAVALIERE: (Oimè! Con colui? non ho cuor di soffrirlo). (Da sé, smaniando.)

CONTE: (Se sposa Fabrizio, non ama il Cavaliere). (Da sé.) Sì, sposatevi, e vi prometto trecento scudi.

MARCHESE: Mirandolina, è meglio un uovo oggi, che una gallina domani. Sposatevi ora, e vi do subito dodici zecchini.

MIRANDOLINA: Grazie, signori, non ho bisogno di dote. Sono una povera donna senza grazia, senza brio, incapace d’innamorar persone di merito. Ma Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo punto alla presenza loro lo sposo…

CAVALIERE: Sì, maledetta, sposati a chi tu vuoi. So che tu m’ingannasti, so che trionfi dentro di te medesima d’avermi avvilito, e vedo sin dove vuoi cimentare la mia tolleranza. Meriteresti che io pagassi gli inganni tuoi con un pugnale nel seno; meriteresti ch’io ti strappassi il cuore, e lo recassi in mostra alle femmine lusinghiere, alle femmine ingannatrici. Ma ciò sarebbe un doppiamente avvilirmi. Fuggo dagli occhi tuoi: maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai fatto conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio imparare, che per vincerlo non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo. (Parte.)

La locandiera, Newton Compton Editori, 1994

 

 

 

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